È impossibile capire Luis Enrique

Il ct della Spagna è un grande allenatore, un genio mancato o un sopravvalutato? Di certo è un uomo dalla personalità dura, complessa, che non accetta compromessi.

Le discussioni che gravitano intorno alla Nazionale spagnola a Euro 2020 meriterebbero un libro di un grande scrittore. Sarebbe un’opera divisa in molti capitoli, capitoli che racconterebbero tantissime cose, dall’incapacità di concretizzare le occasioni da gol all’assenza di spettacolo nel palleggio orizzontale; poi ci sarebbe anche un’ampia sezione con le questioni relative ai singoli giocatori, dalle minacce ricevute da Morata a Marcos Llorente terzino destro, fino all’uso limitato di Azpilicueta. Tutti argomenti che ovviamente possono essere ricondotti a Luis Enrique. Le prime critiche al ct sono arrivate già a maggio, quando ha ufficializzato le convocazioni e l’assenza di giocatori del Real Madrid, una prima volta assoluta nella storia delle Furie Rosse. Ovviamente, più di qualcuno nella capitale non ha apprezzato – eufemismo – la decisione del ct.

Soprattutto, la scelta di lasciare a casa Sergio Ramos ha inevitabilmente attirato critiche da più parti: il difensore del Madrid, infatti, era il capitano, il condottiero e anche il capocannoniere, all’occorrenza, della Nazionale. Solo che in realtà Sergio Ramos ha giocato cinque partite con il Real Madrid dall’inizio del 2021, e in queste poche apparizioni non è mai sembrato particolarmente brillante. Insomma, la sua esclusione poteva sembrare anche ben motivata. È inevitabile, però, che un atto del genere si prestasse a diverse interpretazioni, non solo tecniche. Ad esempio: il leader indiscusso dello spogliatoio e della squadra adesso è il ct, è Luis Enrique, l’unico leone rimasto nella foresta. Una conclusione che può sembrare esagerata, faziosa, ma si unisce a un’altra scelta controversa, quella scelta di convocare soltanto 24 giocatori pur potendone selezionare 26. Per molti, anche questa parte della storia racconta di un allenatore che vuole a tutti i costi essere protagonista.

L’intera carriera di Luis Enrique fin qui è stata segnata da vicende del genere, da decisioni forti e divisive che sono frutto del suo carattere, dai suoi atteggiamenti, dal modo di gestire i giocatori, i rapporti con la stampa e in generale il suo lavoro, più che dalle sue tecniche come allenatore. Impossibile che non sia così, perché i suoi modi di fare sono spesso estremi: quando arriva in una nuova squadra, Luis Enrique fa terra bruciata attorno a sé, prova sempre a creare una separazione rispetto al passato per imporre la sua visione del mondo. Non è l’unico: questo modus operandi appartiene, almeno in parte, ad altri allenatori importanti, per esempio Antonio Conte o José Mourinho – basti pensare ai trattamenti ricevuti da Rooney al Manchester United e da Raúl e Casillas al Real Madrid.

L’esclusione di Sergio Ramos si inserisce in una lunga lista di senatori fatti fuori da Lucho. A partire dall’esperienza alla Roma. Veniva dal Barcellona B, tutto il mondo voleva per forza vedere in lui l’erede di Pep Guardiola, forse anche contro i suoi stessi interessi. Lui ha provato a portare in Italia quell’idea di calcio codificato che alla Masia è quasi una religione. Era una scelta culturale, prima ancora che tecnica, che poteva anche avere un senso: Lucho arrivava in una Roma nuova, con una nuova proprietà, una nuova dirigenza e una rosa stravolta dal mercato, e provare a creare un’identità forte sul campo avrebbe potuto gettare le basi per un progetto di lungo periodo. Peccato che questa visione si scontrasse con le esigenze e lo status di Francesco Totti e Daniele De Rossi, anche se poi in seguito lo stesso De Rossi avrebbe raccontato come la trasparenza del tecnico spagnolo l’abbia reso ancora più interessante, almeno ai suoi occhi. Il fatto che il rapporto con la Roma sia durato solo un anno, e che non abbia portato granché, costringe a considerare quel percorso un fallimento. Nell’esperienza successiva al Celta Vigo è andata più o meno allo stesso modo, solo che l’output è stato diverso, anzi opposto. In Galizia, Luis Enrique aveva meno pressioni e un terreno più fertile in cui far germogliare le sue idee, ha dovuto – o voluto – fare a meno del capitano Borja Oubina, però è riuscito a dare uno stile riconoscibile e un gioco offensivo e moderno a una squadra che l’anno prima si era salvata all’ultima giornata. Lo ha fatto con una piccola colonia di giovani promesse allevate alla Masia (Rafinha Alcántara, Nolito, Fontàs) e alla fine di una stagione chiusa con al nono posto si è guadagnato la chiamata dal Barcellona.

In Catalogna avrebbe dovuto definire la sua legacy, invece dopo un triennio interlocutorio ne è uscito come un allenatore – e un personaggio – ancora più nebuloso. Nonostante le certezze: al Barcellona Luis Enrique ha infatti vinto tutto, due volte la Liga, tre volte la Coppa del Re e la Champions League del 2015, più una Supercoppa di Spagna, una Supercoppa Uefa e una Coppa del Mondo per club. La sua esperienza sulla panchina del Camp Nou, però, è stata segnata da un’aura paradossale: il gioco che aveva perfezionato nelle giovanili del Barça, che aveva provato a portare a Roma e aveva impiantato con successo a Vigo, è stato diluito, smembrato, semplificato, proprio al ritorno in Catalogna. Il Barça di Luis Enrique praticava un calcio più verticale, meno votato al controllo e al palleggio orizzontale, era una squadra costruita sulla superiorità imbarazzante del trio d’attacco – Messi, Suarez, Neymar – e perciò era anche disposta anche ad accettare lunghe fasi di difesa bassa, soprattutto se in cambio otteneva metri di campo da attaccare con maggior libertà. Cioè, probabilmente l’esatto opposto di quel che voleva il Camp Nou, soprattutto pochi anni dopo la fine dell’era-Guardiola.

