Bar Italia è una raccolta di spunti, riflessioni, idee e analisi non troppo approfondite a caldo dopo il fischio finale delle partite della Nazionale. Movimenti osservati per strada e tagli osservati in campo. Emozioni da divano ed emozioni viste oltre i cartelloni pubblicitari dopo un gol. Un manuale di conversazione da bar scritto dalla redazione di Undici e da occasionali ospiti.
L’Italia è una squadra già matura
Già agli ottavi, con una gara di anticipo: questa è la notizia migliore per la Nazionale, perché significa che il torneo è cominciato senza intoppi, senza patemi, incanalando il nostro cammino sui binari giusti, quelli dei risultati e della fiducia. A vederla dall’esterno, chiunque non potrebbe fare a meno di sottolineare come la squadra di Mancini appartenga al novero delle Nazionali in grado di arrivare fino in fondo all’Europeo: qui, in casa nostra, ostentiamo certamente un pizzico di prudenza in più, un po’ per scaramanzia da tifosi, un po’ perché il ricordo del fallimento è ancora troppo vivido per poterlo cancellare con un colpo di spugna. Ma, senza voler azzardare commenti eccessivamente trionfalistici, la Nazionale italiana è una squadra già matura: perché ha il senso del collettivo, e lo si vede tanto nella qualità del gioco – non sono molte le squadre che nella prima tornata di gare hanno convinto più dei nostri – quanto nella capacità di gestione dei momenti cruciali del match, tra le ondate azzurre che mettono alle corde gli avversari e le pause, studiate e controllate, per riprendere fiato e legittimare un predominio territoriale e mentale. Sono vari aspetti di una consapevolezza che non nasce così, per caso, ma che si alimenta giorno dopo giorno, e ha nei risultati il carburante più prezioso: ecco, dopo due vittorie nette, meritate, importanti, che ci proiettano già alla fase a eliminazione diretta dell’Europeo, l’Italia è pronta al grande salto, senza più timori reverenziali nei confronti di chicchessia. È arrivato il momento di sentirci grandi, anche se è giusto dircelo tra di noi, sottovoce.
Il sistema-Mancini
La doppietta di Locatelli e il 3-5-2 visto nel finale di Italia-Svizzera sono due sfumature d’azzurro sulla stessa tavolozza, quella di Roberto Mancini. Il centrocampista del Sassuolo è diventato un punto fermo della Nazionale solo a settembre 2020, e forse non avrebbe giocato titolare se Verratti non si fosse infortunato, eppure sembra giocare in questa Italia da sempre, per come si muove, per come interagisce con i compagni, per la qualità (alta) che possiede. Il merito è del ct, che ha saputo dare un’identità tattica profonda alla sua squadra, e quindi delle certezze che prescindono dai giocatori disponibili: la volontà di accorciare sempre il campo, di impostare dal basso e poi di attaccare in verticale appena possibile, di pressare alto e poi di rientrare in caso di necessità. È una novità per la Nazionale azzurra, per la sua storia, e forse rappresenta un unicum in questo Europeo – tra le big, solo la Francia sembra avere un gioco ugualmente definito ed efficace, per quanto diverso. Ecco perché gli uomini di Mancini si sono potuti schierare con il 3-5-2 negli ultimi minuti: il loro modo di stare in campo e di approcciare le partite va oltre le spaziature, oltre il modulo, è un sistema di principi e idee cucito perfettamente addosso ai giocatori che fanno parte della rosa, alle loro qualità.
Berardi testa fredda
Domenico Berardi non corre aggraziato e potente, ha questa corsa un po’ nervosa in cui le braccia si muovono a metà, è una corsa fatta non di falcata ma di passi anche loro a metà. Sono passi fatti in modo da raddoppiare in caso volesse provare a superare l’avversario continuando sulla fascia, oppure ridursi ancora per rientrare sul sinistro. Nell’assist a Locatelli sceglie di andare sul fondo, e allora lo vediamo che allunga la falcata, con quel sinistro che accompagna la palla per superare Rodriguez ma non del tutto, ed è a questo punto che la corsa di Domenico Berardi si trasforma in un grande assist. Non si ferma, non crossa anche se uno spazio ci sarebbe, non accelera ulteriormente per staccare Rodríguez ma rischiando poi di dover crossare cadendo o, peggio, di portarsi la palla fuori: invece rallenta di nuovo, torna sulla mezza falcata, manda fuori giri il difensore, e trova lo spazio per il passaggio perfetto, l’angolo giusto, l’appuntamento puntualissimo con la corsa di Locatelli. Una freddezza che denota una grande intelligenza calcistica, visione di gioco, strategia e capacità di ragionamento. Tutto quello che a Mimmo Berardi, solitamente, si diceva mancasse per fare “il grande salto”. Come se fosse necessario. Lui ha dimostrato che è pronto a farlo, se lo vorrà.
