La nuova e improvvisa grandezza dello Sporting Lisbona

Rubén Amorim ha trasformato i Leões nella squadra più giovane e spettacolare del campionato portoghese.

Il mare è lo specchio su cui il Portogallo si è sempre affacciato per trovare la propria identità. Il primato nelle grandi esplorazioni e l’epopea coloniale hanno costruito un mito che, dai tempi di Vasco de Gama e Bartolomeu Dias, si è riverberato nei secoli e nella percezione che ha avuto di sé il piccolo regno a strapiombo sull’Atlantico. Di fronte al declino e al ridimensionamento della seconda metà dell’Ottocento, però, il mito imperiale si era trasformato in un peso, come i piatti di argento ereditati dagli avi che un nobile caduto in malora preferisce tenere nascosti nel buio di un armadio piuttosto che vendere, parafrasando una metafora del romanziere Eça de Queirós. Fare i conti col fardello della propria identità, e con un contesto in cui è difficile riallinearsi, è la battaglia che combatte da tanto tempo anche lo Sporting Club de Portugal, una delle tre grandi del calcio lusitano.

Lo splendore verde e branco raggiunse l’apogeo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, quando, nel giro di vent’anni, lo Sporting fondò il proprio mito vincendo la maggior parte dei campionati che ha in bacheca oggi. Da quel momento in avanti, l’egemonia sbiadì progressivamente, travolta prima dal Benfica di Eusébio, poi dal Porto di Pinto da Costa: è iniziato così un duopolio rispetto a cui lo Sporting è rimasto un passo indietro, riuscendo a farsi strada soltanto per merito di incursioni sporadiche, poi via via sempre più rare. Dal 1982 a oggi, infatti, i Leões hanno vinto due soli campionati, nel 2000 e nel 2002. Due titoli nazionali compressi tra due lunghissimi digiuni, in cui l’ossessione di tornare al successo, propria di una tifoseria storica ed esigente, consapevole del proprio status di squadra di élite, e la delusione quasi fatalista, accumulata sconfitta dopo sconfitta, hanno generato una miscela velenosa. «Bisogna confidare nel fatto che, un giorno, le cose miglioreranno» ha detto anni fa Tonel, difensore dei Leões tra il 2005 e il 2010, riassumendo lo stato d’animo di molti tifosi. «Essere dello Sporting significa saper soffrire».

Poco tempo dopo essersi ritirato, Rúben Amorim rilasciò una lunga intervista al giornale portoghese Tribuna Expresso. Aveva lasciato il calcio a 32 anni, dopo una carriera tormentata dagli infortuni, vissuta per lo più in un Benfica molto competitivo, come centrocampista polivalente finché il fisico glielo ha consentito. In quel momento, stava già progettando il proprio futuro da allenatore. «Il mio punto di riferimento è Mourinho, ho un modo di intendere il calcio molto simile al suo», disse Amorim, immaginandosi su una panchina. «Analizza bene l’avversario e schiera la propria squadra in base a quello che serve per vincere». Quando lo Sporting Braga, nel dicembre 2019, lo promosse dalle giovanili alla prima squadra, per correggere un andamento disastroso in campionato, fece esattamente l’opposto. Costruì una squadra con un’identità forte e inscalfibile, che giocava sempre per imporre il proprio calcio. I giocatori ci misero pochissimo tempo ad assorbire le idee del nuovo allenatore e a passare al 3-4-3: Amorim allenò gli arsenalistas otto volte in campionato, vincendo sette partite e pareggiandone una; riuscì a battere tutte e tre le grandi di Portogallo, vinse la Coppa di Lega e lo fece esprimendo un calcio intenso, fatto di combinazioni meccaniche. Il suo Sporting Braga giocava a memoria, aveva ribaltato la classifica e persino vinto un titolo. Era successo tutto in 72 giorni.

