La sua frase «Io gioco per chi sa di calcio» ricorre ciclicamente ogni volta che Karim Benzema fa qualcosa di unico, qualcosa che solo lui può fare, e infatti è stata rilanciata su Twitter subito dopo lo splendido gol dell’1-1 contro il Chelsea nella semifinale d’andata di Champions League. Si tratta di una quote che non ha una collocazione storica e temporale precisa, che quindi in teoria potrebbe anche non essere vera. Proprio per questo, però, è eternamente valida. E sottolinea la consapevolezza di Benzema rispetto alla sua condizione di “campione di nicchia”, di fuoriclasse apprezzato da coloro che «vanno allo stadio per vedere qualcosa di diverso» e che condividono con lui quella visione circolare del calcio per cui il talento non si può misurare solo attraverso il numero di gol segnati e di assist serviti.
E infatti Benzema può essere compreso, giudicato, raccontato, solo nel momento in cui si accetta che le migliori manifestazioni del suo talento e del suo status – è uno dei migliori centravanti dell’era moderna, se non il migliore in assoluto – si concretizzano in gesti, colpi, soluzioni che spesso non vanno a intaccare le principali voci statistiche. Se fossimo nel basket parleremmo di intangibles, di giocate che non sono destinate a finire su tabellini e almanacchi ma che restituiscono, pound for pound, l’importanza del singolo all’interno di un sistema.
Quella di Benzema deus ex machina del Real Madrid è una metafora che ci sembra relativamente nuova, che sta scandendo la narrazione dell’era post-Ronaldo. In realtà, ci sarebbero diversi riscontri anche tornando indietro all’epoca delle quattro Champions League conquistate in cinque stagioni, tra il 2014 e il 2018, quando il francese non mancava mai di ricordare come lui fosse «quello che teneva tutto assieme» mentre Bale e Cristiano condividevano gol, record e celebrazioni varie. Una precisazione che era (e che è ancora oggi) anche un invito a considerare una diversa prospettiva del gioco, nel momento in cui il giocatore più importante dell’intera fase offensiva del Madrid – «senza di lui nulla può funzionare», ha detto Zidane a più riprese – era anche quello più criticato a causa di una capacità realizzativa considerata insufficiente o comunque lontana dagli standard richiesti a chi indossa la numero 9 del Real. Una percezione che era drogata dalle statistiche senza senso di Ronaldo, certo, ma anche dall’idea anacronistica per cui il peso specifico di un centravanti vada misurato unicamente sulla base del numero di gol che realizza, o che non realizza.
Non è un caso, quindi, che proprio nelle stagioni in cui sta dimostrando di saper segnare come il centravanti che tutti avrebbero voluto che fosse – 85 reti in 142 partite dal 2018/2019 – Benzema abbia alzato ulteriormente il livello complessivo del suo gioco, quasi come se volesse ricordare, a tifosi e addetti ai lavori dalla memoria troppo selettiva, tutto ciò che è in grado di fare ogni volta che scende in campo. Anche perché lo stesso Benzema è cosciente del fatto che i suoi compiti non si riducono a quelli del semplice finalizzatore: «Un attaccante può essere più o meno egoista, ma dipende da qual è la tua visione del calcio. Il mio è uno stile di gioco differente, sono un attaccante moderno a cui piace segnare, certo, ma anche fare assist e aiutare la squadra: non credo che il mio ruolo debba ridursi a fare gol, perché poi magari segno ma la squadra non vince», disse nell’aprile del 2019 in una lunga intervista a GQ. Anche se poi realizza gol del genere:
Il momento che cambia per sempre la carriera madrilena di Benzema coincide con la croqueta che porta al gol decisivo di Isco nella semifinale di ritorno della Champions League 2016/17, contro l’Atlético Madrid. È una giocata che mostra come il franco-algerino sia in grado di controllare – anzi: di deformare a piacimento – lo spazio, il tempo e gli avversari grazie alla sue intuizioni visionarie. Questo movimento così particolare, a saltare l’avversario passandosi il pallone dall’interno destro all’interno sinistro, fa ormai parte della memoria muscolare di Benzema, è un suo trademark di riferimento. Al punto che lo replica spesso quando deve spezzare un raddoppio in spazi ristretti. Per esempio l’ha fatto nell’azione che porta alla rete del pareggio in occasione di un altro derby contro i Colchoneros, quello giocato il 7 marzo 2021. In quel caso, dopo aver eluso praticamente tutta la difesa di Simeone con la croqueta, è andato pure a fare gol.
