Prima scena, un flashback: Baggio, bambino, col pallone fra i piedi, dentro l’officina di casa sua che immagina di calciare il rigore decisivo in un’ipotetica finale dei Mondiali; si fa la telecronaca da sé, e poco dopo scopriremo che, ad appena due anni, aveva promesso al padre che sarebbe stato lui, da grande, a vendicare la sconfitta degli Azzurri contro la Seleção del 1970. Quelle parole, per lui, diventeranno un’ossessione. Sta prendendo la rincorsa. Immagine successiva: Baggio è adulto, ed è a Pasadena; conta i passi dal dischetto. È il 17 luglio 1994. Anche se per il momento non si vedono altro che gli scarpini, sappiamo già come andrà a finire. E non vorremmo neanche vederlo, quel ragazzino che, alla fine della sequenza, segna ed esulta.
Il cerchio non si chiude, non si chiuderà mai. Eppure c’è già molto del senso, della struttura e dei toni dell’opera tutta in questi primi minuti de Il divin codino, il biopic su Roberto Baggio di Netflix in uscita il prossimo 26 maggio. Nell’anno in cui il lungo addio alla Roma di Francesco Totti si trasforma in una commedia all’italiana surreale, la narrazione qui è rovesciata, dentro un dramma umano prima che sportivo in cui la regista Letizia Lamartire non concede colpi d’autore, è vero, ma pur tenendosi in un taglio documentaristico cerca di ricostruire l’intimità e soprattutto la solitudine di un campione maledetto, che sconta il talento con gli infortuni, i contrasti con gli allenatori, i pochissimi titoli vinti.
Non c’è redenzione, nel Baggio interpretato da Andrea Arcangeli, malinconico e spigoloso come da iconografia, riservato e taciturno. Se non attraverso l’amore dei tifosi, da superare ogni stereotipo da divo globale che pure nei Novanta si è portato dietro, e di cui qui non si fa menzione; se non nella famiglia, nella moglie Andreina (Valentina Bellè) e nel padre Florindo (Andrea Pennacchi, autore dell’interpretazione più credibile insieme allo stesso Arcangeli), lavoratore ruvido e di poche parole, concreto, a cui il protagonista deve l’umiltà e l’onestà (costanti persino nella sua dialettica), le certezze, gli insegnamenti. Non è rapporto facile, il loro. Ma è alla base del film e della formazione stessa del Baggio-uomo, eroe fragile. Quando a diciassette anni un crociato compromesso e 220 punti di sutura rischiano di troncargli la carriera prima del professionismo vero, è il papà a dirgli che quell’incidente è la miglior cosa che gli potesse capitare. «Ti servirà a capire che nella vita ti regala niente nessuno». Di certo non Arrigo Sacchi (Antonio Zavatteri), qui descritto come dogmatico e con cui Usa 94 diventa un’occasione per riaprire ferite psicologiche più che sportive; tantomeno Trapattoni (Beppe Rosso), che rinnegando la parola data non lo convoca del 2002 – nonostante un recupero dall’ennesimo infortunio da mettere nei libri di medicina, per rapidità. Anche qui, però, nessuna redenzione.
Perché Il divin codino non è un banale film motivazionale, sul “non mollare”; semmai è una prova, amara, di resistenza esistenziale. Il racconto, soprattutto, del tormento di un calciatore diventato icona di una nazione. La storia di come anche il talento possa essere ingombrante – per aspettative che comporta, dedizione al lavoro che richiede, ripartenze in salita a cui costringe – e di quanto, per Baggio, la felicità sia passata ai margini del rettangolo di gioco, piuttosto che dentro. C’è un destino che diventa ossessione, ovvero giocare e vincere i Mondiali col Brasile; e ci sono, di contro e in una trama sintetica, tre momenti salienti che contengo il senso dello storytelling, cioè il primo infortunio da giovanissimo, Pasadena e l’esclusione dall’edizione di Corea del Sud e Giappone, l’ultima a cui avrebbe potuto partecipare. Tradotto: un destino, sì, ma anche l’impossibilità di compierlo.
Il trailer ufficiale de Il Divin Codino
Al di là di alcune scene di calcio giocato girate ex novo, fedeli alla realtà come le somiglianze fra attori e personaggi reali, la sceneggiatura sorvola su momenti di relativa gloria (parliamo di Baggio: la serenità sembra non averlo mai riguardato davvero, e il film lascia la stessa impressione) come gli anni alla Juventus e il Mondiale, l’unico da venerato maestro, del 1998. Solo una menzione al Pallone d’Oro, nessuna alla difficile separazione dalla Fiorentina. Lamartire gioca di sottrazione, dando per scontati i successi in campo, risultati obbligati di uno che tutti sin da piccolo chiamano «predestinato». Al contrario, l’analisi dell’uomo “dietro il campione” – leitmotiv con cui Netflix ha presentato il film – passa per il percorso spirituale, lo stile di vita semplice, l’avvicinamento al buddismo, gli infortuni, il rapporto stesso col dolore.
Cosa resta? L’integrità morale, l’amore dei tifosi che oltrepassa un destino mai compiuto, l’onestà come valore intimo e privato, l’assenza di macchie morali. Un cono d’ombra, l’unico, quando Carlo Mazzone (Martufello) gli dice che lo vorrebbe al centro del Brescia, “intoccabile”, e il protagonista lascia intendere che è ciò che, in buonafede, ha sempre cercato anche nei contrasti con Sacchi e gli altri tecnici. Ecco: la sua immagine, qui, non ne esce benissimo; ma a parte questo passaggio, Il divin codino è riproposizione fedele e funzionale, che approfondisce senza stravolge o romanzare un’epica che conosciamo già. Tanto che ne viene fuori la classica immagine di Baggio: dannato, che sconta il talento con la sfortuna; schivo, per questo lontano dalle telecamere e comunque sempre diffidente; lavorato, ché come gli ripete il padre «se aspetti che ti dicano bravo per ogni roba che fai, non fai tanta strada»; amatissimo dai tifosi, in maniera trasversale, ed è fondamentale. Non ci ha salvati, Baggio, al Mondiale; ci ha insegnato a restare incompiuti. E per questo, forse, è così amato.