È il momento del primo ebreo ortodosso nella storia della Nba

L'arrivo di Ryan Turrell, che osserva scrupolosamente i precetti della Torah ed è uno dei migliori giocatori collegiali, potrebbe cambiare per sempre la lega.

Digitando “Ryan Turell” nella query di YouTube, l’ultimo video in ordine cronologico è quello degli highlights della vittoria – la 34esima consecutiva, la quinta dall’inizio della nuova stagione, con il punteggio di 78-71 – dei “Maccabees” di Yeshiva University contro i “Blue Jays” di Saint Joseph dello scorso 27 febbraio. Una vittoria in cui Turell ha mandato a referto una statline 20 punti, otto rimbalzi, cinque assist e due stoppate in 38 minuti, tirando 8/18 dal campo e appena 1/4 da tre, quindi molto al di sotto del 63,6% (e 46,2 dall’arco) al tiro con cui aveva chiuso il 2019/2020. Le percentuali di Turrell non sono migliorate granché nemmeno nelle successive due partite – 8/20 e 22 punti il 1 marzo di nuovo contro i “Blue Jays”, 25 e 9/18 sette giorni dopo a Hoboken contro i “Ducks” di Stevens Institute – ma la sensazione guardando le immagini resta sempre la stessa: quella, cioè, di trovarsi di fronte a un giocatore che nel basket collegiale di Division III domina a piacimento senza nemmeno sforzarsi troppo.

Ryan Turell è, allo stesso tempo, la potenziale storia dell’anno e il segreto meglio custodito della costa Est. Nessuno dei tre international scout che abbiamo contattato ha saputo dirci qualcosa in più rispetto alle informazioni reperibili in rete, eppure il Los Angeles Times qualche giorno fa gli ha dedicato un articolo, ripreso da numerose testate nazionali, in cui lo racconta come “the next Jewish Jordan”, il primo ebreo ortodosso che potrebbe essere scelto da una franchigia Nba. Magari già al draft del 2022. Tutto ciò che sappiamo, anzi tutto ciò che possiamo intuire di lui proviene dagli scouting report dei siti specializzati e dai video che sembrano richiamare le atmosfere e le suggestioni semi-serie di White Men Can’t Jump: Turell appare come un’ala piccola fisicamente ancora tutta da costruire (86 chili distribuiti su poco più di due metri d’altezza), ma dotato di un’ottima dimensione atletica di base – ai tempi dell’high school a Valley Torah era una delle attrazioni principali degli Slam Dunk Contest della San Fernando Valley in California – e di una grande mobilità laterale che gli permette di tenere difensivamente anche contro avversari più bassi e dal primo passo più rapido.

Dal punto di vista offensivo, poi, parliamo di un giocatore multidimensionale, che fa del gioco off the ball il suo punto di forza, pur essendosi già dimostrato molto creativo palla in mano oltre che affidabile quando agisce come “spot-up shooter” perimetrale sugli scarichi: «A questo livello posso fare quello che voglio», ha detto. E c’è da credergli: nella sua stagione da sophomore ha battuto praticamente tutti i record realizzativi e di precocità nella storia di Yeshiva, chiudendo l’annata a 24 punti, 4 rimbalzi e 6 assist di media in 26 partite. Ryan, quindi, è il leader tencico ed emotivo di una squadra che non perde da 486 giorni, 104 in più della Gonzaga di Mark Few, la squadra numero uno d’America e ovvia protagonista alle “March Madness” che si concluderanno con le Final Four di Indianapolis.

Un anno fa, il 1 marzo 2020, l’Associated Press aveva pubblicato sul proprio canale YouTube Faith before basketball, una sorta di mini-documentario dedicato alla storica qualificazione dei “Maccabees” – con Turell che aveva segnato 71 punti complessivi nelle ultime due partite prima della sospensione – al torneo Ncaa per le squadre di Division III, poi non disputato a causa della pandemia. Un racconto di come fosse possibile coniugare l’osservanza dei rigidi precetti della Torah con lo sport para-professionistico in un mondo che, come ha detto al Times lo scout di Yeshiva Harold Katz, «è molto più attento e sensibile alla diversità delle persone rispetto a vent’anni fa».

Cioè rispetto a quando Tamir Goodman, il “Jewish Jordan” originale – soprannome coniato da Sports Illustrated per via degli oltre 35 punti di media tenuti nella sua stagione da senior con la Talmudical Academy di Baltimora – rinunciò alla borsa di studio di University of Maryland nonostante fosse il venticinquesimo miglior prospetto liceale della nazione, solo perché avrebbe dovuto allenarsi e giocare anche di venerdì sera e sabato, giorni in cui l’ebraismo ortodosso vieta qualsiasi tipo di attività non religiosa. Una storia che si è parzialmente ripetuta anche con Turell, che a Yeshiva University ci è arrivato da “walk-on player” (pagando, cioè, la retta universitaria come ogni altro studente) dopo essersi accorto che all’accademia di West Point avrebbe dovuto seguire un addestramento militare non contemplato dalla sua religione.

