Per decolonizzare la narrazione dei calciatori africani

Il record di Simy e l'esplosione di Osimhen vengono accomunati attraverso i soliti stereotipi sulla forza, sulla velocità. Eppure sono due giocatori molto diversi tra loro. Esattamente come Kessié.

Due tra le storie più intriganti di questo strano campionato di Serie A vengono dalla Nigeria. Da Lagos, una delle città più grandi dell’Africa sub-sahariana, un tempo capitale, e da Onitsha, terra del gruppo etnico Igbo, quello della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie. Sono quelle di Victor Osimhen del Napoli, il nuovo centravanti più interessante del campionato, e di Simeon Tochukwu Nwankwo del Crotone, per tutti Simy, il primo africano a raggiungere i 20 goal in stagione dopo Samuel Eto’o nell’annata 2010/11. Nella storia della Serie A nessuno aveva mai segnato tanto in una squadra arrivata ultima in classifica. Osimhen e Simy sono due punte molto diverse, per età, storia, prospettive, interpretazione del ruolo, ma sono messaggeri di una verità simile: facciamo ancora fatica a comprendere i calciatori africani. Le nostre griglie non sono aggiornate, siamo ancora spettatori coloniali, se un attaccante viene da Lagos gli chiediamo atletismo verticale (qualcuno ha paragonato Osimhen a Bolt: è successo davvero), a un centrocampista il monopolio della forza, e così via.

L’antropologo dello sport Bruno Barba, nel suo ultimo libro Il corpo, il rito, il mito (Einaudi), ci ricorda che questo tipo di visioni (lui fa come esempio il caso degli atleti neri che «non sanno difendere perché non sanno concentrarsi», per una frase simile sul tedesco Antonio Rüdiger l’ex calciatore Stefano Eranio fu licenziato dalla tv svizzera) non sono pareri ingenui e innocenti, ma sfociano «nell’essenzialismo, nel razzialismo e di conseguenza nel razzismo». Non è razzista solo chi decide di esserlo, ma anche chi non sa di esserlo. «La pelle è culturale», scrive Barba, «ogniqualvolta si farà riferimento al “corpo dell’atleta” dovremo quindi compiere uno sforzo di astrazione, o meglio, un atto di “decolonizzazione del nostro immaginario” e pensare a doti naturali sempre plasmate e adattate dall’ambiente. È la cultura che determina (parlando di sport, anche l’allenamento) la storia individuale, le risorse morali, la volontà». E probabilmente non aiuta a «decolonizzare l’immaginario» il fatto che nei club televisivi in cui si parla di calcio ci siano sempre e solo commentatori bianchi, che somigliano sempre meno al campionato che commentano.

Osimhen ha una superficie umana adatta al fraintendimento, come sempre le persone giovani con una spropositata autostima, «more than just a little misunderstood», per usare una frase dei Counting Crows, La sua prima stagione in Italia è stata un romanzo: l’arrivo come calciatore più pagato nella storia del Napoli nell’anno della morte di Maradona, un debutto abbagliante, poi l’infortunio grottesco con la Nazionale, una festa in Nigeria in cui ballava dispensando banconote come in un video trap, il Covid, un ritorno in campo in cui non si reggeva in piedi ma doveva giocare per una squadra rimasta per settimane senza punte di ruolo. E un finale di stagione in cui ha riscritto quello che credevamo vero su di lui, non solo tanti gol importanti e diversi, ma soprattutto una serie di partite in cui è stato il migliore in campo anche senza segnare. Il secondo gol della squadra di Gattuso contro la Fiorentina, assist di Insigne e tiro di Zielinski, nasce da un suo cambio campo da regista offensivo, una di quelle intuizioni che trasformano i compagni in sponde da flipper consequenziali alla sua logica. La rivoluzione di Osimhen, più che nella sua agilità fisica, è stata nell’agilità di pensiero, è stata un fatto tattico, ha disincagliato il Napoli dai suoi cliché mentali, con la sua lettura del gioco gli ha dato quello che gli serviva e ha riscritto il funzionamento della squadra, ne ha cambiato l’orientamento da orizzontale a verticale. Il Napoli dell’ultimo decennio è stato un’aristocrazia degli attaccanti: Cavani, Higuaín, Mertens, Milik, un catalogo di interpretazioni del gioco nel quale ora c’è anche Victor Osimhen da Lagos, che no, non somiglia a Bolt, o a Kanu, come ha detto qualcun altro. Non è un duecentista con una buona media gol, ma un intero modo di giocare a calcio.

