L’ambizione di Roberto Mancini

Intervista al Ct che ha riportato entusiasmo intorno alla Nazionale, partendo dal gioco, dal talento, dalla voglia di riportare l'Italia dove merita: nell'élite del calcio mondiale.

La cosa che colpisce di più di Roberto Mancini è che non si nasconde dietro allo schermo protettivo dell’essere il commissario tecnico che ha ereditato il peggior risultato sportivo degli ultimi cinquant’anni del calcio italiano. Per capirci, è nella posizione in cui sarebbe facile dire che arrivare all’Europeo di quest’anno – che segue la mancata qualificazione al Mondiale 2018 – era il risultato più importante da ottenere. Facile e falso, ma in un mondo che non ha particolari pudori nel vendere per vero ciò che è palesemente forzato, lui ha il dono dell’onestà intellettuale. Quella che lo porta a dire l’opposto: «Giochiamo l’Europeo con l’ambizione di vincerlo». Lo dice più di una volta, senza né presunzione né arroganza. Il sentimento più appropriato è la parola chiave di questa intervista. Non la pronuncia mai, ma è il perimetro dentro cui si muove ogni risposta, ogni dettaglio, ogni considerazione.
Consapevolezza è il sentimento. Quindi anche la parola e infine il valore di riferimento. Un valore prezioso in un’era di grandi incertezze. Consapevolezza significa tante cose, ma nel caso della Nazionale di calcio sono riassumibili in due: la prima è che questa qualificazione era il risarcimento minimo per ciò che Italia-Svezia di quattro anni fa aveva portato; la seconda è che abbiamo una squadra costruita bene, gestita bene, allenata bene e questo per un allenatore è tutto, o quasi. È ciò che vive sotto il suo controllo e che gli consente di sentirsi sereno: ci siamo. Gli altri sono meglio di noi? Forse. Ma noi andiamo per giocarcela. Quindi di nuovo: «Partiremo per vincerlo».

La consapevolezza è umanamente e calcisticamente trasmissibile. Mancini e il suo staff l’hanno trasmessa. Dunque c’è. E alla vigilia di questo Europeo è l’equivalente del green pass che consentirà ai cittadini di muoversi liberamente nello strascico dell’era Covid. Qui serve a partire per una competizione con l’idea di poter arrivare in fondo. Mancini non si nasconde perché non l’ha mai fatto, né da calciatore né da allenatore, né ora da commissario tecnico. Porta punti di vista che allargano l’orizzonte non solo alla Nazionale, ma al calcio italiano in genere, ai rapporti tra club e Nazionale, all’equilibrio tra quello che si può e quello che si vuole fare quando in ballo c’è il futuro del sistema calcio di un Paese. Poggia l’avventura di questo Europeo su numeri che raccontano diverse cose: nel 2019 ha migliorato la sequenza record di successi di Vittorio Pozzo, portandola a undici; a marzo scorso, con le tre vittorie nelle qualificazioni a Qatar 2022, ha raggiunto Lippi in cima alla lista dei commissari tecnici più imbattuti, con 25 partite consecutive. La percentuale di successi, dicono le statistiche Figc, è la più alta nella storia dei tecnici della nazionale, ovvero il 69% degli incontri giocati. Anche la durata del suo contratto aggiunge elementi di riflessione: ha appena firmato il rinnovo fino al 2026, il che – se non ci saranno interruzioni premature – lo porterebbe a otto anni, meno solo di Vittorio Pozzo (18 anni e otto mesi solo nel suo ultimo incarico tra 1929 e il 1948, dopo quelli a spezzoni dal 1924) e Enzo Bearzot, ct dal 1975 (per due anni con Bernardini) al 1986.

Il transfer dal passato è in realtà finalizzato a guardare avanti. La Figc vuole recuperare la logica dei ct che lavorano su cicli lunghi, come del resto hanno fatto alcune delle Nazionali più vincenti della storia recente. Il giorno del rinnovo il presidente federale, Gabriele Gravina, ha spiegato così: «Roberto è un investimento della federazione per il futuro. Lo dovevamo ai tifosi. Siamo felici che per l’Italia abbia fatto delle rinunce importanti e perché, come Roberto sa, era un obiettivo della federazione per continuare un lavoro e dargli continuità anche in futuro». Un futuro che per l’Italia deve passare dal recupero della centralità nel calcio europeo e mondiale. Ed è lì che si torna, sempre. Alla consapevolezza. Alla serenità di accettare e in una certa misura volere che i risultati contino. «Lavoriamo per arrivare alla vittoria velocemente, non c’era motivo per lasciarsi. Ci saranno tante manifestazioni, non è mai semplice vincere ma stiamo cercando di portare avanti il lavoro, abbiamo tanti giovani su cui puntare. La nostra speranza è che i frutti arrivino molto velocemente». Tra velocemente e subito c’è una differenza che si accorcia e si allunga, ma che nei progetti del ct ha comunque un tempo determinato. Così ripete, ancora: «Partiamo per vincere». Per raccontare come farà parla di sé, della squadra, del gioco, del calcio italiano, dell’anno complicato.