Il gol di Locatelli, ma ancora prima c’è l’assist di Mimmo Berardi
Jorginho e l’arte di comparire, scomparire, governare il gioco
In una scena di American Hustle – uno dei film mainstream più raffinati degli ultimi dieci anni – c’è Christian Bale piuttosto sovrappeso che dice a Bradley Cooper: «Io sono come un cazzo di vietcong, chiaro? Appaio, scompaio, sono sempre stato lì, e tu non te ne eri accorto. Questa è l’arte». Il personaggio interpretato da Bale è un truffatore che, dopo essere stato raggirato dall’FBI, riesce a raggirare l’FBI e anche la mafia. Lo stesso identico discorso si può sovrapporre perfettamente anche alla carriera e alla figura di Jorginho Luiz Frello Filho: il centromediano del Chelsea e della Nazionale italiana magari non avrà mai fatto parte di un gruppo armato di resistenza vietnamita, ma anche lui appare e scompare da sempre all’interno delle sue squadre, anche lui è sempre stato lì, a governare il gioco, a dettare i tempi della manovra offensiva attacco e della fase difensiva.
Proprio come avviene al personaggio di Christian Bale, alla fine tutti si sono accorti di lui. Dopotutto era impossibile non farlo: Jorginho è cresciuto tantissimo mentre cresceva la qualità dei compagni e la sofisticatezza dei sistemi di gioco intorno a lui, oggi non è più solo un regista che fa girare la squadra spostandosi di continuo e spostando velocemente il pallone con appoggi ravvicinati, ma un centrocampista completo, in grado di fare tutto. Nel match contro la Svizzera, Jorginho ha giocato 90 volte il pallone (record tra tutti i calciatori in campo), ha sbagliato solo sette passaggi su 70 e, soprattutto, ha alternato i suoi soliti appoggi semplici con tocchi ambiziosi e lunghi e verticali, dietro le linee avversarie – proprio quelli che hanno fatto male a una Svizzera inaspettatamente aggressiva. Con la stessa tranquillità, ha assorbito la muscolarità di Xhaka e Freuler, i movimenti continui e il pressing di Shaqiri, partendo sempre dall’idea che scegliere bene il posizionamento e il tempo di ogni giocata sia il modo migliore per compensare la sua fisicità ridotta, anche in difesa. Il fatto che Jorginho sia così centrale ed efficace nel Chelsea come nell’Italia, due squadre che praticano un calcio profondamente diverso, è il tassello che completa il mosaico, che restituisce la dimensione della sua completezza, della sua capacità di imporsi in ogni contesto, comparendo e scomparendo, come capita solo ai centrocampisti più intelligenti, più forti, quindi più influenti.
Un po’ di grandi giocate miste, offensive e difensive, tratte dalla partita di Jorginho contro la Svizzera
La gioia di esserci
Un paio di istantanee: la prima, l’orgoglio e la grinta che accompagnano l’inno, ma questo lo avevamo già visto a Euro 2016 ed è, in qualche modo, diventata una tradizione piacevole; la seconda, l’esultanza sfrenata, incontrollata, quasi puerile, di Locatelli, uno che certi palcoscenici se li è sudati e poi meritati. C’è della gioia nella Nazionale, la si percepisce, la si apprezza, e anche la volontà di giocare fino all’ultimo minuto, senza speculare, senza adagiarsi, senza aspettare che le lancette facciano inesorabilmente il loro corso fa parte di questo sentimento. Giochiamo fino al novantesimo, un po’ per una mentalità diffusa e benefica, un po’ perché ci teniamo a far vedere che ci siamo, siamo finalmente tornati, un po’ perché assaporiamo la gioia di farlo, appunto.
Poca roba
Loro sono poca roba, si sussurra dopo ogni gol, anche se l’allenatore dice che non è vero, non lo sono, la Svizzera era una bella squadra, la Turchia pure, si difendeva bene e chiusa e bassa eppure l’abbiamo scardinata senza troppi problemi. Sarà scaramanzia perché non ci piace farci vedere troppo felici già dopo due partite, quindi loro sono poca roba è più un mantra mistico che una convinzione vera. Perché i confronti sono relativi, e loro sono diventati poca roba in novanta minuti, anzi centottanta, non lo sono a priori, quindi va bene la scaramanzia, ma in campo, a volte, pare che ci credano di più che fuori. Probabilmente è sempre stato così, anche dopo il pareggio contro gli Stati Uniti, la non esaltante vittoria contro il Ghana. Portiamo pazienza.