Cosa vi perdete a odiare ancora Neymar

È diventato il calciatore più decisivo al mondo, ma anche il più bello da veder giocare, senza rinunciare ai suoi eccessi, al suo stile unico e sfacciato.

Al 37esimo minuto del primo tempo nella gara di ritorno tra Paris Saint-Germain e Bayern Monaco, quarti di finale della Champions League 2020/21, Neymar riceva il pallone al limite dell’area di rigore avversaria, lo lascia scorrere quel tanto che basta per dare l’impressione di voler calciare in porta di prima intenzione, aspetta che Kingsley Coman si avvicini un po’, poi con un solo movimento cambia la direzione della corsa sua e del pallone: il tacco destro colpisce il pallone e lo rispedisce a sinistra, lo stesso movimento prosegue in tutto il corpo del giocatore e diventa la piroetta che gli permette di ritrovare la posizione giusta per il tiro. Coman ha proseguito la sua corsa (deriva) verso destra, nel tempo che lui impiega a girarsi e a ritrovare Neymar, il 10 parigino ha già preso la mira, deciso di calciare a giro colpendo il pallone con l’interno del piede destro, seguito la traiettoria del pallone con lo sguardo. La sfera segue un arco dolcissimo e finisce sul fondo, sfiorando l’incrocio dei pali alla sinistra di Manuel Neuer. Tutto tranne il gol. Tutto oltre il gol. Tutto Neymar in un momento, in un movimento.

Alla fine della sfida del Parco dei Principi, Mauricio Pochettino dice a Guillem Balague che in questa stagione non c’è stato un Neymar migliore di quello visto nel primo tempo della partita di ritorno contro il Bayern. Pochettino ovviamente parla per sé e anche di sé: da quando è arrivato a Parigi, una grandissima parte del suo lavoro l’ha dedicata a Neymar, a costruire un rapporto con la persona, a proteggere dagli infortuni il giocatore, a migliorare le prestazioni dell’atleta. Ma Pochettino parla anche a tutti quelli che sono testimoni di un’evidenza: Neymar non ha mai giocato così bene, né a Parigi né a Barcellona. Non è mai stato così forte e così sano. A 29 anni, a quattro anni dalla decisione di lasciare il Barça e di uscire dall’ombra proiettata da Messi, Neymar ha finalmente avuto ragione: è il più forte attaccante del mondo.

Se c’è una cosa che definisce il migliore è la consapevolezza, di sé e degli altri. Oggi Neymar può dire che Kylian Mbappé è il prossimo in una linea di successione che comincia con la Pulce e passa per lui: il presente sa riconoscere il passato e il futuro, sa distinguersi da ciò che è stato e da ciò che sarà. Neymar ora dice chi è stato il più forte ieri e chi sarà il più forte domani, perché sa chi è il più forte adesso. Lo sa lui e lo sanno gli altri. La cima della montagna è quel luogo in cui la supremazia non deve più essere dimostrata ma solo riconosciuta: chi sta in basso alza lo sguardo e sa, capisce, accetta. Neymar non ha più bisogno di dare di conto, di presentare riepiloghi, di mettere assieme statistiche: i suoi numeri sono stati assurdi dal giorno che ha messo piede in Europa, eppure non era mai abbastanza per convincere gli scettici. Gioca nel Barcellona con Messi e con Suárez, così non vale. Gioca nel PSG e nella Ligue 1, così è troppo facile. In Champions League non va mai oltre quella fase in cui tutte sembrano poter vincere, così son capaci tutti. Dopo l’andata e il ritorno contro il Bayern, la squadra più forte e più avanguardista d’Europa, questi argomenti non valgono più.

Il più forte è tale anche e soprattutto in assenza di contesto, la superiorità è una sensazione che va oltre la razionalizzazione del cultore e dell’esperto. Guardando Neymar contro il Bayern, si può solo essere testimoni: questa cosa sta succedendo davanti agli occhi di chi sa e non sa, di chi capisce e non capisce, di chi apprezza e di chi detesta. Tutto il resto è la prova di un’auto-evidenza, la teorizzazione di un fenomeno naturale osservabile empiricamente: 85 (ottantacinque!) palloni giocati, 14 duelli individuali vinti, 11 palloni giocati nell’area avversaria; e poi sette falli subiti, sei possessi recuperati, sei tiri, tre tiri in porta, tre occasioni create, un pallone intercettato, due traverse. Tutto tranne il gol, tutto oltre il gol. Come ci si fa un’opinione su un giocatore capace di andare oltre la cosa più importante che può succedere su un campo di calcio? Come si osserva un giocatore che sta soprattutto in quei momenti del calcio che non possono accumularsi in statistiche, il cui stile sta in quella parte del piede tra il tacco e la suola? Come ci si riconcilia con un talento capace di rimettere assieme l’estetica e la sostanza, quelle parti del gioco che per così tanto tempo abbiamo discusso e individuato e difeso come antitetiche?

