Roberto Mancini, il rivoluzionario che ha messo d’accordo tutti

Ha cambiato il modo di giocare della Nazionale, ha vinto, ha riportato allegria ed entusiasmo. E il suo viaggio sembra essere solo all'inizio.

Gli esseri umani hanno una limitata e inaffidabile capacità di raccogliere e conservare le informazioni. È la ragione per cui un’immagine vale più di mille parole, perché l’immagine è una sola mentre le parole sono addirittura più di mille. Vale per tutto e vale anche per lo sport, ovviamente: tutte le imprese sportive vengono alla fine ridotte a un’immagine, al massimo a una serie di immagini, Del resto l’immagine riassume e approfondisce allo stesso tempo, fa sia ritornare al passato che nel presente, riporta alla fine e fa ricominciare da capo.

Le immagini del calcio si dividono fondamentalmente in due categorie: quelle in cui c’è l’individuo e quelle in cui c’è il collettivo, dentro l’una e l’altra categoria tutto l’elenco di situazioni ed emozioni che si possono vivere grazie al (o per colpa del) pallone, dalla gioia alla disperazione, dal trionfo all’umiliazione. Forse è così perché il calcio è facile ridurlo a due cose, il gol, fatto o sbagliato, e la partita, vinta o persa. Il gol lo fa o lo sbaglia un giocatore, la partita la vince o la perde una squadra. Sta di fatto che è difficile trovare una categoria che stia in mezzo a queste due: le vittorie della Nazionale italiana, per esempio, stanno nelle urla di Tardelli nel 19882 e di Grosso nel 2006, le sconfitte nei volti di Baggio nel 1994 e di Di Biagio nel 1998.

Tra le tante eccezioni che stanno dentro la Nazionale di Roberto Mancini (la prima, ovviamente, è che è l’unica ad aver vinto un anno dopo un torneo che si sarebbe dovuto giocare un anno prima), una riguarda le immagini. Della vittoria italiana a Wembley ne resterà una più di tutte, ed è un’immagine con due protagonisti esattamente al centro della scena, ognuno con la sua metà di primo piano: Roberto Mancini che piange sulla spalla di Gianluca Vialli, Gianluca Vialli che piange sulla spalla di Roberto Mancini. Per l’amicizia tra Vialli e Mancini si sono scritte e dette più di mille parole, quindi alla fine resterà solo quell’immagine a raccontare la storia della sorte che li ha legati l’uno all’altro e che era in debito con entrambi, prendendo in prestito le parole del commissario tecnico azzurro. Sull’amicizia si scrivono i romanzi, le canzoni e le poesie, quindi io non ho niente da dire. Ma vedendo quell’immagine in tv, pensavo che tra i meriti di Mancini c’è anche (soprattutto?) aver restituito un volto umano a una Nazionale che appena tre anni fa era stata mostrificata. E ho pensato a Gianpiero Ventura, alle dimissioni attese, alla buonuscita da trattare.

Con una banalizzazione della teoria marxiana del valore di cui mi prendo tutta la responsabilità, si può dire che il valore di ogni cosa sta nel tempo che ci si impiega a realizzarla. Tre anni di lavoro per riuscire a vincere un Europeo sono pochi, sono tanti? Tre anni di lavoro cominciato in un momento in cui nessuno aveva più voglia di guardare una partita della Nazionale, per motivi che all’epoca erano tanti ed erano tutti validi. Tre anni di lavoro dedicato non a rimettere in piedi un edificio crollato, ma a togliere di mezzo le macerie e tirar su una cosa bella perché nuova, e perché diversa. Il merito di Mancini non sta nell’aver portato una indefinita e indefinibile “nuova filosofia”, un nuovo modo di pensare del calcio italiano: non l’ha fatto perché la cosa va assai oltre i limiti del suo mandato. Il merito di Mancini non sta neanche nell’aver cambiato “il gioco” della Nazionale: lo ha fatto, sì, ma i lavori sono ancora in corso , dopotutto– come dimostrano le partite con l’Austria e con la Spagna – per certe cose ci vuole tempo, serve fatica, tocca pazientare. Il merito di Mancini sta nell’aver ricordato le verità che spesso si perdono di vista nel dibattito pubblico calcistico del Paese in cui ogni questione diventa identitaria: non esiste un allenatore al mondo, al livello che è il livello di Mancini, che abbia un gioco. Uno solo, sempre quello, per ogni partita, in ogni situazione.

