È finalmente arrivato il momento dell’Inghilterra?

Dopo l'ottimo quarto posto ai Mondiali, la squadra di Southgate è ancora più forte, più completa e profonda: merito del lavoro del ct, della supremazia della Premier e di una generazione di campioni.

What would happen if England actually won the World Cup? Era questo il titolo di uno spot bellissimo con cui, nel giugno 2018, la BBC annunciò la sua programmazione in vista degli imminenti Mondiali. Con questa scelta, gli uomini marketing del servizio pubblico britannico anticiparono – anzi: annunciarono – il tormentone “It’s coming home” che nel mese successivo che avrebbe accompagnato l’Inghilterra fino alla semifinale persa contro la Croazia. Si trattava di una divertente distopia in cui venivano mostrate le conseguenze della conquista del secondo titolo mondiale 52 anni dopo il primo: Harry Kane portato in trionfo con la coppa come Bobby Charlton nel ’66, il boom di parti gemellari con i bambini battezzati Alexander e Arnold, la faccia del nuovo England Hero, Raheem Sterling, sulle nuove banconote da 10 pounds, il neverending party di Jamie Vardy, i barbieri sommersi di richieste di un taglio alla Gary Cahill, Jordan Pickford protagonista di uno 007 dal titolo From Russia With Glove, i banner elettorali per Harry Maguire primo ministro proiettati su una delle facciate di Westminster, la regina Elisabetta che si affaccia al balcone di Buckingham Palace dabbando alla maniera di Jesse Lingard e Dele Alli.

Nella sua dimensione parodistica e volutamente esagerata, quello spot ebbe però il merito di raccontare – seppure a modo suo – un aspetto reale della nuova golden generation del calcio inglese: la profondità della rosa, intesa come qualità e la quantità di talento a disposizione in ogni reparto di quella che avrebbe potuto considerarsi l’Inghilterra più forte di sempre, o comunque la più forte degli ultimi cinquant’anni. Quella sensazione si rinnova alla viglia degli Europei 2020: la squadra di Gareth Soutghate, oggi, è ancora più forte e più giovane e più futuribile rispetto a quella di tre anni fa. E perciò bisogna necessariamente chiedersi, e chiederci: è giusto inserirla tra le favorite per alzare il trofeo Henri Delaunay al cielo di Wembley, il prossimo 11 luglio?

Guardando al momento storico, al valore dei singoli giocatori e alla capacità delle squadre di club di adeguarsi alle istanze del calcio contemporaneo, la risposta sembrerebbe essere sì. Oggi la Premier League è diventata il palcoscenico privilegiato degli atleti più moderni e quindi più forti del mondo, molti dei quali sono cresciuti nelle Academy inglesi grazie a metodologie di allenamento che hanno ridefinito l’idea di talento precoce secondo i canoni della multidimensionalità, dall’adattabilità alla funzione piuttosto che a un ruolo, della velocità di piede e di pensiero. Elementi come Mount, Foden, Rashford, Bellingham e Sancho – nessuno di questi supera i 22 anni di età – sono decisivi già da tempo, e ad altissimo livello, perché sono stati allenati ad avere questo tipo di impatto fin da subito, ad averlo più in contesti tatticamente flessibili, accanto a compagni tecnicamente sopra la media, dentro club dalla multiculturalità spiccata, almeno per quel che riguarda la capacità di assorbire lo stile degli allenatori – e quindi delle scuole calcistiche – più influenti d’Europa. Quello relativo all’anagrafe e alla (presunta) mancanza d’esperienza diventa, perciò, un dettaglio marginale o comunque irrilevante nella misura in cui non sembrano esserci più dubbi: non è più una questione di se ma di quando l’Inghilterra trionferà in un grande torneo internazionale, con un’ideale deadline fissata al 2024, quando il nucleo dell’attuale nidiata di aspiranti fuoriclasse avrà raggiunto il massimo sviluppo tecnico, fisico, psicologico. Il problema, paradossalmente, potrebbe essere costituito da una sovrabbondanza tale da rendere più difficile l’individuazione di una gerarchia chiara e la scelta dei giocatori più adatti all’avversario di giornata: una condizione che potrebbe fare tutta la differenza del mondo in un torneo breve, anzi brevissimo, come un Europeo o un Mondiale.

In ogni caso, non tutto è legato solo una questione di nomi, di alternative di lusso o dell’hype derivante dalla possibilità di poter schierare un undici sul modello dell’Ultimate Team di FIFA 21: è il modo in cui le singole individualità si sono inserite in un contesto di squadra solido, ambizioso, credibile, pensato per poter resistere a quella pressione dei grandi appuntamenti che ha frenato i vari Gerrard, Lampard, Terry, Ferdinand, Beckham, Owen e Rooney ogni volta che si presentavano al loro personale appuntamento con la storia. Tutto questo è avvenuto grazie a Gareth Southgate, un allenatore abituato a programmare e lavorare come tale, andando oltre le logiche del mero selezionatore: la comoda marcia di avvicinamento a Euro 2020, appuntamento raggiunto dominando il proprio girone di qualificazione con sette vittorie in otto partite, 36 gol fatti e solo sei subiti, e con Kane capocannoniere delle qualificazioni con 12 reti, gli ha permesso di proseguire nel lavoro di ricostruzione e consolidamento avviato nell’autunno del 2016 (quando prese il posto del dimissionario Sam Allardyce) e pensato per dare all’Inghilterra un’identità tattica riconosciuta e riconoscibile, quasi come fosse una squadra di club.

