Bar Italia – Italia-Spagna 5-3 dcr

Spunti di conversazione sulla semifinale degli Europei: una bellissima partita, Chiesa, Donnarumma che piange, la tranquillità di Jorginho e la festa di tutti, per strada.

Bar Italia è una raccolta di spunti, riflessioni, idee e analisi non troppo approfondite a caldo dopo il fischio finale delle partite della Nazionale. Movimenti osservati per strada e tagli osservati in campo. Emozioni da divano ed emozioni viste oltre i cartelloni pubblicitari dopo un gol. Un manuale di conversazione da bar scritto dalla redazione di Undici e da occasionali ospiti.

Oltre il tifo, Italia-Spagna è stata una gioia per gli occhi
A mente fredda: Italia-Spagna è stata una grande partita, di quelle che andrebbero studiate attimo per attimo, giocata per giocata. È stato, dal punto di vista dei contenuti tecnici, il miglior match dell’intero Europeo: due squadre enormemente organizzate, due allenatori abbondantemente preparati, e ovviamente una più che discreta qualità in campo. Si è visto che dietro queste due realtà c’è molto di più che un undici schierato nel modo semplicemente più appropriato: c’è un lavoro di concetto profondo ed evoluto, che ha portato due Nazionali – cioè due gruppi di giocatori che stanno insieme non più di quaranta giorni all’anno prima di un appuntamento come questo – a interpretare partite e situazioni di gioco come se fossero squadre di club. Per questo grande merito va dato ai due tecnici, che hanno saputo organizzare un match di elevatissima qualità e appagante spettacolo per gli studiosi di calcio: probabilmente da neutrali l’avremmo potuto apprezzare maggiormente, ma rimane il fatto che Italia e Spagna hanno intrapreso un percorso che le porterà a non esaurire la loro spinta progettuale in questo Europeo. Finale o no, questi sono traguardi dal valore inestimabile.

Vincere la partita, perdere il duello tattico
Anche Roberto Mancini, alla fine di Italia-Spagna, ha detto che «è stata una partita bella tra due ottime squadre». Nella stessa intervista, però, il ct azzurro ha dovuto dire pure che «è stata durissima, perché loro sono i maestri del palleggio e ci hanno fatto soffrire molto». Ecco, questo è un passaggio fondamentale per ricostruire bene la sfida tra Italia e Spagna: la Nazionale di Luis Enrique non ha solo offerto la miglior prestazione collettiva e forse anche individuale del suo Europeo, ma ha anche inibito gli Azzurri, li ha limitati nelle loro qualità migliori, nel possesso palla, nella risalita del campo con molti tocchi e attraverso movimenti coordinati. Basta andare a riguardare i numeri, le statistiche avanzate, per capire di cosa parliamo: nella gara contro il Belgio, Jorginho aveva giocato 85 palloni in 90 minuti, mentre contro la Spagna questo stesso dato è sceso fino a 51, nonostante si sia giocata mezz’ora in più. E le stesse proporzioni valgono anche per Barella e per Verratti, entrambi tagliati fuori dalla fase di costruzione.

Tutto questo è avvenuto non perché la Spagna si sia adattata, si sia trasformata per limitare l’Italia, ma perché ha esasperato nel modo giusto la sua identità, ha saputo far girare benissimo e recuperare velocemente il pallone, e in questo modo ha impedito agli Azzurri di fare altrettanto. Non a caso, tutte le occasioni costruite dagli uomini di Mancini – a cominciare dal gol di Chiesa – sono arrivate al termine di manovre veloci, verticali, rapidissime, ovvero l’unica tipologia di azione che poteva sorprendere la difesa – sempre altissima – della Roja; dall’altra parte del campo, i continui movimenti interni delle mezzali e degli attaccanti hanno tolto riferimenti al pressing, soprattutto quello dei centrocampisti: Verratti, Jorginho e Barella hanno corso moltissime volte a vuoto, hanno scoperto la zona davanti alla difesa perché attirati fuori dalla ragnatela tessuta dagli spagnoli, e perciò sono stati inevitabilmente poco lucidi nei momenti topici, nei pochi segmenti di gioco in cui avrebbero potuto incidere. Insomma, per dirla con una frase fatta ma tremendamente vera: la Spagna di Luis Enrique ha perso la semifinale, ma ha vinto il duello tattico, soprattutto a centrocampo. Non è una notizia da poco, da qualsiasi prospettiva la si guardi: per la Roja, è la premessa-promessa di un radioso futuro, perché nessuna squadra era riuscita a creare così tanti problemi all’Italia. Anche Mancini e i suoi calciatori, però, possono sorridere: perché il risultato finale è arrivato nonostante tutto, e questo è un enorme segnale di solidità mentale, forse l’ultima dote che non era ancora stata ascritta a questa Nazionale, e che invece c’è, eccome se c’è.