Dopo la vittoria ai rigori contro la Spagna, il bordocampista Rai Alessandro Antinelli prova a fare un complimento a Mancini dicendo che stavolta ci era tornato utile «giocare all’italiana». A quel punto, il ct si incazza. Non si arrabbia mica, proprio si incazza: «Anche le altre squadre difendono», sibila. In una risposta la soluzione a un dibattito che va avanti ormai da anni, la fine di un litigio che nessuno si ricorda più perché sia cominciato. Se è vero, come è vero, che anche le altre squadre si difendono, allora anche l’Italia deve difendersi quando non può fare altro, cioè quando incontra un avversario più forte in generale (la Spagna) o più forte nel momento (l’Austria, a tratti). E se è vero questo, allora è vero anche che l’Italia, come tutte le altre squadre, deve tenere il possesso e attaccare quando è lei la squadra più forte in generale o nel momento. Risultatisti e giochisti sono solo parole nella bocca di chi parla (male) di calcio; gioco all’italiana e catenaccio sono formule buone solo per chi, nelle partite, vede solo le partite che ha già visto.

Roberto Mancini è diventato ct della Nazionale nel maggio 2018; da allora, il suo score è di 28 vittorie, nove pareggi e due sconfitte in 39 gare ufficiali (Riccardo Antimiani/Pool/Getty Images,)

Mancini si è calato nella parte del commissario tecnico con una velocità e una precisione che nessuno si aspettava il giorno che fu annunciato come successore di Ventura. Si diceva che non era quello giusto e che si capiva da come aveva allenato i club della sua carriera fino a quel momento: la Lazio, la prima e la seconda volta all’Inter, il Manchester City. Si insinuava che il carattere non fosse quello giusto per chi deve sempre e comunque fare buon viso a cattivo gioco perché non c’è calciomercato che possa sostituire il giocatore con il quale hai bisticciato. La sorpresa di questa Nazionale comincia innanzitutto nella sorpresa di Mancini come commissario tecnico della Nazionale, una specializzazione nella quale molti allenatori (anche bravi, persino più bravi di Mancini) falliscono. Lui si è sorprendentemente ritrovato nel suo elemento, questo triennio di lavoro e questa vittoria finale chiudono il discorso su di lui e sulla sua carriera da allenatore: «Mancini? Mancini venga ad allenare a Catanzaro», disse Gigi Cagni ai tempi empolesi suoi e interisti di Mancini, per descrivere un allenatore che non aveva mai vissuto niente al di sotto dell’attico della Serie A. Questa Nazionale non è il Catanzaro ma di certo non era la squadra più forte dell’Europeo, non è l’Inter di quegli anni e non è il Manchester City di quella stagione, niente Ibrahimovic né Agueroooo. A tenere tutto assieme, dunque, si può finalmente dire che è la bravura di Mancini?

Roberto Mancini ha un contratto con la Federazione Italiana Giuoco Calcio da qui al 2026. Significa essere il commissario tecnico della Nazionale ai Mondiali in Qatar l’anno prossimo, agli Europei di Germania del 2024 e ai Mondiali del 2026 divisi tra Canada, Stati Uniti e Messico. Sembra voglia restare, che è la differenza con il precedente periodo di vero ottimismo e relativa soddisfazione della Nazionale, quello di Antonio Conte agli Europei francesi: Conte lo sapevamo dall’inizio che presto o tardi (fu presto, alla fine) se ne sarebbe andato. Mancini, invece, pare proprio aver trovato il posto giusto, al momento giusto. E rivedendo adesso la conferenza stampa del 15 maggio 2018, giorno della sua presentazione come nuovo allenatore della Nazionale, ci sono tanti dettagli che all’epoca sembravano trascurabili e che adesso invece sono sostanza: quella fascinazione con una mitologia che tiene dentro Bearzot, Vicini e Sacchi («credo di essere l’unico ad averli avuti tutti e tre», disse Mancini), questo piacere sottile nella consapevolezza di essere l’uomo con il compito più difficile nel momento più difficile. Ma soprattutto, un’aspirazione, una di quelle che finiscono per perdersi nel tedio delle dichiarazioni alla stampa: «È difficile mettere d’accordo tutti». Già. Per ora, però, stiamo andando bene.