Pochi giorni fa, quando l’Italia si è radunata per preparare l’esordio contro la Turchia e poi tutte le altre partite degli Europei, Roberto Mancini ha rilasciato un’intervista a Sky Sport in cui è riuscito a nascondere poco, anzi pochissimo, l’orgoglio per i risultati raccolti dagli Azzurri, per la qualità del gioco mostrato dalla Nazionale da quando lui è diventato commissario tecnico. «Storicamente l’Italia è sempre stata definita», ha detto Mancini, «come una squadra che si difendeva e attaccava in contropiede. Ma le cose cambiano, noi abbiamo provato a cambiarle e ci siamo riusciti: abbiamo messo in campo una mentalità diversa, le cose stanno andando bene e siamo sicuri di poter giocare un bel calcio e avere le nostre chance per vincere gli Europei». È tutto vero, è tutto giusto: l’Italia di Mancini è una squadra che si discosta molto dalla tradizione della Nazionale azzurra, ma anche dal calcio che si è visto per tantissimi anni in Serie A, che la faceva da padrone anche quando il nostro campionato era il più ricco e il più ambito del mondo, e che ancora oggi è un po’ incrostato nell’anima del nostro movimento; un calcio basato sull’idea per cui le partite sono una battaglia tattica da vincere in maniera reattiva per non dire speculativa, grazie alla capacità di adattamento, alle mosse che rallentano e quindi limitano gli avversari, ma finiscono anche per rallentare il gioco in senso assoluto.
Non è solo una questione di modulo e/o principi tattici, ma è una sensazione che riguarda l’approccio, il piglio con cui l’Italia scende in campo da tre anni a questa parte: fin dal settembre 2018, quando è iniziato davvero il suo ciclo da commissario tecnico, Roberto Mancini ha voluto che la sua Nazionale imponesse il proprio contesto in ogni partita, contro ogni avversario, o che comunque cercasse sempre di governare il gioco. Ci sono diversi modi per provare a realizzare questa presunzione di controllo: il possesso palla è quello più diffuso e statisticamente più sicuro, ma negli ultimi anni moltissime squadre di alto livello hanno mostrato come la gestione del pallone possa essere uno strumento da utilizzare in maniera diversa, ad esempio per risparmiare energie in alcuni momenti della gara, e non solo la principale risorsa offensiva – si pensi, per esempio, alle transizioni letali del Liverpool di Klopp o del Lipsia di Nagelsmann, all’aggressività furiosa dell’Atalanta di Gasperini, alla difesa per blocchi e all’iper-verticalità del Psg o della Nazionale francese. Di certo, però, tutte le grandi squadre moderne sono simili tra loro per alcune caratteristiche, tutte correlate tra loro: velocità, intensità, ritmi alti. Proprio i concetti di base che Mancini ha cercato di introdurre con forza nella sua Nazionale.
I risultati sono arrivati, e sono un segnale chiaro: cercare di praticare un gioco dominante è una strategia che può funzionare. Anche per l’Italia. Grazie al calcio perennemente proattivo imposto da Mancini, gli Azzurri hanno messo insieme 23 vittorie, sette pareggi e due sconfitte in 32 match ufficiali; l’ultima partita persa risale al 10 settembre 2018, al terzo turno della Nations League 2018/19 (Portogallo-Italia 1-0); da allora, l’Italia ha vinto dieci gare su dieci nelle qualificazioni agli Europei 2020 (con 37 gol segnati), ha raggiunto la fase finale della Nations League 2020/21 e ha permesso a Mancini di diventare il ct con la miglior percentuale di partite vinte nella storia della Nazionale (71,88%), anche grazie all’ultima striscia di otto successi di fila senza gol subiti (altro primato assoluto). Questo rendimento eccezionale si deve proprio al fatto che l’Italia è una squadra con un’identità profonda, e che attraverso questa identità Mancini è riuscito a esaltare i pregi e a nascondere i difetti di una rosa che è sicuramente di alto livello, ma che non può essere considerata alla pari di altre rappresentative – secondo i dati di Transfermarkt, il gruppo convocati per gli Europei ha un valore di mercato complessivo di 771 milioni di euro, sesta quota più alta tra tutte le Nazionali partecipanti. Ma di che tipo di identità stiamo parlando? Quale Italia vedremo agli Europei?
