Non è molto difficile individuare il punto più alto della lunga e silenziosa storia del Defensa y Justicia: pochi mesi fa, il club di Florencio Varela – cittadina nella provincia di Buenos Aires intitolata a uno scrittore e giornalista argentino – ha vinto il suo primo titolo, la Copa Sudamericana, battendo il Lanús in finale. Si tratta di un successo che è già passato alla storia, non soltanto per il trofeo in sé, ma anche per il senso di superiorità schiacciante, quasi annichilente, che l’Halcón – nickname del club gialloverde – ha trasmesso nella finale della manifestazione: il Lanús, una delle migliori proposte calcistiche d’Argentina, una squadra dai valori tecnici complessivamente superiori a quelli del Defensa, sembrava impotente, accumulava errori, è stato costretto a giocare una partita disastrosa dal pressing continuo degli avversari. I ragazzi allenati da Hernán Crespo sono stati in pieno possesso di quella gara dal primo al 90esimo minuto, a livello tattico – per come combinavano e trovavano spazi in verticale – ma anche a livello mentale. Risultato finale: 3-0 per il Defensa.
Il Defensa y Justicia, vincendo la Copa, ha coronato un percorso di crescita iniziato nel 2014, con la prima partecipazione alla Primera División, esploso con il secondo posto in classifica nel campionato 2018/19 e proseguito poi con la vittoria della Recopa della scorsa settimana, nella finale contro il Palmeiras detentore della Libertadores. Due notti fa, la squadra gialloverde ha esordito contro l’Independiente del Valle nella sua seconda partecipazione consecutiva alla più grande manifestazione subcontinentale. Al contrario di squadre come quella ecuadoriana, e/o dello stesso Lanús, questo incredibile sviluppo non si basa su un settore giovanile formidabile o sulla ricerca della continuità – per quanto possibile in un contesto in cui il player trading è per tutti la prima fonte di sostentamento –, piuttosto su un modello esattamente opposto. Il Defensa y Justicia, infatti, è progettato per cambiare, per riassemblarsi e rigenerarsi continuamente, in un ciclo che, paradossalmente, si pone l’obiettivo di mantenere un’identità stabile. Proviamo a fare qualche parallelo col calcio europeo: se il metodo dell’Independiente del Valle può ricordare quello dell’Atalanta, il Defensa y Justicia somiglia più a un piccolo Wolverhampton. Anche perché il suo progetto ruota intorno a uno dei procuratori più potenti del Paese, a un aspirante Jorge Mendes argentino: Christian Bragarnik.
Quella di Bragarnik è la storia di un’ascesa vertiginosa e improvvisa. Nel 1999, quando ha 28 anni e il suo sogno di diventare un calciatore professionista era già tramontato, decise di dedicarsi al suo piano b: un negozio di videonoleggio che già da tempo gestiva in società con un amico. Noleggiava i film e arrotondava i guadagni montando e vendendo le videocassette dei matrimoni. Grazie alle sue conoscenze nella galassia dell’Ascenso, le divisioni minori del calcio argentino, iniziò a fare la stessa cosa con gli spezzoni delle partite: montava le giocate migliori di un giocatore, contattava l’agente e gli vendeva la cassetta. Era appena iniziato il nuovo millennio, non esisteva ancora YouTube, ma nel frattempo Bragarnik aveva già studiato da avvocato, quindi non aveva solo competenze tecnico-tattiche o da montatore. E allora quando Mariano Monrroy, trequartista del Talleres e suo cliente al negozio, gli raccontò di aver chiuso i rapporti con il suo procuratore, Bragarnik si offrì di rappresentarlo. Il piccolo videonoleggio stava per diventare una piattaforma di affari calcistici internazionali: Bragarnik, infatti, montò un filmino con le giocate del giovane enganche e lo passò a Eduardo Fuentes, un ex calciatore del Cruz Azul che noleggiava i film da lui e aveva ancora dei buoni contatti in Messico. La cassetta di Monrroy arrivò all’Irapuato, piccolo club satellite del più prestigioso Queretaro: dal momento in cui il club decise di acquistare il giocatore, la carriera di Christian Bragarnik decollò. Nel giro di pochi anni il procuratore argentino si ritrovò a lavorare ai vertici del calcio messicano, intrattenendo affari con il Tijuana, i Dorados de Sinaloa – dove anni più tardi avrebbe portato Diego Maradona come allenatore – e da presidente del Queretaro.
Bragarnik entrò in contatto con la dirigenza del Defensa y Justicia nel 2009: da una parte c’era una squadra di seconda divisione che voleva lasciarsi alle spalle alcune stagioni negative avviando un progetto nuovo, dall’altra un procuratore intenzionato a rientrare prepotentemente nel calcio del suo paese, lavorando a stretto contatto con un club. Bragarnik ha dichiarato in un’intervista a Diario Olé di aver portato con sé dal Messico un metodo di lavoro basato sulla scelta di allenatori con un’idea di gioco offensiva. Uno dei primi fu Jorge Almirón, che fino a quel momento aveva allenato solo tre squadre messicane, ma che con il tempo sarebbe diventato uno dei nomi più interessanti della scuola argentina: è stato la sua prima scelta anche la scorsa estate, dopo la promozione in Liga dell’Elche, il club spagnolo di cui nel frattempo è diventato proprietario. Nonostante siano passati diversi anni, l’identikit del tecnico del Defensa è rimasto sempre lo stesso: Diego Cocca, l’allenatore che ha guidato il club gialloverde nell’anno della promozione, è approdato al Racing nella stagione seguente e l’ha portato a vincere un campionato che mancava dal 2001. E ancora: Ariel Holan, un ex allenatore di hockey su prato che nel calcio, prima di essere chiamato da Bragarnik, aveva avuto soltanto esperienze da vice, ha lasciato il Defensa dopo una sola stagione per andare a vincere la Copa Sudamericana con l’Independiente, e ora siede sulla panchina del Santos. Lo stesso discorso vale per Hernán Crespo, oggi passato al São Paulo, scelto dopo una stagione non semplicissima al Banfield, o per Sebastian Beccacece, lo storico secondo di Jorge Sampaoli, che prima di allenare il Defensa – oggi è di nuovo in carica per il suo terzo ciclo – aveva faticato nel suo esordio alla U. de Chile. Queste scelte ci dicono tutto ciò che dobbiamo sapere sulla strategia del club: alcuni di questi tecnici erano professionisti assistiti di Bragarnik, altri lo sono diventati, altri ancora no, ma tutti hanno hanno allenato a Florencio Varela in un momento in cui le loro carriere erano ancora in fase embrionale.