L’ultimo rigore è una cosa semplice

Jorginho, per esempio, ha dimostrato di avere in abbondanza, di solidità mentale. Nonostante abbia sofferto anche lui durante la partita, nonostante sia stato un giocatore oscurato dalla grande forza di un grande avversario, il regista del Chelsea è stato scelto come quinto rigorista per la lotteria finale, è andato sul dischetto e ha corricchiato e ha tirato come se fosse una cosa semplice, un gesto naturale, che si esegue senza pressioni, senza pensare: tipo andare a prendere un gelato in piazzetta dopo cena, portare i sacchi della spazzatura in cortile, fare la doccia dopo il bagno in mare, programmare la sveglia, accarezzare il proprio cane sul divano. Il sorriso, le braccia aperte, una mezza linguaccia subito dopo aver spiazzato Unai Simón con un tocco minimalista eppure vellutato, lento eppure velenoso, sono tutte manifestazioni di tranquillità, di consapevolezza, di maturità raggiunta. Non è un caso che Jorginho tiri certi rigori, che li tiri in questo modo, come non è un caso che Jorginho sia arrivato a giocarsi la finale di Champions League, e ora quella degli Europei, entrambe da protagonista.

Disinvoltura

Le lacrime di Donnarumma

È stato bello vedere Donnarumma piangere. Di cosa? Gioia, tensione, emozione, chi se ne frega. È bello vedere il ragazzo che difende la porta, solitamente misuratissimo nelle interviste, abituati a poche parole studiate, farsi sopraffare dall’emozione, perdere il controllo, in senso positivo naturalmente. Ci vorrebbero più giocatori capaci di queste lacrime la cui origine è confusa, questi gomitoli di sentimenti troppo forti da nascondere se hai 22 anni oppure 30, che non cambia poi così tanto per certe cose. Ieri, in campo, è stato come sempre perfetto – il miglior portiere del torneo, a mani basse – sia nei 90 minuti regolamentari che nei rigori. E poi la sua prima competizione internazionale da titolare, l’avventura con la sua squadra del cuore finita pochi giorni fa, una nuova avventura in Francia tra pochi giorni, e nel mentre l’attenzione della stampa ossessiva ogni giorno, il rumore dei tifosi peggiori sullo sfondo, ventidue anni appena, provateci voi a non piangere.

Quei dieci minuti da fenomeno di Federico Chiesa

Che fosse un giocatore diverso da tutti gli altri si era visto anche nelle prime partite, in quello stop di faccia contro l’Austria e poi il controllo un po’ brutto a vedersi e poi il sinistro potentissimo e un gol pesante come pochi altri in questo Euro 2020, difficoltà di esecuzione molto alta. È sempre stato troppo fumoso, abbiamo scritto per anni, e poi si diceva pure che gli mancava sempre qualcosa per fare quel famoso “salto” che nei bar indica lo status di campione di primo livello, top player come si identifica da qualche anno. Euro 2020 ha dato questa consacrazione a Chiesa. Perché l’Italia è solida, ha sofferto, parato e intercettato e costruito da squadra, ma senza quel gol inventato, sì, da campione, di Federico Chiesa le cose sarebbero state molto diverse. Appena prima aveva per la prima volta messo in difficoltà Unai Simon con un destro tagliente dal vertice sempre destro dell’area, e dieci minuti dopo il gol aveva portato la difesa spagnola a fare una visita guidata di Wembley prima di mettere Berardi davanti a Simon, ancora bravo a parare. Insomma, Chiesa non serve solo, come si è tanto scritto, nelle partite “con gli spazi aperti”. Serve in quelle più difficili perché ha fatto “il salto”.

L’antipasto, poi il gol

Per strada, tutti insieme

Dopo la partita contro il Belgio non si era vista una particolare eccitazione, a Milano: forse perché tutto ci sembrava lineare, una vittoria che doveva essere vittoria, e tanto ci bastava. Ma contro la Spagna, beh, è stata un’altra partita, chiusa ai rigori con il brivido vissuto più volte di non potercela fare, di arrenderci sul più bello: è allora che è esplosa la gioia per le strade, smodata e incontenibile, i clacson che strillavano per la città tra le fiumane di persone accorse per strada, una cartolina così familiare eppure che, a viverla dentro, sembrava essere proiettata da un passato che ci eravamo dimenticati, e che era sbucata così, improvvisamente, senza che nemmeno ce ne fossimo accorti. È la gioia per essere in finale, certo, perché noi, all’ultimo Mondiale, nemmeno ci eravamo qualificati, ma è soprattutto l’euforia liberatoria di essere lì a festeggiare tutti insieme, dopo una pandemia che aveva irrigidito le nostre vite, e quanto erano belle le strade di Milano brulicanti di gente e di urla, quelle stesse strade che pochi mesi fa eravamo abituati a vedere deserte, inconcepibilmente lontane dalla loro frenesia abituale. Stavolta festeggiare è stato più bello, perché ha significato riappropriarsi delle nostre stesse vite e, anche se magari può sembrare soltanto un traguardo simbolico, questo Europeo ce lo ricorderemo (anche) per questo.