Come tutti gli allenatori e i commissari tecnici del mondo, anche quelli più idealisti e ideologizzati, Mancini non ha disegnato la sua squadra partendo solamente da una sua visione. L’Italia che abbiamo conosciuto e apprezzato negli ultimi tempi è il frutto di una valutazione del materiale a disposizione, è una squadra costruita intorno alle doti dei suoi elementi migliori. Nel caso specifico, è evidente che si tratti dei centrocampisti Verratti, Jorginho e Barella, di Bonucci in difesa e di Insigne in attacco. Quando hai a disposizione calciatori di questo tipo, è inevitabile che il principio di gioco fondamentale sia il possesso palla, inteso come tentativo di risalire il campo attraverso una rete di passaggi puliti, precisi, insistiti. Per farlo con efficacia, il 4-3-3 teorico di Mancini si trasforma in uno schema decisamente più fluido, in cui uno dei due terzini – solitamente quello destro – resta basso, formando una difesa a tre in fase di costruzione; contestualmente, la mezzala destra scivola dietro le linee avversarie mentre quella sinistra si affianca al play basso, determinando una sorta di 3-2-4-1 (o anche 3-2-2-3) in cui Insigne agisce soprattutto nel mezzo spazio di centrosinistra, quasi come “dirimpettaio” di Barella.
È così che l’Italia cerca di sfruttare le caratteristiche dei suoi calciatori più forti: Bonucci ha diverse soluzioni per impostare, sia per vie centrali che in ampiezza; Verratti e Jorginho possono muovere o portare il pallone verso la metà campo avversaria, appoggiandosi magari a sinistra, dove Insigne, il terzino – solitamente Spinazzola, ma anche Emerson Palmieri – e la mezzala di parte hanno gli strumenti necessari per ricreare i triangoli tipici del gioco di posizione che hanno fatto la fortuna del capitano del Napoli. Allo stesso tempo, però, l’Italia ha anche un’anima verticale: nel caso in cui il gioco sulla sinistra risulti stagnante e quindi facilmente contenibile, Barella e/o il centravanti (Immobile più di Belotti) possiedono l’intuitività e il tempismo che servono per attaccare bene la profondità, quindi per offrire un’alternativa valida non solo ai costruttori di gioco del centrocampo, ma anche a chi avvia l’azione da dietro. Inoltre, anche Chiesa e Berardi sanno giocare bene in campo aperto, pur possedendo caratteristiche diverse – Berardi è mancino, è più tecnico e tende a rientrare verso il centro, Chiesa invece garantisce sempre ampiezza e ha l’esplosività per essere efficace anche a difesa schierata.
Possesso palla, gioco di posizione, sfruttamento del lato debole, da sinistra a destra
In fase offensiva, è come se Mancini avesse due squadre in una, divise sull’asse orizzontale: a sinistra c’è un Italia che pratica un calcio sofisticato in spazi stretti, necessariamente più ragionato, mentre dall’altro lato del campo – che idealmente viene svuotato di avversari grazie alla maggiore densità creata dalla parte sinistra – esiste un Italia più diretta e verticale. Non è un ossimoro, anche perché entrambi gli stili di gioco presuppongono – anzi: impongono – una difesa ad alta intensità. In effetti tutti i pezzi sembrano combaciare proprio perché la linea a quattro e il centrocampo a cinque che si formano in fase passiva, cioè quando l’Italia deve recuperare il pallone, non attendono l’avversario ma preferiscono attaccarlo, soprattutto nella fase di prima costruzione. Quando gli avversari riescono a superare il centrocampo, i reparti tendono a ricompattarsi, ma non si appiattiscono troppo dentro o nei pressi dell’area di rigore.