Il processo evolutivo di Simy è stato più lento, è un classe ’92 e ha trovato una collocazione definitiva nell’immaginario del calcio italiano solo alla soglia dei trent’anni, in una squadra retrocessa senza obiezioni, quel Crotone sposato nel 2016 come progetto di vita, più di 150 partite in cinque anni e due categorie. Rimarrà in Serie A o comunque nel calcio di alto livello, perché ormai è diventato più grande della sua squadra e più reale del cliché dal quale è dovuto evadere: la punta africana alta, sgraziata, goffa e inadeguata, il centravanti preterintenzionale che per apertura alare e rapporto tra altezza e peso non potrebbe segnare, ma segna perché non lo sa. Le avvisaglie c’erano: l’anno scorso in B è stato il primo giocatore africano a vincere il titolo di capocannoniere in un campionato professionistico italiano; nel 2018, anno santo delle rovesciate contro la Juventus, ne segna una che fa gridare a Riccardo Trevisani di Sky «Ma che roba è?». Per diventare Simy, Simeon ha dovuto imparare a governare il suo corpo nello spazio con saggezza e precisione. I titoli Seo degli articoli lo paragonano ovviamente a una gazzella, in realtà sembra più il polpo di My Octopus Teacher, un maestro nell’usare gli elementi del contesto in relazione al proprio corpo per trarre un vantaggio tattico ed esistenziale. È un attaccante che segna tanto ma tira poco, quindi sbaglia anche poco. A vederlo non lo definiresti essenziale, ma è più un nostro problema nel capire le cose che suo nel farle. Nel suo incrocio di stagione con Osimhen, Simy segna due goal giocando a nascondino con Manolas e Maksimovic, legge le intenzioni di Benali e Messias, costruisce una zona di vantaggio e fa doppietta.

In una bella intervista a SportWeek, Simy scrive quasi un manifesto del simysmo: «Non siamo uguali. Non saremo mai tutti uguali. Io sono Simy, sono alto quasi due metri e questo mi dà dei vantaggi e degli svantaggi. Coi piedi e con la testa arrivo ad altezze dove altri non arrivano, ma negli spazi stretti non sono Messi. Io, appena mi danno la palla, devo colpirla». In un racconto equilibrato della Serie A, Simy sarebbe un personaggio ispirazionale sulle possibilità dello sport in relazione ai limiti del corpo. Il calcio è non conformità, è la sua bellezza, i due monumenti di questa epoca, Lionel Messi da Rosario e Cristiano Ronaldo da Madeira, hanno due corpi così diversi che sembra incredibile facciano lo stesso sport allo stesso sublime livello. E questo giù a scendere vale anche per Simy, non è la storia ma colui che la racconta, non è il corpo ma la sua gestione e la sua crescita. Lui e Osimhen stanno crescendo e nel processo contribuiscono a riscrivere il gioco, la domanda è: noi stiamo crescendo altrettanto? Quanto perdiamo a raccontare male i calciatori la cui origine ci sembra dire già tutto?

Tante azioni belle, tutte molto diverse tra loro, di Victor Osimhen: gol di potenza, ma anche colpi di tacco e di suola

I due attaccanti sono avanguardia di un discorso che ovviamente potrebbe essere più ampio: sono quattro, solo quest’anno, i calciatori africani in doppia cifra in Serie A. Ci sono anche l’angolano M’Bala Nzola, che ha contribuito a salvare lo Spezia, e ovviamente Franck Kessié: proprio l’ivoriano del Milan è un altro esempio di un’affermazione di carriera anche contro un certo tipo di pregiudizi, quelli del centrocampista nero tutto corsa e forza; Kessié, non a caso detto “il Presidente” è stato un vice-leader emotivo alle spalle di Ibra e un faro tattico per il Milan, ottimo rigorista, gran senso della posizione, uno dei calciatori più utilizzati da Pioli, che ne ha fatto un punto di equilibrio e il cardine intorno al quale ruota il suo progetto rossonero.

Il guineano Amadou Diawara è un anno più giovane, da ragazzino a Bologna sembrava il progetto di un centrocampista totale, poi la crescita è rallentata, ha scontato un infortunio nel Napoli, a cavallo tra Sarri e Ancelotti, e i problemi della Roma di Pallotta. Si è sempre ispirato a Yaya Touré ma, rispetto al monumento di Barcellona e City, Diawara ha un impatto meno vistoso. La cosa che colpì di lui già da minorenne era il senso della posizione, la saggezza in campo, la lettura nei tempi del pressing. È ancora in tempo per fare il salto riuscito a Kessié, probabilmente gli serve specializzarsi, anche per sfuggire ai cliché di chi vede solo corsa in un centrocampista che sa fare bene tante cose. E vedremo come andrà al giovanissimo compagno di squadra gambiano, Ebrima Darboe, che dovrà anche superare altri cliché morbosi, quelli sulla sua storia-da-brividi di migrante. Ci sono diversità e varietà nel calcio di origini africane e c’è una pigrizia nello sguardo da decolonizzare. «Non saremo mai tutti uguali», dice Simy: è il manifesto che ci ha portato, oltre a due stagioni consecutive da venti gol.