Nonostante la ricercatezza e l’eleganza delle sue soluzioni in fase di rifinitura e realizzazione lascerebbero pensare il contrario, Benzema è un giocatore estremamente concreto. Tutto ciò che fa sul campo è in funzione di un’utilità, di ciò che è meglio per la squadra in quella situazione, del risultato finale. Si può dire che Benzema sia uno dei pochi giocatori al mondo in grado di esplorare il lato estetico del cinismo, di far vedere quanto ci sia di bello in una giocata prima di tutto funzionale. Il taconazo nell’ultimo Clásico esprime perfettamente questo concetto; il primo controllo di Lucas Vázquez, servito sulla corsa da Valverde, non è perfetto e, di fatto, preclude a Karim la possibilità di incrociare di collo-interno sul taglio: a quel punto colpire la palla di tacco non è una scelta fine a se stessa, piuttosto è l’unico modo per rubare il tempo d’intervento al portiere e massimizzare gli effetti di una conclusione conclusione in corsa e controtempo.
Benzema è un “centravanti d’area” nella misura in cui, con questa locuzione, si vuole indicare il giocatore che riesce a trovarsi nel posto giusto al momento giusto per fare sempre la cosa giusta: osservarlo nell’ultimo terzo di campo significa osservare una sorta di distorsione nella nostra tempolinea per cui Benzema sembra muoversi al doppio della velocità, anche quando è costretto a temporeggiare per permettere ai compagni di occupare bene gli spazi negli ultimi sedici metri. Contro l’Athletic Bilbao, ad esempio, si verifica una delle situazioni in cui Benzema si trova più a suo agio: la ricezione sul lato corto dell’area di rigore con la pressione dell’avversario a spingerlo verso l’esterno. Laddove le contingenze suggerirebbero una giocata conservativa a consolidare il possesso, Benzema riesce a creare per sé e per gli altri un vantaggio numerico e posizionale, e lo fa attraverso un sapiente uso del piede perno e una serie di finte e contro-finte che, se vogliamo, hanno un loro equivalente nel basket – Hakeem Olajuwon, per esempio, elevò il suo “Dream Shake” a forma d’arte contemporanea. L’ipotesi che Benzema si sia in qualche modo ispirato allo skillset del leggendario centro nigeriano, implementando nel suo bagaglio tecnico un movimento proveniente da un’altra cultura prima ancora che da un altro sport, aderisce perfettamente all’idea di attaccante creativo e fantasioso che abbiamo di lui. Un attaccante in grado di fornire risposte semplici a problemi complessi senza per questo banalizzarli.
Karim Benzema è un attaccante che ha rimesso l’importanza del primo controllo al centro del dibattito tecnico, e l’ha fatto nel calcio dinamico e ipercinetico del XXI secolo. Se ne facciamo una questione di efficacia ed efficienza, si tratta del fondamentale che lui padroneggia meglio, quello che lo distingue dal resto del mondo: quando Benzema stoppa il pallone lo fa in senso letterale, fermandolo nel punto e nel momento che gli occorrono per guadagnare comunque una frazione di secondo decisiva nello sviluppo e nella progressione dell’azione. I calciatori normali giocano di prima quando vogliono guadagnare un tempo di gioco, Benzema invece riesce a ottenere lo stesso risultato anche con un tocco in più: in questo gol contro il Valencia il controllo d’interno destro gli permette di “ammortizzare” l’intensità del passaggio di Marcelo e di calciare comunque nella maniera migliore possibile, ovviando allo svantaggio solo teorico del tempo di gioco perso con lo stop che permette al difensore di accorciare in uscita. Inutilmente. Perché per Benzema, proprio come per il cecchino di Shooter, vale il principio che «lento vuol dire preciso, preciso vuol dire veloce».
