Bar Italia – Italia-Inghilterra 4-3 dcr

Spunti di conversazione sulla finale degli Europei: la vittoria delle idee e della pazienza, Verratti, Donnarumma e un gruppo meraviglioso.

Bar Italia è una raccolta di spunti, riflessioni, idee e analisi non troppo approfondite a caldo dopo il fischio finale delle partite della Nazionale. Movimenti osservati per strada e tagli osservati in campo. Emozioni da divano ed emozioni viste oltre i cartelloni pubblicitari dopo un gol. Un manuale di conversazione da bar scritto dalla redazione di Undici e da occasionali ospiti.

Ha vinto chi ha giocato a calcio
Quando Donnarumma ha parato l’ultimo rigore a Bukayo Saka, si è avvertito un profondo senso di giustizia, forse anche di sollievo: la finale è stata vinta dall’unica squadra che, a Wembley, ha giocato a calcio. Dall’unica squadra che, a Wembley, ha provato a vincerla, questa benedetta finale. Per raccontare e quindi capire cosa intendiamo, basta rivedere la partita, o anche semplicemente gli highlights: l’Inghilterra di Southgate ha trovato il gol del vantaggio dopo 117 secondi di gioco, l’ha trovato con Shaw, l’ha trovato grazie a una bellissima azione in verticale orchestrata da Harry Kane in posizione di regista basso, rifinita da un cross di Trippier e chiusa con un gran tiro al volo del terzino del Manchester United, da quinto a quinto di centrocampo, tutto pulito, tutto preciso, tutto perfetto e anche studiato a tavolino, da chi aveva disegnato e preparato la partita. Solo che questa manovra perfetta non si è più vista per tutta la gara; sì, magari in qualche altra occasione Kane è stato bravissimo a farsi trovare dentro e dietro le linee dell’Italia, solo che poi si ritrovava abbandonato a se stesso, come se fosse avanzato da solo nel deserto e i suoi compagni fossero rimasti a difesa del campo base, a pochi passi dall’oasi, per paura di morire di sete. Questa frase è ovviamente una metafora, ma non è molto distante dalla realtà: dopo il gol, l’Inghilterra ha progressivamente – ma inesorabilmente – abbassato l’intensità della sua fase offensiva e difensiva, ha smesso di giocare, si è semplicemente rintanata nella sua area di rigore in attesa dello scorrere del tempo. Una strategia che può pagare, certo, ma solo finché l’avversario non riesce a capire come far valere le sue qualità, se sono alte.

Nella seconda metà del primo tempo, l’Italia ha preso le misure della partita (Jacob Steinberg, sul Guardian, ha scritto che «intorno alla mezz’ora la squadra di Mancini ha messo insieme un lungo e sostenuto incantesimo di passaggi, ruotando abilmente la palla, trovando gli angoli giusti, facendo correre i centrocampisti inglesi: era un brutto segno, sembrava di rivedere Inghilterra-Croazia»), poi nella ripresa ha alzato il ritmo del suo possesso palla e ha schiacciato gli avversari nella sua metà campo, fino al gol di Bonucci – una rete costruita passo passo, pezzo per pezzo, e quindi pienamente meritata. Nemmeno lo schiaffo del pareggio ha svegliato l’Inghilterra, e a quel punto Southgate ha completato la sua masterclass al contrario: Saka è entrato quando era già il 70esimo minuto, Grealish ha trovato spazio a una manciata di secondi dal minuto 100′, Sancho e Rashford sono stati inseriti solo per calciare i rigori. Potrebbero sembrare scelte tattiche anche ragionevoli, fondate su un’idea (un po’ ancestrale) dell’equilibrio difensivo, se non fosse che, prima di questi cambi così tardivi, l’Inghilterra non aveva fatto altro che aspettare, rimanere ferma, mentre l’Italia provava a fare ciò che le (pochissime) energie gli consentivano, ma almeno la squadra di Mancini seguiva un progetto, un canovaccio tattico, a differenza dei suoi avversari. La beffa dei rigori sbagliati proprio da Sancho, Rashford e Saka è solo un’ulteriore nota di grigio nell’angolo di un quadro che Southgate ha dipinto con colori stinti, tristi, senza guizzi, senza idee, se non quella di speculare sul talento dei suoi uomini offensivi. In questa finale l’ha fatto anche male, molto male, e dunque ha perso la gara con pieno merito.

Il colpo di testa di Marcolino Verratti

Certo, poi tutti questi discorsi tattici vanno sublimati, rintracciati nei momenti topici della partita: senza il gol di Bonucci, per esempio, la (netta) supremazia dell’Italia per larghi tratti del secondo tempo sarebbe rimasta lì, nascosta e dimenticata come una postilla, come una nota a piè di pagina di un romanzo (in questo caso dell’albo d’oro), di quelle che si possono anche saltare. È il destino del calcio, uno sport a basso punteggio che è inevitabilmente molto esaltante o molto meschino, a seconda dei punti di vista in bilico tra vittoria e sconfitta. Proprio un attimo prima del gol di Bonucci, c’è stata una giocata – atipica, irripetibile, tutt’altro che tattica eppure decisiva – che ha alimentato la sensazione per cui l’Italia, oltre a essere la miglior squadra scesa in campo a Wembley per la finale, nonché una delle migliori squadre in assoluto di questi Europei, fosse anche destinata a vincere: il colpo di testa di Marcolino Verratti.