Lo Sporting che sta dominando il campionato 2020/21 fin dalla prima giornata non è nato da una pianificazione a freddo, ma da uno dei tanti momenti di rottura, da una decisione estemporanea nel pieno di un periodo estremamente caotico, che ha cambiato il presente del club come la prima tessera di un domino che cade. Il momento simbolo di quel clima da psicodramma fu l’aggressione di Alcochete del maggio 2018, quando un gruppo di esponenti del tifo organizzato dello Sporting, armati di mazze e spranghe, fece irruzione nel centro sportivo e aggredì la squadra durante un allenamento, ferendo Bas Dost alla testa. Dopo quell’episodio, molti giocatori chiesero la cessione o pretesero la rescissione per giusta causa, spostando la questione nei tribunali. Senza troppi dubbi, il punto più basso della storia recente dello Sporting. Scegliere Rúben Amorim, nel marzo dello scorso anno, significava spendere dieci milioni di euro – la terza cifra più alta mai pagata, a livello globale, per liberare un tecnico – per cambiare il sesto allenatore dai fatti Alcochete in avanti, quindi negli ultimi due anni, senza contare quelli ad interim, e farlo affidandosi a un tecnico brillante, sì, ma praticamente esordiente. Come è naturale, in un ambiente così emotivo, all’ennesimo momento di reset, arrivarono critiche da tutte le parti. In quel preciso momento, la stagione dello Sporting era praticamente finita: dopo aver perso la semifinale di Coppa di Lega, l’unica prospettiva rimasta era rincorrere il Braga al terzo posto per ottenere la qualificazione diretta all’Europa League, con Benfica e Porto troppo distanti. In più, dopo l’addio – direzione Manchester United – di Bruno Fernandes, l’unico giocatore che poteva riscattare dall’immobilismo una squadra completamente priva di idee. La dirigenza, che faceva capo al già contestatissimo Frederico Varandas, decise di giocarsi tutto con una scelta radicale, perché una rifondazione che ribaltasse il destino dello Sporting era improcrastinabile. E questa volta è stata la rifondazione giusta.

Dal giorno in cui ha messo piede per la prima volta ad Alcochete, Rúben Amorim ha dettato il contesto, ha messo ordine a tutto ciò che c’era già prima del suo arrivo e ha modellato intorno a sé un nuovo progetto tecnico. La sua prima decisione, quando ha iniziato a lavorare con la squadra nel post-lockdown, è stata lasciar partire in anticipo i giocatori in prestito, Bolasie e Jesé Rodriguez. In quei mesi avrebbe dovuto costruire la base della squadra del campionato seguente: ogni meccanismo appreso, ogni sforzo, sarebbero stati fatti in funzione del futuro e non sarebbero potuti cadere nel nulla. La seconda fu dare spazio a chi avrebbe costituito il gruppo dell’anno successivo. La terza, dare spazio da protagonisti ai giovani del vivaio. Se oggi lo Sporting è la quarta squadra più giovane del campionato per età media (24,8), è grazie al lavoro fatto nel finale della scorsa stagione: con Amorim hanno debuttato Tiago Tomás (2002), che oggi è quasi un titolare in attacco, il centrale Eduardo Quaresma (2002), che in estate ha dimostrato di possedere già doti potenzialmente da top, e soprattutto Nuno Mendes (2002), il terzino sinistro del presente e del futuro della Nazionale portoghese. Nell’ultimo match giocato dai Leões ha esordito anche il sedicenne Dario Essugo, l’ottavo prodotto del settore giovanile a debuttare da quando Amorim allena lo Sporting.

L’attenzione al leggendario vivaio biancoverde – che oltre a Cristiano Ronaldo ha prodotto Luís Figo e Paulo Futre, i tre grandi talenti generazionali portoghesi degli ultimi 35 anni – è uno dei tratti più interessanti del suo profilo da allenatore, così come il modo in cui gestisce gli step della loro crescita, passaggi a vuoto compresi. Quest’anno ha inserito nell’undici di base un altro giovanissimo centrale di difesa, Gonçalo Inácio (2001) che ora è un titolare inamovibile, mentre Quaresma, nonostante gli esordi abbaglianti, è momentaneamente scivolato in fondo alle gerarchie. Gonzalo Plata, il talento più brillante della Nazionale ecuadoriana, è addirittura stato retrocesso nella squadra B: «Si tratta di gestire le aspettative. È un ragazzo di vent’anni, succedono molte cose nella sua vita e dobbiamo capire cosa è meglio per lui. A volte è salire (in prima squadra), a volte scendere, a volte parlargli, a volte no. Dobbiamo renderlo un grande giocatore, ma deve fare più di quanto ha fatto finora per diventarlo». Amorim non ha paura di prendere decisioni forti e a volte anche rischiose nel rapporto con i singoli, quando crede che siano necessarie per rendere più solido il gruppo.