Spesso questa opinione si forma mettendo assieme tutto ciò che è irrilevante: viviamo l’epoca in cui sappiamo tutto e non capiamo niente, perciò l’irrilevante avrà sempre la parte del leone rispetto al rilevante. Nel film Moneyball, Jonah Hill interpreta Peter Brand, laureato a Yale in economia e deciso a diventare general manager di una squadra di baseball, e ha la battuta più importante di tutto il film: ci sono giocatori che vengono ignorati per motivi insensati e supposti difetti, per età, aspetto, carattere. Tutti gli sport alla fine sono lo stesso sport, vale per il baseball come per il calcio. È sempre stato difficile negare il valore di Neymar limitando le osservazioni al momento della partita, al luogo del campo. Ma è sempre stato facile sminuirlo concentrandosi sui motivi insensati e sui supposti difetti. Si può amare un giocatore che definisce “discreta” una festa di compleanno con invitati tutti i compagni di squadra, più famiglie al seguito, più rispettivi entourage? Si può apprezzare un calciatore la cui idea di eleganza è il total white? Si può adorare un idolo che partecipa ai tornei di poker ed è protagonista di eventi su Fortnite, che disegna vestiti e crea profumi, che fa le comparsate ne La Casa di Carta e in Fast & Furious? Si può accettare la superiorità di uno così evidentemente attento a estetica e cosmetica, dentro e fuori dal campo? Come si fa a prendere sul serio uno che va da Barcellona a Parigi spostando il Pil di un Paese in via di sviluppo e si presenta in conferenza stampa dicendo che la scelta gliel’ha suggerita Dio? Essendo questi gli anni in cui la trave ci è caduta in testa mentre eravamo impegnati a guardare la pagliuzza nell’occhio altrui, queste domande vengono poste dagli stessi che negli ultimi quindici anni si sono divisi nella tribù di Ronaldo e in quella di Messi.

La colpa di Neymar non sta nel campo, il disprezzo e la sottovalutazione che lo hanno accompagnato fin qui non hanno a che vedere con il gioco. Preparandomi per scrivere questo pezzo, ho iniziato con l’intenzione di rivedere quelle che sono considerate le migliori partite della sua carriera: presto mi sono reso conto che mi ci sarebbe voluta una settimana solo per vedere quelle del periodo blaugrana, poi ci sarebbe stata Parigi e poi ancora la Seleçao. Quindi sono passato agli highlights e alle comp(ilation): subito ho capito che ci avrei impiegato almeno tre giorni a finire, tempi che nemmeno Sabatini quando deve visionare tutti i file dedicati al prossimo terzino sinistro da comprare. Solo dopo aver perso molto tempo mi sono reso conto che il punto era proprio quello: come si stabilisce la grandezza di un giocatore i cui numeri vanno oltre il tempo e le energie necessari all’elaborazione? Come si definisce un giocatore la cui grandezza sta nella sfumatura di esagerazione, di sfrontatezza con cui fa le stesse cose che gli altri fanno con essenzialità, con discrezione? E, soprattutto: come si può negare una grandezza così evidente, tanto manifesta?

Di solito gli highlights personali di una partita che si trovano su Youtube sono piuttosto noiosi. Quelli di Neymar contro il Bayern Monaco sono un’esperienza diversa: il video dura otto minuti e in pratica non c’è niente che valesse la pena tagliare, o eliminare.

Neymar ha ricordato al calcio, che è ormai architettura funzionalista, quanto siano importanti la forma e l’estetica, il piacere e l’individuo. Neymar sa che vincere non è l’unica cosa che conta: si può vincere stando larghi a sinistra, creando spazi per un altro o approfittando degli spazi creati da un altro, e si può vincere stando al centro di ogni movimento e di ogni momento della partita, essendo la pietra angolare nella quale tutto il peso della struttura trova equilibrio. Neymar sa che non esiste solo la via della natura (la forza del corpo) e quella della cultura (la superiorità della tecnica): c’è una terza via che porta al trionfo, una strada che è congiunzione delle precedenti. La colpa di Neymar sta nell’aver apertamente contraddetto la vulgata: lo sport di squadra è uno sforzo collettivo eppure io voglio essere il migliore del mondo, il calcio è un’opera di gruppo ma io voglio costruirmi il mio gruppo. La colpa di Neymar sta nell’aver ammesso che l’ambizione è la premessa della grandezza, che la presunzione è parte del successo: io non voglio essere Messi, voglio essere più di Messi. La colpa di Neymar sta nell’aver ricordato al calcio della linea retta che la bellezza sta nella piroetta: non si tratta solo di andare da A a B ma di quello che c’è nel mezzo. Del viaggio. La colpa di Neymar sta nell’aver avuto ragione, sin dall’inizio e fino alla fine: lasciare il Barcellona e andarsene a Parigi è stata la scelta giusta.

Tutto quello che c’è da sapere, da capire, di Neymar sta in una giocata inutile fatta durante una partita irrilevante. Il 4 febbraio dello scorso anno, il PSG gioca contro il Montpellier: intorno alla metà del primo tempo, il 10 brasiliano si trova vicino alla bandierina del calcio d’angolo, pressato da Arnaud Souquet. Di tutti i modi possibili e disponibili per liberarsi dalla pressione dell’avversario, Neymar sceglie il più difficile e il più sfacciato: la bicicletta, quel movimento semi-meccanico perfettamente descritto dall’italiano ma al quale l’inglese rende giustizia con la meravigliosa immagine evocata dal nome “rainbow flick”. Souquet è confuso e umiliato, il pallone gli sbatte addosso e finisce in fallo laterale. L’arbitro Jerome Brisard interviene e intima a Neymar di darci un taglio con l’esibizionismo. Neymar fa più che protestare, si offende. Protesta fino a costringere l’arbitro ad ammonirlo. Fino alla fine del primo tempo, Neymar continua a ripetere all’arbitro, ai compagni, agli avversari e a un pubblico che all’epoca era ancora raccolto intorno al campo ad ascoltare e osservare: «Sto giocando a pallone. Sto solo giocando a pallone».