Achraf Hakimi è il nuovo volto del calcio afro-europeo

Formazione spagnola, identità marocchina: il terzino è uno dei segreti dell'Inter, ma anche un esempio di integrazione.

È veramente difficile sottovalutare l’impatto di Achraf Hakimi nell’Inter che viaggia spedita verso il suo primo scudetto in undici anni. Ventinove presenze in Serie A con sei reti e sei assist, dinamismo, forza, tecnica. Hakimi è un calciatore contemporaneo in ogni possibile senso del termine: interpretazione del ruolo, curva di apprendimento, storia personale, proporzione delle ambizioni. L’esterno destro dell’Inter è il tassello di una rivoluzione nel calcio africano, della sua crescita, della sua modernizzazione, dello slittamento di geografie e storie, dei mescolamenti decoloniali. Non più eroi e titani isolati con interi popoli sulle spalle, George Weah e Didier Drogba, oppure romantiche generazioni perdenti, la Nigeria degli anni ’90 (che almeno vinse un’Olimpiade) o il Senegal degli anni 2000. Achraf Hakimi da Getafe è il calcio afro-europeo in purezza.

Il giorno del suo esordio in Liga con la camiseta blanca del Real Madrid, in una partita contro l’Espanyol, il sito Real Madrid News ricordava che Hakimi in un certo senso era e non era il primo marocchino a giocare con le merengues, perché le storie coloniali sono sempre contorte. Prima di lui c’erano stati Heliodoro Castaño Pedrosa negli anni Cinquanta, nato a Alcazarquivir, e José Luis Peinado negli anni Sessanta, nato a Tetouan. Spagnoli del piccolo protettorato nell’odierno Marocco, liberato nel 1956. Hakimi invece è nato nel sobborgo industriale di Getafe, più di quanrant’anni dopo la decolonizzazione del suo paese di origini. Suo padre veniva da Oued Zem, un piccolo insediamento francese, città martire del nazionalismo, non lontano da Casablanca. Sua madre è nata a Ksar el-Kebir, che quando era spagnola si chiamava Alcazarquivir e fu proprio la città natale di Heliodoro Castaño Pedrosa, il primo galactico venuto dal Marocco. La storia è sempre una mappa, quella mappa è spesso circolare.

Hakimi – che da sempre tutti chiamano Arra, perché in spagnolo è più facile da pronunciare di Achraf – ha esordito a 17 anni con la Nazionale marocchina, in occasione di una vittoria (4-0) col Canada nella strada verso i Mondiali in Russia; in quella Coppa del Mondo Arra, appena maggiorenne, giocò tutte le partite, ma tornò a casa dopo l’eliminazione al primo turno, in quel girone mortale con Spagna e Portogallo. Eppure calcisticamente Hakimi non potrebbe essere più spagnolo, per studi, formazione, identità. Da bambino giocava attaccante, e ancora oggi non è difficile vedere perché i suoi primi allenatori lo misero in avanti: era veloce, tirava bene, segnava. In qualche ucronia parallela, oggi forse Hakimi è una seconda punta istintiva e veloce che non segna mai abbastanza per fare il salto di qualità. Invece quando entra, ancora bambino, a La Fábrica, la cantera del Real Madrid, qualcuno capisce che Arra saprà essere un magnifico terzino contemporaneo, veloce, instancabile, intelligente e con un potenziale da dieci gol a stagione. Da attaccante incompleto ad arma tattica perfetta. Un ragazzino venuto dal futuro.

Forse il suo percorso afro-europeo era comunque già scritto nel legame che ha con la sua famiglia e il Marocco, nella sua fede musulmana, nell’esempio di tante seconde generazioni come lui, ma negli ultimi anni delle giovanili al Real succede qualcosa che convince definitamente Arra a diventare un terzino marocchino e non un terzino spagnolo. Viene coinvolto, suo malgrado, in un’indagine della FIFA sul traffico di giovani calciatori dall’Africa, lui che è nato a Getafe e che potrebbe giocare nella nazionale spagnola. Ha sedici anni, un’età tremenda per essere fermati per mesi dalla burocrazia giudiziaria del calcio globale. In quel periodo il suo cognome marocchino sembra valere più del certificato di nascita in un ospedale di Madrid. Tutto finisce bene, ma intanto Arra ha maturato la sua decisione: giocherà col Marocco, andrà in Russia, porterà tutta quella modernità madrilena, poi affinata negli anni in Germania e all’Inter, nella squadra per cui tifano suo padre e suo fratello.

Uno dei gol che può valere lo scudetto, l’ultimo realizzato dall’Inter è un saggio breve sulla forza e sulla qualità di Hakimi, sulla sua enorme importanza nell’economia del gioco di Conte

Hakimi è stato inserito nella top 11 dei calciatori africani del 2020. Come lui, la maggioranza della selezione dei migliori calciatori africani è nata in Europa. Il portiere senegalese Edouard Mendy è nato Montivilliers, in Francia; Kalidou Koulibaly a Saint-Dié-des-Vosges, sempre in Francia, dove sono nati anche gli algerini Bennacer (Arles) e Mahrez (Sarcelles). Infine c’è il marocchino Hakim Ziyech, da Dronten, Olanda. Ragazzi nati in Europa, svezzati in club europei, ma africani di appartenenza e identità. Ognuno ha i suoi motivi per aver scelto la Nazionale d’origine e non quella di nascita, non ultimo il desiderio di trovare uno spazio più costante. Nel caso di Ziyech, l’allora ct della Nazionale olandese arrivò ad accusare la federazione marocchina di corrompere i giovani giocatori come Mazraoui, Idrissi e lo stesso Ziyech, per convincerli a scegliere la loro Nazionale.

Probabilmente c’è anche un’altra verità: sono tutti giocatori molto più attenti dei colleghi europei alla complessità delle identità in gioco, al razzismo del calcio e della società europea. Dopo la morte di George Floyd, Hakimi dedicò una sua esultanza a Black Lives Matter e alla richiesta di giustizia per Floyd. E senz’altro Hakimi, Ziyech e gli altri sanno bene cosa significavano le parole di Romelu Lukaku da Anversa in quell’intervista del 2018 su The Players’ Tribune: «Quando segno, sono un attaccante belga. Quando gioco male, sono un attaccante di origini congolesi».

La mescolanza tecnica e tattica che ha costruito la forza indistruttibile e creativa della Nazionale francese due volte campione del mondo sta invertendo il suo corso. La Francia ha vinto il mondiale di Russia con 19 calciatori su 23 migranti o figli di migranti. Allo stesso Mondiale, però, erano le squadre africane ad avere in media il maggior numero di elementi nati all’estero, addirittura il 29%. Un giorno, finalmente, una Nazionale africana vincerà il mondiale e sarà anche merito della tendenza tattica, tecnica ed esistenziale della quale la vita e la carriera di Achraf “Arra” Hakimi sono un manifesto: l’inversione della diaspora.