Ⓤ: Siamo alla vigilia degli Europei, cominciano per l’Italia e per tutti dopo un anno di attesa. Qual è il senso di giocare una competizione così importante in un momento così delicato?

Il senso è aver contribuito con il calcio a superare una situazione difficile. Questo Europeo ha anche un valore simbolico, oltre a quello puramente sportivo che segna il ritorno a una competizione importante, direi fondamentale per noi e per molti altri. Un tagliando per il calcio europeo, per misurarsi, per capire il suo livello, che non può essere dato soltanto dalle competizioni per club. Abbiamo aspettato tanto tempo, compreso un anno in più rispetto al naturale inizio del torneo. È bello che finalmente tutto ricominci.

Ⓤ: Ecco, un anno in più appunto. C’è differenza per l’Italia? Averlo giocato lo scorso anno sarebbe stato diverso?

L’anno scorso ci saremmo presentati all’inizio del torneo subito dopo un girone di qualificazione brillante. Forse avremmo potuto avere l’abbrivio di una stagione più intensa e più “normale” rispetto a quella successiva, ovvero questa che si è appena conclusa. Ma avere avuto un anno in più di preparazione ha portato anche dei vantaggi. Il primo è che noi abbiamo molti giovani e questo anno in più ha consentito loro di fare più esperienza internazionale. Il secondo è che abbiamo avuto più tempo per giocare insieme e questo per una Nazionale è fondamentale.

Ⓤ: Com’è aver preparato un Europeo in un anno così complicato?

Si è giocato tanto, tantissimo. Di fatto dalla scorsa estate si gioca senza soluzione di continuità e questo sicuramente non agevola lo stato di forma, la stanchezza dei calciatori, lo stress fisico e mentale. Ma vale per tutti. Per noi e per gli altri. E ciò significa semplicemente che i problemi nostri sono anche i problemi degli altri.

Ⓤ: Che cosa significa questo Europeo che arriva dopo il fallimento della qualificazione a Russia 2018?

È importante. Per noi, per i calciatori, per la federazione, per il paese, per i tifosi. Inutile nasconderlo. Ma adesso che abbiamo ricucito quella ferita, dobbiamo riflettere su quella pagina con più serenità. Dobbiamo accettarla. È il calcio. Uno non vorrebbe che accadessero mai alcune cose e poi però nel calcio succedono. È stato difficile raccogliere quell’eredità, certo. C’era un clima pesante, c’era una sensazione di smarrimento, di sfiducia, anche di paura tra i calciatori. Siamo partiti in difficoltà, con un sistema intero che faceva proprio fatica ad accettare ciò che era accaduto, ma chi fa calcio sa che invece queste cose possono accadere. Siamo ripartiti dalla cosa più giusta: dal gioco. Abbiamo pensato che per trovare l’equilibrio avremmo prima dovuto ritrovare il gioco. Così è stato. Abbiamo affrontato le qualificazioni in maniera brillante e questo ha ridato fiducia. L’entusiasmo è arrivato dopo, col tempo.

Ⓤ: Ha usato la parola fiducia. Com’è per lei oggi rappresentare quel senso di fiducia e di comunità che è tornato rispetto alla Nazionale?

In una sola parola: bello. Questa fiducia si sente: nella passione con cui oggi vengono seguite – purtroppo non dal vivo – le partite della Nazionale, nell’interesse generato dalle nostre prestazioni, nella sensazione di aver ritrovato quel senso di unità rappresentato dalla maglia azzurra. L’Italia non è come altri Paesi che vivono per la Nazionale. Da noi i tifosi sono legati moltissimo ai club e alle rivalità che ci sono tra club, poi quando arriva la Nazionale le rivalità scompaiono, ma la Nazionale deve conquistarsi comunque l’entusiasmo. Abbiamo milioni di tifosi, ma sono esigenti e hanno bisogno di vedere una Nazionale che ci crede e che gioca. Ora sentiamo quel senso di comunità attorno a noi, sentiamo di rappresentare il Paese. Sentiamo lo spirito nazionale, che è anche lo spirito della Nazionale.

Ⓤ: C’è differenza nell’atteggiamento dei calciatori tra il lavoro che svolgono in un club e quello che svolgono in Nazionale?

Il problema è sempre lo stesso: non avere i calciatori a disposizione per tanto tempo è il guaio di ogni commissario tecnico. Ma quando i calciatori arrivano in ritiro con la Nazionale c’è qualcosa di diverso, di unico, di magico. C’è la disponibilità a provare qualcosa di nuovo rispetto a ciò che fanno nei club. Ho avuto tanti calciatori di esperienza che, nonostante le tante presenze, arrivano in ritiro e si mettono a disposizione come se fossero alla prima convocazione e lo stesso vale per i tanti giovani che sono entrati nella rosa: vengono qui conoscendo il valore della convocazione e il peso del giocare per la Nazionale.

Ⓤ: È una Nazionale che ha più preparazione o più talento?