La Nazionale di Mancini, insomma, non arretra mai, cerca sempre di tenere alto il ritmo di gioco, di riconquistare subito il possesso del pallone e poi di attivare dei meccanismi offensivi ormai consolidati. È un sistema composito che funziona bene, e che negli ultimi due anni è riuscito ad andare oltre le caratteristiche dei singoli: Bonucci e Chiellini (ma anche Acerbi e Bastoni) sono abituati a difendere con meno aggressività, eppure con l’Italia sembrano a loro agio, sembrano in grado di soddisfare le consistenti richieste e le necessità di un calcio necessariamente orientato alla pressione alta, più che alla difesa posizionale. Certo, le ottime prestazioni e i grandi risultati raggiunti finora vanno pesati, cioè vanno parametrati alla qualità degli avversari: da gennaio 2019 a oggi, gli Azzurri hanno affrontato solamente due squadre che sono nelle prime 25 posizioni del Ranking Fifa aggiornato a maggio 2021, vale a dire Olanda e Polonia, e quindi hanno potuto gestire comodamente il possesso palla e le transizioni difensive nella stragrande maggioranza delle partite; allo stesso modo, però, va detto che l’Italia non ha mai perso e ha subito solo due gol nelle quattro gare contro la rappresentativa olandese e quella polacca.
È evidente come questa Nazionale sia cresciuta molto, nel gioco e nella personalità. Merito di Mancini, che ha scelto i giocatori giusti, i migliori pilastri possibili intorno a cui edificare una squadra coerente con il suo progetto iniziale. Merito anche di questi calciatori, che partivano da una buonissima base di talento e hanno fatto progressi enormi: su tutti si stagliano le figure di Jorginho e Verratti, che non a caso hanno riportato un po’ d’Italia in finale di Champions League dopo diversi anni, ma anche Barella, Insigne, Immobile e Donnarumma hanno fatto degli importanti passi in avanti. In virtù di tutto questo, è facile – e anche giusto – immaginare che l’Italia in campo agli Europei sarà una squadra molto simile a quella degli ultimi mesi/anni, nei pregi di cui abbiamo parlato come nei difetti. Quali difetti? Una certa ripetitività nel cercare sempre gli stessi giochi offensivi; le incertezze in fase di transizione difensiva non verificate contro avversari più forti; l’assenza di un centravanti con caratteristiche diverse, più associative, rispetto a Belotti e Immobile – al netto del possibile exploit di Raspadori. Sono delle mancanze quasi genetiche, nel senso di inevitabili, quando si lavora a un sistema di gioco così definito e radicale. E quando non si può attingere al calciomercato.
In virtù di tutto questo, il futuro degli Azzurri è un paradosso: al netto di cataclismi difficilmente pronosticabili, soprattutto in un torneo che qualifica 16 squadre su 24 alla seconda fase, il loro percorso dipenderà non tanto da loro, quanto dagli incroci del tabellone. Il valore assoluto e i bonus/malus tattici di questa Nazionale sono facili da individuare, sono cristallizzati, e allora i risultati saranno determinati dalla forza o dalla condizione di coloro che scenderanno in campo. Insomma, è difficile pensare che Turchia, Galles e Svizzera abbiano la qualità necessaria per fermare una squadra funzionante ed entusiasta come quella di Mancini; allo stesso modo, però, c’è ancora un sensibile gap tecnico rispetto ad alcune Nazionali, alla Francia, al Portogallo, all’Inghilterra, forse anche al Belgio e alla Germania. Il ct ha provato e proverà a colmare questa distanza con il lavoro strategico sul campo, con tutto quello di cui abbiamo parlato finora, ma non è detto che possa bastare. Di certo, però, siamo in un’era completamente diversa rispetto ai Mondiali 2014, agli Europei 2016 o alle qualificazioni ai Mondiali 2018: l’Italia del 2021/21 è una squadra vera, moderna, con un’identità riconoscibile e la qualità giusta per farla fruttare; tre anni fa ha iniziato un difficile percorso di ricostruzione e ha già bruciato le tappe, perché effettivamente ha creato una nuova mentalità, a livello tattico e forse anche culturale. Era quello che serviva per uscire dal baratro. Vedremo se basterà, se basterà già ora, per tornare a vincere.