La parte più decisiva del suo lavoro è stata quella tattica, con cui ha trasformato una rosa complessivamente inferiore, più giovane e con meno certezze alle spalle rispetto alla concorrenza, in una candidata in grado di competere per il titolo. Fin dal primo momento ha impostato la squadra sul 3-4-3 e sui principi mostrati al Braga. Una squadra aggressiva in fase non possesso, in grado di costruire bene dal basso, sempre alla ricerca di spazi da riempire giocando in verticale o con combinazioni rapide. Come successo con il suo “vecchio” Braga, il gruppo ha assorbito le idee dell’allenatore in tempi brevi e, su quella base di uomini e lavoro, ha innestato dei nuovi punti fermi: João Mário, in prestito dall’Inter, si integra alla perfezione con il mediano Palhinha (tornato dal prestito proprio al Braga di Amorim), lavora bene senza palla e fa le scelte giuste con i tempi giusti, dando una maggiore efficienza a un gioco a ritmi alti. Sulla fascia destra domina Pedro Porro, l’unico terzino destro comparso nelle ultime convocazioni di Luis Enrique, arrivato dal Manchester City: l’abilità nel saltare l’uomo in uno-contro-uno, la rapidità da sfruttare in conduzione o nelle numerose situazioni in cui viene lanciato in profondità, lo rendono una delle chiavi di questa squadra, oltre che uno degli interpreti più interessanti del ruolo a livello europeo.

Considerando tutte le competizioni ufficiali della stagione 2020/21, lo Sporting ha messo insieme 30 vittorie, quattro pareggi e due sconfitte; la squadra di Amorim ha vinto la Coppa di Lega, ma è stata eliminata dal LASK Linz nei preliminari di Europa League e dal Marítimo agli ottavi di finale di Coppa del Portogallo (Patricia De Melo Moreira/AFP via Getty Images)

Tra le linee, alle spalle di Paulinho – l’unico nove chiesto da Amorim per fare il salto, arrivato a gennaio per 16 milioni dal Braga – lavorano Nuno Santos e sopratutto Pedro Gonçalves, che in questa stagione ha già segnato 15 gol. Al momento, lo Sporting è una squadra solida, intensa e attenta senza palla, letale quando gioca a memoria o attacca in transizione. È l’unico club dei sette campionati europei più importanti ad essere ancora imbattuto: con 20 vittorie e 4 pareggi, sta tenendo a 10 punti di distanza il Porto di Conceição e a 13 il Benfica di Jorge Jesus, costruito con enormi esborsi. Il titolo è tutt’altro che deciso, visto il modo in cui, lo scorso anno, i Dragões hanno rimontato un Benfica che sembrava irraggiungibile, ma il modo in cui lo Sporting ha cambiato volto sembrava impensabile soltanto pochi mesi fa.

Rúben Amorim ha appena compiuto trentasei anni e non solo ha dimostrato di saper allenare nel migliore dei modi una delle tre grandi del calcio portoghese, ma ha dato prova di una serie di abilità, anche sottili, che gli hanno permesso di costruire praticamente da zero un contesto aderente al suo modo di lavorare, in tutti gli aspetti. Fin dal primo giorno, da figura fortemente connotata come benfiquista – tifoso dichiarato, oltre che ex giocatore di lungo corso degli Encarnados – si è mosso con enorme disinvoltura dentro la grande rivale, dimostrando una certa sensibilità nell’intercettare e valorizzare i punti di forza dello Sporting, anche a livello identitario, come il settore giovanile. Ma soprattutto, ha lavorato per creare intorno alla sua squadra ambiente nuovo, ripulito dal clima eccessivamente nevrastemico o rassegnato. Dopo la sconfitta contro il Porto che, lo scorso luglio, ha dato ai Dragões la certezza matematica del titolo, ha commentato in conferenza stampa: «Quello che il Porto sta vivendo oggi è ciò che vogliamo vivere noi. Dobbiamo alimentarci di questo». Sta andando proprio in questo modo.