Nonostante questi continui cambiamenti – il presupposto inevitabile di un progetto che si appoggia completamente al lavoro di un procuratore – il Defensa ha scoperto e lanciato alcuni dei migliori allenatori del panorama nazionale. Unendo i puntini, infatti, compare buona parte della nuova scuola di tecnici argentini, e tra l’altro tutti questi nuovi profeti sono caratterizzati da una proposta tattica aggressiva, dinamica, volta alla ricerca del dominio del gioco. «Negli ultimi anni sono passati grandi allenatori al Defensa e ora hanno tutti ottimi risultati nei loro club», ha detto Bragarnik in un’intervista al Clarín. «Seguono una linea che identifica il club, e questo ci rende felici. Siamo riusciti a sviluppare un’identità, ovvero l’obiettivo che mi ero posto quando sono arrivato qui».
Non è soltanto una questione di identità ma anche di metodo, sebbene una cosa generi l’altra, soprattutto nel calcio di oggi e in una squadra piccola e libera da sovrastrutture: il Defensa y Justicia non ha fondi per compiere operazioni importanti, quindi la maggior parte dei giocatori in organico viene rilevato in prestito. Sono giovani talenti che non trovano spazio nei club di vertice, giocatori che hanno fallito il salto in una delle grandi, che magari si sono consolidati in una dimensione non entusiasmante, oppure sono semplicemente assistiti di Bragarnik. Ogni semestre, eccetto qualche sparuta riconferma, la rosa cambia completamente forma. In una situazione del genere, il compito dell’allenatore è imprimere un’idea di gioco sufficientemente forte da modellare e far rendere oltre le possibilità un gruppo dal valore tecnico complessivamente ben più basso di quello medio, soprattutto in virtù dei traguardi prestigiosi per cui il club si è trovato a competere negli ultimi anni. Per il Defensa y Justicia, che ha vissuto più del 90% della propria storia in categorie diverse dalla Primera, certi palcoscenici sono una novità, e quindi non c’è l’obbligo di ripetere in serie i successi raggiunti. La valorizzazione dei giocatori, però, è il passaggio su cui si fonda questo tipo di modello e che ha spinto il Defensa ad adottare uno stile di gioco offensivo: Bragarnik ha definito l’Halcón un «club vidriera», letteralmente una vetrina in cui i giocatori di proprietà di altre squadre possono mettersi in mostra. E infatti molti dei talenti che tornano alla base vengono reintegrati subito, oppure venduti ad altri club sull’onda delle buone prestazioni in gialloverde: si tratta di un sistema che, tra commissioni e premi di valorizzazione, permette a tutti – il procuratore, i club coinvolti, gli stessi atleti – di trarre grandi profitti.
Se questo circolo funziona, come sta accadendo nelle ultime stagioni, il Defensa cresce economicamente e si ritaglia un piccolo margine per investire: il miglior giocatore della stagione del secondo posto in campionato, per esempio, era Lisandro Martínez, cresciuto nelle inferiores del Newell’s e acquistato dal Defensa y Justicia per un un milione e mezzo di euro, e successivamente rivenduto all’Ajax per sette milioni. «Abbiamo percentuali di vari giocatori, tra cui Miranda, Fernandez e Rojas (tutti rivenduti nel giro di un anno, nda)», ha dichiarato Bragarnik. «Questo servirà per generare ulteriori introiti in futuro e reinvestire in infrastrutture». Non tutti riescono a fronteggiare le richieste di un sistema così particolare. Le figure più a rischio sono soprattutto gli allenatori, a cui è richiesto – anzi: a cui viene imposto – di lavorare al centro di una trasformazione che non si ferma mai: lo scorso anno Mariano Soso – il tecnico che aveva ereditato la panchina da Beccacece – si è dimesso proprio a causa del gran numero di cessioni operate dalla società, cessioni che avevano portato la squadra arrivata seconda in campionato a mantenere in rosa appena tre giocatori.
Quello del Defensa y Justicia è un modello di sviluppo in cui la collaborazione con i procuratori sul mercato viene portata all’estremo, al punto da servirsi di un “dirigente-ombra” che non è effettivamente nell’organigramma, eppure dichiara apertamente di sentirsi parte della società. È un caso interessante, che potrebbe aprire un discorso più ampio sulla compatibilità tra queste funzioni, soprattutto nell’ambito di quelle che sarebbero a tutti gli effetti associazioni civili senza fini di lucro – le squadre di calcio in Argentina sono inquadrate così, dal punto di vista giuridico. Più banalmente, le perplessità sono ovviamente legate alle prospettive sportive a lungo termine di un progetto del genere. Nel frattempo, però, in questo turbine di prestiti, imprese sorprendenti e buon calcio, il Defensa y Justicia è la vera rivelazione del fútbol argentino.