Zinédine Zidane, il più italiano tra gli allenatori stranieri

Flessibilità, inventiva, il talento al centro di ogni cosa: Zizou è un tecnico vincente, che ha portato la nostra tradizione nella modernità.

Zinédine Zidane non rilascia molte interviste, a parte quelle cui è costretto per obblighi contrattuali. E anche quando si trova di fronte ai microfoni, non è che sia un oratore così esplosivo: espone il suo concetto, fa una smorfia – di solito un sorrisetto furbo – e poi passa all’argomento successivo. Pochissimi orpelli, niente peana retorici. Anche nelle interviste scritte utilizza lo stesso stile telegrafico, tra queste ce n’è una molto interessante sul sito della Uefa che risale al settembre 2018, quando era un allenatore libero, senza squadra: «Se devi lavorare con giocatori di talento ed esperti», dice, «la cosa più importante è mantenere la calma. Questo è ciò di cui avevo bisogno quando ero un giocatore, quindi è l’approccio che cerco di adottare da allenatore. Ed è un approccio che vale per tutte le partite di tutte le competizioni: io le preparo sempre con lo stesso livello di coinvolgimento. In ogni caso, sei l’allenatore del Real Madrid, quindi devi vincere tutto mantenendo un certo livello di gioco. Questa è la mia filosofia».

La prima cosa che salta all’occhio in queste frasi di Zidane è quando parla di sé e dice «sei l’allenatore del Real Madrid», come se non avesse mai smesso di esserlo – e invece era successo pochi mesi prima, per la precisione il 31 maggio 2018, dopo la terza vittoria consecutiva in Champions League. La seconda parte interessante è quella che riguarda la calma, la necessità di rispettare le esigenze dei giocatori, e anche qui sembra che Zidane non abbia mai smesso di essere ciò che è stato, ovvero un fuoriclasse dal carattere complesso. Infine, le parole sulla tattica, sulle cose di campo, sul bisogno di «vincere tutto mantenendo un certo livello di gioco». Per l’ennesima volta, Zidane non si espone davvero, non dice di quale gioco si tratta, così come non lo fa in tutta l’intervista; quando sviluppa questa risposta, spiega infatti che «il possesso è importante», ma subito dopo chiarisce che «il possesso non è garanzia di vittoria»; in un altro passaggio ricorda che «il mio Real Madrid ha giocato sempre allo stesso modo, indipendentemente dalla squadra che abbiamo affrontato», però poi un attimo dopo ammette che «prima di ogni partita ho parlato ai calciatori delle caratteristiche individuali degli avversari, in modo che fossero attenti alle cose specifiche che avrebbero dovuto fronteggiare».

Sono tutti equilibrismi dialettici che inquadrano Zidane-allenatore, anzi lo definiscono: non un tattico idealista, non un motivatore, non una balia da spogliatoio, ma tutte queste cose insieme, dosate con sapienza nel momento e nel modo in cui occorre. E lo stesso approccio vale anche se guardiamo al campo: Zizou non ha mentito nella sua intervista alla Uefa, perché il suo calcio si fonda sicuramente sul  possesso palla, ma in realtà può farne anche a meno, dipende dal momento e dal contesto; il pressing può essere insistito e intenso, ma a volte il Real Madrid preferisce rintanarsi nella propria metà campo e coprire gli spazi con grande concentrazione, dipende dal momento e dal contesto; la difesa a quattro è stata ed è un caposaldo del progetto tattico delle merengues, ma in alcune partite di questa stagione Zidane ha scelto di schierare tre centrali e due esterni a tutta fascia, e anche questo dipende dal momento e dal contesto. In un articolo pubblicato dal Guardian ad agosto 2020, Jonathan Wilson ha scritto che «Zidane, in realtà, non segue nessuna filosofia definita. Non lascerà alcun segno nell’evoluzione tattica del gioco, proprio perché lavora in questo modo. È un allenatore flessibile, e vince». Così, semplicemente.

Allenare come Zidane, però, non è affatto semplice. Occorrono intuitività, sensibilità, inventiva, e una mente abbastanza aperta ed elastica per comprendere tutto quello che succede. C’è tutta una scienza, dietro. Ecco, forse scienza è proprio la parola adatta per descrivere il metodo di Zizou. Perché parlare di lui vuol dire parlare di un tecnico dall’approccio profondamente empirico, che procede per tentativi e sperimentazioni: parte da alcuni concetti di riferimento, ma poi esplora mille strade tutte diverse, ed è così che trova la soluzione migliore per risolvere i problemi, per ottenere le migliori prestazioni possibili dai suoi giocatori. Senza scartare nulla a priori, mettendo tutto costantemente in discussione.

Quest’anno, come già accennato, l’esempio più eclatante riguarda il passaggio alla difesa a tre, varata per la prima volta dal primo minuto nella partita del 13 marzo contro l’Elche e poi riproposta nel return match degli ottavi di Champions contro l’Atalanta, tre giorni dopo. È stato un correttivo attuato per rendere più compatta la fase passiva, sia quando il Madrid alzava l’intensità del pressing, sia quando retrocedeva in blocco basso, a protezione dell’area di rigore; quando invece il Real ha dovuto gestire il pallone, le continue rotazioni tra i centrocampisti, gli esterni a tutta fascia e i due attaccanti hanno determinato un contesto troppo fluido e quindi inafferrabile, anche per una squadra come l’Atalanta, che per esprimersi al meglio ha bisogno di sentire il contatto fisico. Contro il Liverpool, Zidane è tornato al 4-3-3 e ha cambiato ancora una volta registro, dominando i Reds con un possesso a due velocità, prima raffinato e orizzontale, poi più diretto e verticale, specialmente in fase di transizione – e soprattutto grazie all’immaginifico asse tra Toni Kroos e Vinícius Jr., con il tedesco in stato di grazia a ogni lancio in verticale, e l’esterno brasiliano che scattava puntualmente alle spalle di Alexander-Arnold. Contro il Barcellona, e siamo al Clásico vinto pochi giorni fa a Valdebebas, Zidane ha riconfermato il 4-3-3, però nello slot di esterno alto a destra è stato scelto Federico Valverde, che di solito fa il centrocampista centrale o al massimo la mezzala. L’uruguaiano è stato schierato in quella posizione per supportare il “terzino” Lucas Vázquez nel duello con Jordi Alba, e per strappare palla al piede in fase offensiva. Lo splendido gol di tacco di Benzema è nato proprio da una percussione di Valverde e da una sovrapposizione di Vázquez sulla fascia destra.