Quando Benzema riceve spalle alla porta con la squadra che sta risalendo il campo per vie centrali, riscrive il concetto di controllo orientato. L’utilizzo alternativo dell’interno o dell’esterno esterno del piede per girare intorno all’avversario – dando l’impressione che il pallone scorra naturalmente lungo la sua direttrice di corsa – racconta meglio di tante parole come e quanto abbia lavorato sulla tecnica di base, sulla postura, sul controllo di quel suo corpo da «9 con l’anima del 10» che gli permette di esprimere una dimensione associativa adeguata alla grandezza del suo talento: «Non riesco a stare fermo ad aspettare che arrivi la palla. Penso che il mio dono sia quello di vedere prima le cose che poi farò. Per questo quando arriva la palla so già cosa faremo, per questo sono sempre davanti al difensore che non riesce a prendermi. La chiave di tutto è pensare prima».
Benzema è, allo stesso tempo, la pared ideale per sviluppare l’azione sulle catene laterali e il trequartista atipico in grado di organizzare tempi e spaziature della transizione. E della rifinitura, ovviamente: gli assist di Benzema magari non sono effettati come quelli di De Bruyne, ma giocano ugualmente sul controtempo, sull’idea di tagliare fuori l’avversario riducendo la sua finestra di intervento. Se passaggi per i gol di Vázquez contro l’Eibar e di Valverde contro il Barcellona sono effettuati sulla traccia esterna, e costringono il difensore a pensare in maniera contro-intuitiva e a percorrere più metri di campo di quelli che gli sarebbero necessari per fermare gli avversari, quello per un’altra rete realizzata da Valverde, durante una partita giocata in casa dell’Huesca, rivela l’importanza della surplace che precede il tocco a ribaltare il lato:
Negli ultimi mesi sono stati tanti gli articoli in cui si è sottolineato come Benzema sia finalmente “uscito dall’ombra di Ronaldo” diventando la prima opzione offensiva della squadra, segnando più gol di lui in Champions League nell’ultimo triennio – 15 a 14 – e vedendosi riconosciuto quel ruolo di leader tecnico ed emotivo del Real Madrid che in realtà gli appartiene da molto tempo, e che era solo nascosto dall’ingombrante presenza di Cristiano. In un’intervista con Jorge Valdano dello scorso ottobre, Benzema non era riuscito a nascondere un certo senso di sollievo nel sentirsi «più libero in campo» dopo anni in cui si era adattato per giocare con il portoghese: «A Lione giocavo in modo diverso. A un certo punto mi sono reso conto che dovevo cambiare, che dovevo incidere in altri aspetti del gioco, che dovevo fare più assist: quando giochi con chi segna il doppio e il triplo di te ti devi adattare, mettendo da parte la voglia di far gol a tutti i costi».
Ancora una volta, però, i soli numeri sono fuorvianti o comunque insufficienti nella comprensione del quadro d’insieme. Che Benzema sia tornato ad essere il finalizzatore d’élite che era agli inizi della sua carriera non significa che siamo di fronte a un nuovo cambio di paradigma nella sua interpretazione del ruolo; anzi, il fatto che stia segnando di più è la dimostrazione che essere quel tipo di attaccante “totale” paga, che la continuità realizzativa è la naturale conseguenza del suo saper essere decisivo sia come spalla di un grande centravanti che come centravanti di fatto. Passando da “campione di nicchia” a “campione di tutti”. Com’è giusto che sia. Come sarebbe sempre stato giusto che fosse.