Abbiamo avuto decenni di talento quasi sconfinato. Ce ne era così tanto nel calcio italiano che a volte era impossibile convocarlo tutto in Nazionale. E questo significava non vedere tanti calciatori forti con la maglia azzurra, oppure venivano convocati ma giocavano poco. Poi, è inutile nasconderlo, questo talento si è perso, il nostro calcio ha avuto un passaggio a vuoto. Ora i calciatori di talento stanno tornando, si stanno riprendendo lo spazio. A loro dobbiamo dare fiducia. Investire nel talento significa soprattutto crederci. E crederci significa dare ai giovani spazio e fiducia, la possibilità di confrontarsi con il calcio vero, di misurarsi con gli avversari più forti.

Ⓤ: Ma un ct è più un coltivatore del talento o un gestore del talento?

Entrambi. Probabilmente non lo forma, ma lo coltiva. Perché il talento deve trovare spazio nei club e anche in Nazionale. Un commissario tecnico deve capire quando un calciatore che ha delle potenzialità espresse nel club può esplodere anche in Nazionale. L’Italia è un moltiplicatore, un amplificatore: se un calciatore trova il suo modo di essere e di stare in campo, se trova la fiducia in se stesso, la Nazionale lo consacra più del club. Questo significa che il suo talento con la maglia azzurra non cambia, ma cambia il percepito.

Ⓤ: Ha allenato club e ora allena la Nazionale. Che differenza c’è tra preparare un torneo di un mese e un campionato di una stagione?

Il fattore tempo è determinante. Ed è la differenza più evidente: in una competizione come un Europeo o un Mondiale i calciatori arrivano con una stagione nelle gambe e nella testa. La fortuna di avere con noi giocatori esperti come Chiellini o Bonucci è che aiutano i meno esperti a gestirsi e ad affrontare una competizione diversa come un Europeo. Aiutano anche noi dello staff.

Ⓤ: Quanto è importante il ruolo del suo staff nel suo lavoro?

Fondamentale, semplicemente. Per noi il lavoro più complicato è gestire gli intervalli tra una convocazione e un’altra. Ma ci sentiamo sempre, analizziamo partite, calciatori, prepariamo con anticipo i raduni. C’è un rapporto stretto e credo si sia visto soprattutto quando purtroppo mi sono ammalato di Covid: non ho potuto seguire la squadra né in casa né in trasferta, ma ero con loro collegandomi al telefono con i miei collaboratori. Sapevo che loro avrebbero fatto esattamente ciò che avrei fatto io sia perché l’avevamo preparato, sia perché condividiamo le stesse idee. E questo arriva alla squadra. La videotelefonata con tutta la squadra dopo la vittoria con la Bosnia è uno dei momenti più belli da quando sono commissario tecnico.

Ⓤ: I rapporti tra Nazionale e club sono sempre complessi. Come ha vissuto l’ipotesi della Super Lega? Cosa comporterebbe per un allenatore di Nazionale vedere i talenti migliori impegnati sempre di più?

Io credo che prima o poi ci arriveremo. Una Super Lega, o una Champions più lunga, più simile a un campionato. L’evoluzione del calcio è sempre interessante e credo che vada sempre valutata senza pregiudizi. Ovviamente non si può chiedere ai calciatori di giocare tutti i giorni e per il sistema calcio nel suo complesso vanno tenute in conto le esigenze delle Nazionali.

Ⓤ: Tornando all’Europeo, crede che l’esperienza di una competizione itinerante che si sviluppa su più Paesi sia da ripetere o deve rimanere un unicum?

Secondo me è affascinante. L’Europeo è una competizione bella, tanto quanto un Mondiale. Poterlo giocare in più Paesi può essere una soluzione anche a un problema che potrebbe esserci in futuro: ovvero la difficoltà che alcuni Paesi potrebbero incontrare nell’organizzarlo da soli.

Ⓤ: Qual è la caratteristica migliore della sua Nazionale?

È una squadra che sa che cosa deve fare in campo. Durante i nostri raduni ho sempre visto calciatori concentrati e disponibili a comprendere i principi di gioco, anche quando ci sono differenze con quello che fanno nella gran parte dell’anno con gli allenatori delle squadre di club. Questo fa sì che una Nazionale abbia un’identità: di gioco e di gruppo. In un torneo così, però, è fondamentale anche avere brillantezza atletica. Correre, avere lucidità nei momenti più importanti delle partite. Le settimane di preparazione servono a capire a che punto siamo su questi fondamentali.

Ⓤ:  Quali sono le Nazionali che guarda con più attenzione?

Le Nazionali che sono più avanti sono Francia e Portogallo. Campioni del mondo e campioni d’Europa in carica, ma non solo per questo. Ma credo che ci siano altre squadre che partono per arrivare in fondo: l’Inghilterra di cui si parla quasi a ogni vigilia di Europeo o Mondiale, ma che questa volta ha una rosa davvero competitiva. Questo non significa che noi non possiamo giocarcela.

Ⓤ: E che cosa significa?

Che partiamo per vincere. Poi potrebbe non succedere, potrebbero esserci avversari più forti di noi. Ma noi cominciamo questa competizione per vincerla. Non succede dal ’68, possiamo pensare di riprenderci anche questa coppa.

Da Undici n° 38
Foto di Lucas Possiede
Abiti Emporio Armani