Un anno di stadi vuoti

Ora che i tifosi stanno tornando, ci siamo resi conto di quanto sia stato diverso il calcio senza di loro.

È stata la migliore di tutte le stagioni, è stata la peggiore di tutte le stagioni. Guardando quello che è successo dentro al campo è stata senza dubbio la migliore, chiedere più di quel che ci è stato dato sarebbe da ingordi: la meritatissima vittoria del Chelsea in Champions League, la magnificenza del Manchester City di Pep Guardiola e del Bayern Monaco di Hansi Flick, il Lille e l’Atletico Madrid che vincono il campionato all’ultima giornata, l’Inter, proprio l’Inter, di Antonio Conte, proprio Antonio Conte, che toglie al social media manager della Juventus la soddisfazione di inventarsi l’hashtag per festeggiare il decimo scudetto consecutivo. E manca ancora un Europeo intero, una sessione di calciomercato in cui finalmente scopriremo com’è che si fanno le nozze con i fichi secchi. Quanti anni sono passati dall’ultima volta che c’era così tanto da dire e da sapere del calcio europeo?

Guardando quello che è successo attorno al campo, però, è stata senza dubbio la peggiore delle stagioni. La più crudele, certamente: è successo tutto al centro di un anello di vuoto e silenzio, una scenografia triste e povera che rende ogni scena minore e ogni protagonista una comparsa. Nella memoria collettiva il 19 febbraio 2020, il giorno di Atalanta-Valencia, è il giorno in cui siamo stati costretti a chiudere lo stadio, cioè tutti gli stadi: ciò che succederà a Bergamo nelle settimane successive a quell’andata degli ottavi di finale di Champions League cambierà il punto di vista, le necessità e le priorità, costringerà a imparare nuove parole (superspreader), nuove regole, nuovi “protocolli”. A più di un anno di distanza da quella partita di San Siro mi capita ancora di rivedere le foto degli spalti ovviamente strapieni di tifosi della Dea, e di dividere la folla in gruppetti da cinque tifosi l’uno: una persona in ognuno di quei gruppetti ha poi contratto il SARS-Cov-2. Spesso mi chiedo se e quando dimenticherò la sfumatura di significato che porta una folla a trasformarsi in un assembramento, se e quando la smetterò di scomporre un urlo nelle famigerate “goccioline”, se e quando la finirò di chiamare il palmo della mia mano “superficie”. Mi chiedo se e quando andrà via questo bruciore che sento alla bocca dello stomaco ogni volta che immagino il ritorno al “campo” con mio padre, 70enne ossessionato dal Taranto ed innamorato dello stadio “Erasmo Iacovone”.

Atalanta-Valencia è diventata l’inizio di tutto anche se il 19 febbraio del 2020 nessuno sapeva ancora niente: il paziente uno italiano verrà trovato due giorni dopo a Codogno, quello zero non lo troveremo mai e ormai che importanza può avere? La pandemia ci ha costretto a un anno e mezzo di retrospettiva, di ricerca di un inizio che poi era il tentativo di trovare un senso. C’è un’immagine che per me è l’inizio del covid-19 dentro il calcio, una frase che a me spiega il senso dello stadio chiuso: «Put your hands away, you fucking idiot», tieni lontane le mani, idiota del cazzo. La sera dell’11 marzo del 2020 Jurgen Klopp entra ad Anfield: lo stadio è pieno, il Liverpool si gioca la qualificazione ai quarti di finale di Champions League contro l’Atlético Madrid, i tifosi dei Reds cantano a squarciagola i versi di “You’ll Never Walk Alone”, melensi come solo i versi degli inni popolari sanno, devono e possono essere, Boris Johnson parla ancora di immunità di gregge perché ancora non ha avuto la polmonite bilaterale, in tutto il mondo ancora non si sa cosa stia succedendo davvero e cosa fare per evitare il peggio. Nel breve tragitto che porta dal sottopassaggio alla panchina, Klopp si ritrova circondato dalle mani di tifosi che anche in quell’occasione gli rivolgono un gesto che in un’infinità di occasioni precedenti stava a significare affetto, adorazione, ammirazione, ma che da quella sera vuol dire pericolo, trasmissione, infezione. Klopp si ferma, sceglie un tifoso a caso tra i tanti che lo circondano, uno tra le decine che in quel momento si allungano verso di lui, e gli dice di tenere a posto le mani, gli dice che è un idiota del cazzo. Klopp aveva perfettamente ragione, ma aveva perfettamente ragione anche l’idiota del cazzo, ed è per questo che chiudere gli stadi era l’unica cosa da farsi: attorno a un campo da calcio si può stare solo troppo vicini, si può parlare solo a voce troppo alta, si può solo perdere il controllo, si può solo essere idioti del cazzo. Se non può essere in quel mondo allora che non sia affatto.