La scelta di mettere da parte tutti i sacrifici fatti durante l’adolescenza – «Ogni giorno mi alzo alle sei di mattina e lavoro sul mio ball handling, sulla parte atletica, sulla mia capacità di andare a rimbalzo, per diventare il miglior giocatore possibile», raccontava Turell nel 2018 – e la visibilità guadagnata nel circuito AAU per diventare ciò che si definisce “a big fish in a small pond” costituisce un punto di rottura nella parabola ideale che siamo abituati a tracciare quando raccontiamo un giovane cestista promettente; eppure è anche la scelta più logica, forse l’unica possibile, nel momento in cui l’aspetto sportivo diventa un elemento ulteriore della narrazione di chi, fin da bambino, si è dedicato a un suo obiettivo, senza alcun tipo di certezza sul suo effettivo raggiungimento. Non solo nel caso di Turell: nel 1994, nello splendido documentario Hoop Dreams, venne infatti calcolato che un giocatore di una qualsiasi high school americana ha una probabilità su 7600 di arrivare fino all’Nba.

Per questo, mentre per Goodman quell’episodio fu il punto di svolta di una carriera in tono minore, spesa tra Towson University e le serie minori del campionato israeliano, per Turell potrebbe essere l’inizio di qualcosa di unico, qualcosa che va oltre la chiamata a un draft o la possibilità di giocare nell’Nba. Quando dichiara «sono pronto a fare la storia», Ryan si riferisce alla possibilità di smentire tutti i luoghi comuni relativi alla scarsa predisposizione tecnica e atletica dei ragazzi ebrei, di diventare l’iniziatore di una nuova “Jewish basketball culture” in una realtà che agli ebrei deve molto in termini di nascita e diffusione del gioco, tanto da meritare una celebrazione annuale con la “Jewish Heritage Night”. Erano e/o sono ebrei il primo commissioner, Maurice Podoloff; il primo allenatore dei Philadelphia Warriors, Ed Gottlieb; la prima vera superstar del basket professionistico, Dolph Schayes; l’ex veterano Nba Omri Casspi e il due volte campione con i Los Angeles Lakers Jordan Farmar; gli allenatori Red Holzman – coach dei Knicks che rivaleggiavano a Est con i mitici Boston Celtics di Red Auerbach e Bill Russell – e Larry Brown che, nella storica cavalcata dei suoi Philadelphia 76ers fino alle Finals del 2001, portava nella tasca della giacca un crocifisso d’argento dono della mamma di Allen Iverson, la stella della sua squadra. Ed ebreo è anche Amar’e Stoudemire, ex stella dei Knicks, che dopo aver ricevuto la cittadinanza israeliana nel 2019, ha completato la sua conversione nell’agosto 2020: «Dovendo scegliere cosa è più difficile tra marcare Shaquille O’Neal e studiare il Talmud, direi che contro Shaq devi fare del tuo meglio mentre quando hai a che fare con la Ghemara devi fare ancora di più», ha detto. Nessuno di questi, però, era ortodosso, o comunque strettamente osservante della Torah, come Goodman e come Turell.

Un po’ di highlights personali di Ryan Turell

Nel suo libro When Basketball Was Jewish il giornalista Douglas Stark racconta come gli  ebrei americani nella storia della pallacanestro abbiano dato un contributo fondamentale anche dal punto di vista socio-culturale e dell’integrazione, gettando le basi per quella che oggi è una delle leghe più inclusive e attente alle diversità del mondo. L’arrivo di Turell in Nba costituirebbe un altro passo in questa direzione, la dimostrazione che un certo tipo di fede non può e non deve essere un limite culturale invalicabile per praticare sport ad alto livello. Certo, magari non si arriverà ai livelli di Hakeem Olajuwon che veniva nominato giocatore del mese durante il Ramadan – giocando ogni sera 42 minuti su 48 senza bere un sorso d’acqua – ma l’idea di vederlo correre da un lato all’altro del campo indossando la kippah sarebbe assolutamente naturale o comunque in linea con gli standard dell’Nba di oggi: «All’inizio non capivo quanto fosse importante e non ero molto orgoglioso di indossarla. In fondo per me rappresentava un doppio smacco: essere un gracile ragazzo bianco che giocava a basket indossando la kippah», ha dichiarato Turell di recente.

Il modo in cui si è evoluta la storia – personale e sportiva – di Ryan Turell evoluta rende difficile immaginare il suo futuro a medio termine. Teoricamente avrebbe ancora un anno per provare a fare il salto in un college di Division I e rendersi più appetibile per il draft 2022 – le ultime proiezioni di ESPN lo vedono fuori dai primi due giri – eppure immaginarlo in una dimensione diversa da quella in cui è riuscito comunque a far parlare di sé è diventato quasi un controsenso, con la necessità di valutarlo in un contesto competitivo più probante passata in secondo piano rispetto al giocatore che è diventato comunque. Al di là della sua fede o forse proprio grazie a quella: «Ho deciso di essere parte di qualcosa di importante, di contribuire al sogno di creare una vera e propria cultura di basket ebraica e rendere il programma di Yeshiva uno dei più importanti della nazione. Perché gli ebrei possono giocare a basket, sanno giocare a basket».