Questo approccio mutevole non è una novità di questa stagione, ma una delle grandi costanti nella carriera di Zidane. È stato lui stesso a raccontare come abbia preparato in modo molto diverso le due finali di Champions League del 2017 e del 2018, di come abbia cambiato completamente il piano-partita nonostante il Real Madrid sia sceso in campo con la stessa identica formazione titolare: «A Cardiff, contro la Juventus, abbiamo utilizzato il rombo, mentre contro il Liverpool ho chiesto a Isco di retrocedere molto a centrocampo, a Marcelo di avanzare continuamente sulla sinistra, e in avanti ci siamo schierati con due attaccanti puri». Questa stessa capacità di adattare il Real Madrid a qualunque contesto, come se fosse una squadra fatta d’acqua piuttosto che da giocatori in carne e ossa, si manifesta anche durante le partite, non solo prima: a cavallo tra febbraio e aprile 2017, infatti, il Real andò sotto di uno o anche due gol in dieci gare su 19, eppure ne perse solamente due – e una di queste sconfitte, tra l’altro, fu l’indimenticabile Clásico al Bernabéu in cui Messi segnò nei minuti di recupero della ripresa, e poi esultò mostrando la sua maglia ai tifosi di casa. La stragrande maggioranza di quelle rimonte fu merito dei correttivi tattici e di formazione apportati da Zidane, attraverso sostituzioni e/o cambi di posizioni in campo.

Da quando è diventato allenatore del Real Madrid, il 4 gennaio 2016, Zidane ha vinto tre edizioni della Champions League, due volte la Liga, due volte la Supercoppa spagnole, due volte la Supercoppa Europea e due volte il Mondiale per club (Pierre-Philippe Marcou/AFP/Getty Images)

La differenza rispetto ai tecnici di sistema è netta, evidente, e riguarda il tempo: Guardiola, Klopp, Sarri o Gasperini, giusto per fare qualche esempio, plasmano i propri sistemi in estate o al massimo in autunno, edificano delle fondamenta solidissime, valide a lungo termine, e poi nel corso dell’anno apportano delle modifiche sicuramente importanti, ma che per la natura stessa del loro lavoro non possono essere davvero rivoluzionarie; Zidane, invece, allunga all’infinito il periodo di costruzione e di modellamento della sua squadra, la allena in funzione delle partite, non della stagione. Certo, si tratta di un metodo la cui efficacia va contestualizzata, che funziona benissimo al Real Madrid, una squadra storicamente – quindi inevitabilmente – ricca di talento, di giocatori in grado di fare tutto, sempre ai massimi livelli: Sergio Ramos, Casemiro, Kroos, Modric e anche Benzema sono atleti completi, sanno difendere in avanti e all’indietro, sanno praticare un calcio ragionato, di possesso, ma sono eccezionali anche quando devono attaccare in maniera diretta, verticale. Sono perfetti per Zidane e Zidane è perfetto per loro. Da quando Zizou è diventato allenatore in prima, a gennaio 2016, la sensazione è che il suo Real sia sempre stata una squadra in grado di perdere solo contro un avversario davvero più forte, perché giocatori e tecnico hanno sempre avuto troppa qualità, troppa esperienza, troppa sintonia, troppe risorse a loro disposizione. Non a caso, infatti, solo il Barcellona di Messi (nella Liga 2015/2016 e 2017/2018) e il Manchester City di Guardiola (nel 2020) hanno tolto a Zizou i grandi trofei che non ha conquistato. Non a caso, ancora, i due tecnici che hanno provato a raccogliere la sua eredità – Lopetegui e Solari – avevano delle idee di gioco meno fluide, più rigide, e non sono durati molto.

In un’altra delle sue poche interviste, Zidane ha detto di aver imparato moltissimo da Lippi e Ancelotti. Il primo è stato fondamentale perché «era l’unico che credeva in Zidane all’inizio della sua esperienza Juventus», l’altro ha dato inizio alla sua carriera in panchina, nominandolo allenatore in seconda nel 2013. In virtù di tutto questo, in virtù del suo approccio al lavoro di allenatore, è praticamente inevitabile apporre su Zizou l’etichetta di tecnico italiano, nel senso più nobilitante del termine. Zizou è l’evoluzione della specie degli allenatori reattivi, ragiona e agisce come storicamente viene insegnato a Coverciano, dove «si impara l’arte di adattarsi», secondo il presidente Renzo Ulivieri. Solo che i suoi cambiamenti vogliono sempre creare qualcosa di migliore per il Real Madrid, prima che toglierlo agli avversari. Una visione moderna, ambiziosa, offensiva se vogliamo, perfettamente in linea con il calcio contemporaneo e con la storia, quella del Real e quella personale di Zizou. Che da calciatore alla Juventus, al Real Madrid, con la Nazionale francese, ha portato il gioco a un livello superiore. E che da allenatore, dopotutto, sta semplicemente provando a fare la stessa cosa.