Uno stadio vuoto porta con sé tutta una serie di significati “punitivi”: è vuoto lo stadio della squadra che non merita di essere vista dal vivo e che non è degna del prezzo del biglietto, è vuoto lo stadio dei tifosi razzisti e violenti, è vuoto lo stadio brutto e decrepito. Ci sono stati momenti in questo anno e mezzo in cui ho pensato che le porte chiuse fossero una precauzione inevitabile e anche una punizione inaspettata: l’anello di vuoto e silenzio amplifica ogni suono, fa rimbombare tutte le parole, mette a disagio sempre. Non c’è modo di sfuggire alla consapevolezza che il calcio così è accettabile solo previa sospensione dell’incredulità, quel meccanismo della mente che ci permette di prendere sul serio la finzione e di godere delle cose inverosimili: facciamo finta che questa cosa che chiamiamo calcio sia vera, che sia possibile, che succeda davvero, e facciamo finta che quell’altra cosa che si chiama pandemia non sia vera, non sia possibile, non stia succedendo davvero. Almeno per i prossimi novanta minuti.

Anche se la ragione è in realtà assai prosaica (lavori in corso al Bernabéu), ho amato il fatto che il Real Madrid abbia disputato tutte le partite della stagione 2020/2021 nel centro sportivo di Valdebebas, su di un campo di allenamento che si chiamerà pure Estadio Alfredo Di Stéfano ma che resta sempre un campo di allenamento. Un luogo minore per una stagione minore, un palcoscenico piccolo per un evento trascurabile: avrebbero dovuto fare così tutti quanti, avrebbero dovuto inserire questa regola in ogni protocollo nazionale. Non conoscessi Florentino Pérez, penserei davvero a un omaggio ai tifosi della Casa Blanca. Conoscendo Florentino Pérez, chissà che non sia stata la sua maniera di dire cosa ne pensa del calcio delle leghe nazionali e delle competizioni UEFA, di Aleksander Ceferin e della riforma della Champions League.

La finale di Champions League di Porto si è giocata davanti a 16.500 spettatori: lo stadio Do Dragão può ospitarne 50mila (Jose Coelho/POOL/AFP via Getty Images)

Quanto ci abbiamo messo ad abituarci alla mancanza, alla perdita di un pezzo? Il desiderio era tale che è stato scambiato per (tossico)dipendenza: datemi qualsiasi cosa ma non fatemi stare senza, una partita senza tifosi è pur sempre una partita. Che la Super Lega sia nata (e morta?) nell’anno della pandemia ovviamente non è un caso: c’entrano i debiti che crescono e i fatturati che calano, ma c’entra anche la prova provata che può esistere un calcio che va oltre i luoghi e i riti che lo hanno portato fin qui, oltre quella convergenza di spazio e tempo che è lo stadio, oltre quell’unione di appartenenza e comunanza che è il tifo. Forse l’anno di questo calcio “diverso” è finito davvero con le proteste contro il calcio “nuovo”, quello pensato per attirare l’attenzione delle generazioni che al calcio preferiscono Fortnite. Le folle si sono riviste intorno agli stadi prima che dentro, si sono radunate per protestare prima che per esultare: era l’unica maniera per superare l’equivoco e per ricordare che di eccezione si è trattato, che la stagione degli stadi chiusi e degli spalti deserti sta per finire, che lo stadio è ancora il luogo della voce più che del microfono, dell’occhio più che della telecamera, assemblea popolare prima che set televisivo. O forse no: mentre scrivo questo pezzo, leggo la notizia che la Supercoppa italiana si giocherà in Arabia Saudita. E che differenza c’è tra l’Olimpico chiuso e una trasferta a Riad?

La pandemia finirà e gli stadi riapriranno. A Reggio Emilia, qualche giorno fa, c’erano 4mila persone ad assistere alla finale di Coppa Italia tra Juventus e Atalanta: normalmente il Mapei Stadium sarebbe stato un deserto, ma è sembrato il Monumental. Stesso discorso per il Dragão di Porto, che ha aperto a 16mila tifosi di Chelsea e Manchester City per la finale di Champiojns League, ma in realtà ha aperto a tutti noi. Anche agli Europei, che ormai sono alle porte, andrà più o meno allo stesso modo. Alla certezza di quel che sarà, però, seguono i dubbi sul come sarà: dopo un anno e mezzo passato a misurare a occhio nudo il metro e ottanta di salvifica distanza, come sarà tornare in un luogo pensato per avvicinarsi, per stringersi, per unire? Non vediamo l’ora di scoprirlo, in realtà.