Questo momento qui

Usare il vezzeggiativo, in questo caso, è una scelta puramente antropometrica: Marcolino Verratti è alto solo 165 centimetri secondo Wikipedia, e su quel corner era marcato da Mason Mount (178 centimetri). Eppure è riuscito a prenderla lui, di testa, quella palla vagante: l’ha colpita con forza, con rabbia, bruciando Mount sul tempo, frustando il collo come se fosse un attaccante consumato, anzi in quell’istante lo era, lo era davvero, perché ci sono dei giorni, delle settimane, dei mesi della vita in cui le stelle e i pianeti si allineano e allora non c’è limite al caso, e allora anche Marcolino Verratti – che in carriera ha segnato solamente 14 gol, e ovviamente non ha mai segnato di testa – può costringere Pickford a una grande parata, a deviare il pallone sul palo, poi arriva Bonucci e pareggia, e la storia prende la direzione giusta.

MVP

È un’Italia senza micidiali armi offensive, come è sempre successo negli ultimi trent’anni d’altra parte, eppure è un’Italia che ha giocato a viso aperto e testa alta sempre, quando ha potuto – e non ha potuto contro la Spagna, soltanto. Eppure è giusto che il premio di miglior giocatore di questa squadra, e quindi dell’intero europeo, venga dato a un portiere incredibile in questo Euro 2020: per la sicurezza con cui ha gestito la difesa, le offensive avversarie, non soltanto tra i pali ma anche con la palla tra i piedi fuori dall’area di rigore. Non è stata un’Italia imbattuta ma è stata un’Italia che si sentiva, grazie a lui, al sicuro su ogni cross, su ogni tiro, attrezzata anche per i miracoli: come quello su De Bruyne contro il Belgio, come quello su Schaub contro l’Austria. E poi i rigori, certo: c’è un talento unico, e anche una certa predestinazione per cui aveva iniziato la stagione salvando sul dischetto il Milan contro il Rio Ave, sotto la pioggia portoghese, e l’ha conclusa ancora sotto la pioggia, in Inghilterra, con due parate che hanno regalato all’Italia il secondo Europeo della sua storia.

Parata n° 1

L’anno in più

Quasi non c’è da crederci: una Nazionale snobbata, vituperata, data per morta dopo quel 13 novembre 2017 oggi è campione d’Europa. Ci sarebbero un sacco di cose da raccontare per capire da dove viene questo successo, probabilmente uno dei più belli, meritati e al tempo stesso inattesi della storia azzurra, ma basterebbe sottolineare che questo è un successo della pazienza, quell’elemento che spesso manca nel calcio italiano, in particolare di club, e che invece stavolta si è rivelato centrale e decisivo. Pazienza perché non si poteva ricostruire tutto da un giorno all’altro, ma bisognava farlo nei tempi giusti, con l’attenzione giusta: adesso fa strano dirlo, eppure lo slittamento di un anno degli Europei è stato uno dei nostri più grandi alleati, perché siamo arrivati all’11 giugno 2021 con una squadra che ha avuto tre anni per conoscersi, assimilare dei concetti e giocare assieme in un certo modo, beneficiando oltretutto della crescita esponenziale di alcuni dei nostri protagonisti. È un successo che fa capire che una certa cultura – le idee, il lavoro, la perseveranza – alla fine paga i suoi dividendi, e lo abbiamo scoperto con la squadra più bella e unitaria che c’è, la Nazionale: questo trionfo, alla luce di tutto quello che è stato, vale doppio. Godiamocelo, e teniamocelo a mente come lezione.

Parata n° 2, per altro molto simile a quella numero 1

Tutti promossi, nessuno escluso

Dopo ogni campionato o torneo che si rispetti, le pagelle sono qualcosa di immancabile: chi ha fatto meglio, chi meno, e così via. Come se il calcio fosse uno sport che non si regga su meccanismi collettivi, amiamo premiare chi ci ha saputo emozionare e scaricare le colpe su chi invece ha deluso le nostre aspettative. Ecco, con questa Nazionale ogni tentativo è vano: durante i novanta minuti, trascinati dal tifo, è stato inevitabile ascoltare commenti positivi oppure negativi su questo o quel giocatore, ma adesso, a mente fredda, è fondamentale sottolineare come la forza dell’Italia sia stata proprio il collettivo, la capacità di aiutarsi l’un l’altro, di completarsi a vicenda. Tutti, nessuno escluso, sono stati indispensabili nella riuscita e nel trionfo, non solo correndo un centimetro in più, impegnandosi in uno scatto supplementare, ma nella disponibilità a mettersi al servizio della squadra, a farlo anche per una manciata di minuti in campo. Senza tutto questo, oggi non saremmo qui a festeggiare.