Prendetevi una pausa guardando tutti i gol segnati nelle gare di qualificazione agli Europei

Utilizzando la competizione in Russia come “laboratorio” – e riuscendo comunque a cogliere il miglior risultato dai tempi di Italia 90 – Southgate è riuscito ad implementare e personalizzare un sistema che risente delle influenze culturali e filosofiche che tutti i grandi tecnici sbarcati in Premier negli ultimi anni, primo tra tutti Pep Guardiola, hanno avuto sull’intero movimento: l’Inghilterra tutta, oggi, è una squadra associativa, dinamica e iper-cinetica, allenata sui dettami del gioco posizionale in fase di possesso, abituata a stare corta e alta sul terreno di gioco, naturalmente predisposta a cercare il recupero palla nella metà campo avversaria e ad occupare i mezzi spazi alle spalle della prima e seconda linea di pressione. Una squadra, quindi, assolutamente figlia dei suoi tempi e che ha abbandonato da tempo gli anacronismi tipicamente british del 4-4-2 ad ogni costo, del kick ann run e del predominio della componente fisica su quella tecnica, senza però rinunciare all’intensità della corsa con e senza palla.

Questo a prescindere da quali giocatori vengono schierati di partita in partita o, forse, proprio grazie alla loro intercambiabilità e complementarietà. L’Inghilterra è una squadra che può giocare indifferentemente a tre o a quattro dietro grazie alla presenza di Kyle Walker: agendo da braccetto di destra di una difesa a tre, Walker permette di alzare la posizione e il raggio d’azione dei due esterni difensivi – Trippier/James a destra, Shaw/Chilwell a sinistra – ovviando al problema creato dall’assenza di Alexander-Arnold, sostituito all’ultimo da Benjamin White del Brighton. Se però, come sembra, la scelta sarà quella di puntare su una linea di quattro, difficile immaginare un undici-tipo che non contempli la presenza di Declan Rice e Jordan Henderson, sia in caso di 4-3-3 che di 4-2-3-1; certo, la tentazione di affidarsi totalmente alla tecnica del duo Foden-Mount con un pivote a schermare la difesa è forte, ma la pericolosa tendenza della squadra a disarticolarsi contro avversari abili nella gestione e consolidamento del possesso suggerisce l’impiego di un secondo mediano a protezione degli spazi, lasciando a Mount il compito di innescare gli istinti verticali di Sancho, Sterling e Rashford.

In attacco tutto dipenderà da Kane e dalle sue qualità di centravanti di manovra in grado di abbassarsi a cucire il gioco spalle alla porta, favorendo gli inserimenti della batteria di trequartista/esterni che Southgate gli metterà a disposizione di volta in volta. In questo senso il potenziale elemento di novità è costituito da Jack Grealish: il numero 10 del West Ham è uno dei pochi giocatori della rosa, forse l’unico in senso assoluto, in grado di fermarsi e pensare, impattando sul gioco attraverso la pura tecnica e senza la necessità di alzare sempre e comunque il ritmo di corsa e giocate. Una qualità che potrebbe tornare utile contro squadre abituate a difendere per blocchi bassi e poco inclini ad allungarsi, a concedere l’attacco della profondità.

Harry Kane è il capitano della Nazionale inglese dal 2017; il suo score totale è di 34 reti in 54 presenze, sesto cannoniere di sempre dopo Rooney, Bobby Charlton, Lineker, Greaves e Owen (Michael Regan/Getty Images)

Siamo, quindi, al momento in cui Football is coming home per davvero? In realtà i dubbi e le incertezze sono tante e non tutte oscurabili da un parco giocatori cinque stelle extralusso, da un organico che alimenta quella percezione da “too big to fail” per cui l’Inghilterra è di default una delle grandi favorite del torneo. In realtà parliamo di una squadra che ha bisogno di legittimare, anche psicologicamente, il proprio status di big contro un avversario di livello pari se non superiore, e non è detto che questa legittimazione arrivi ora, magari nella prima partita dopo una fase a gironi piuttosto agevole da giocare contro Croazia, Scozia e Repubblica Ceca.

Le incognite sono molte e riguardano soprattutto le condizioni fisiche di alcuni elementi chiave, Henderson e Maguire su tutti, l’involuzione di Pickford dopo l’ottimo biennio 2018-2019, il passaggio alla difesa a quattro dopo un Mondiale e una Nations League giocate a tre, la voglia di sfruttare per intero l’immenso potenziale offensivo da bilanciare con la ricerca di un equilibrio individuale e collettivo, la capacità di alcuni titolari di riciclarsi all’occorrenza come supersub spacca-partite. Dal tempo e dal modo in cui Southgate riuscirà a venire a capo di tutto questo passano le speranze di una vittoria che, stavolta, non sia solo nelle menti dei creativi della BBC.