L’esperienza al Barcellona, però, si è chiusa dopo una stagione in cui la squadra non rispondeva più ai comandi, forse stremata dal rapporto umano con il suo allenatore, che anche in uno dei club più grandi del mondo ha voluto abbattere i totem. La storia è la stessa già vista nelle avventure precedenti, basta riavvolgere il nastro: prima la decisione di mettere in secondo piano Xavi, scavalcato nelle gerarchie dal neoaquisto Ivan Rakitic; poi ci sarebbe stata anche una lite con Leo Messi. «Non marco il territorio, non sono un cane da caccia. Cerco di fare il mio lavoro con un obiettivo, cioè ottenere la migliore prestazione dai miei giocatori», avrebbe detto lo stesso Luis Enrique in conferenza stampa. A proposito, nel rapporto con i media e con il pubblico il suo personaggio non è diverso da quello che dialoga in maniera cruda con lo spogliatoio, come testimonia questo video:

Dopo le sconfitte, ogni dichiarazione è un potenziale titolo da prima pagina

Il gioco quasi minimalista del suo Barcellona, in cui la mano dell’allenatore si vedeva soprattutto per sottrazione, non ha aiutato a definire i reali meriti di Luis Enrique nella vittoria di tutti quei trofei. E la sua idiosincrasia per una gestione serena dei rapporti con i media, con la dirigenza e con gli ego smisurati di uno spogliatoio come quello del Camp Nou, lascia più di un interrogativo sulle sue capacità di guidare una grande squadra. Nel panorama dei grandi allenatori contemporanei, ovvero tra quelli che hanno già una discreta esperienza alle spalle e un palmarés bello fornito, Luis Enrique è probabilmente la figura meno certa che abbiamo. Forse è anche per colpa nostra, noi che siamo abituati a valutare gli allenatori soprattutto in base ai risultati: nella carriera di Lucho c’è già un po’ di tutto, e ogni singola esperienza è un’altalena di picchi e depressioni che non si possono ridurre a un giudizio binario, universale, definitivo. È per questo che forse non l’abbiamo ancora capito, è che non siamo in grado di conoscerlo per davvero, o quantomeno ci sembra sempre che sfugga qualcosa quando parliamo di lui.

Anche il triennio con la Nazionale, interrotto da ogni evento esterno possibile, non si presta a valutazioni chiare: la Federazione spagnola aveva chiamato Luis Enrique per un’evoluzione, più che una rivoluzione, un aggiornamento che comprendesse un passaggio di testimone dalla generazione dorata alla nuova. Teoricamente, era il contesto migliore per chi vuole impiantare nella sua squadra le sue idee. Il percorso della Spagna negli ultimi tre anni – al netto della tragedia extracampo che ha colpito il ct – sembrava e sembra promettente, ma forse gli Europei sono arrivati mentre la Spagna è una squadra in piena fase di transizione, non ancora abbastanza distante dal suo passato e da una spirale negativa che sembra aver inghiottito la Roja dal 2012.

Luis Enrique ha vinto nove trofei da allenatore, tutti alla guida del Barcellona; sulla panchina della squadra azulgrana, ha accumulato 138 vittorie, 22 pareggi e 21 sconfitte in 181 gare ufficiali di tutte le competizioni (Cesar Manso/AFP via Getty Images)

 

Ai Mondiali  di Russia una Spagna lenta, compassata e quindi inoffensiva era stata eliminata ai rigori dai padroni di casa dopo una partita da 1.000 passaggi in 120 minuti. Nelle prime due partite del girone di Euro 2020, poi pareggiate, la squadra di Luis Enrique non è sembrat molto distante da quella di tre anni fa: contro la Svezia ha accumulato addirittura l’85% di possesso palla, con la Polonia ha superato il 60%, ma le occasioni da gol sono state davvero poche. Poi è arrivata la vittoria sulla Slovacchia, che potrebbe essere veramente un nuovo inizio: Luis Enrique ha detto che la sua squadra è come uno spumante che aveva solo bisogno di essere stappato. Forse le prime due partite hanno disegnato attorno alla Spagna, e al suo commissario tecnico, uno scenario più favorevole.

Perché per un allenatore e un uomo come Luis Enrique, sedere sulla panchina di una squadra che deve vincere, una di quelle che deve convivere con l’urgenza del trionfo da raggiungere in ogni occasione, a ogni costo, potrebbe essere controproducente. Forse perché lo costringerebbe a fare dei compromessi che non sembra in grado di accettare. Che in realtà non è riuscito ad accettare mai: non lo ha fatto a Roma, non lo ha fatto a Vigo, soprattutto non lo ha fatto al Barcellona, anche quando avrebbe potuto, dopo aver vinto. Avere l’ambizione di fare un buon percorso a un Europeo, però, può essere un discorso diverso. E magari questa potrebbe essere la dimensione migliore per la Spagna, una Nazionale di cui Luis Enrique è l’allenatore, certo ma anche il leader unico. Proprio come voleva lui.