Ha vinto l’Italia, ha vinto l’essere squadra

Il valore del collettivo ha soppiantato l'importanza del singolo: è questo il messaggio principale consegnatoci dall'Europeo.

Euro 2020 è stata la celebrazione del collettivo. Ha vinto la Nazionale che ha saputo andare oltre i propri limiti, quella che ha cercato di esprimere una visione corale di come stare in campo. Quella che è stata attenta ai dettagli, anche minimi, in funzione dell’essere squadra. C’è un momento di Italia-Inghilterra, una situazione assolutamente anonima, in cui Jorginho urla a gran voce a Chiesa: accorcia verso i centrali avversari. È sempre la stessa idea: che la squadra si muova come un organismo unico, che un cervello unitario guidi e indirizzi le scelte di ogni giocatore in campo. Non c’è stato spazio per raptus anarchici, e forse questo racconta molto bene lo stato del gioco in questo momento storico.

L’Italia ha vinto perché ha incarnato al meglio tutto questo. Forse è stata una scelta necessaria, perché non aveva gli Mbappé, i Kane, i De Bruyne da mettere in campo. Ma poi ha scoperto che quella era la sua forza: vi si è aggrappata nei momenti di difficoltà, quando ha subito per esempio le scorrerie di Spagna e Austria, o quando ha dovuto risalire la corrente dopo il gol di Shaw in finale. In fin dei conti, è stato un punto a favore: non ha dovuto aggrapparsi al campione di turno perché risolvesse la partita con una giocata, ma ha capito di dover giocare da squadra, da gruppo, con pazienza. È stata la certezza che non ha fatto tramontare la speranza. È stata la stella polare che ha illuminato il cammino anche nei momenti di maggiore oscurità.

Il capocannoniere degli Europei, Cristiano Ronaldo, ha salutato già agli ottavi. Così come la Francia, la squadra che era data per netta favorita grazie a un nucleo di campioni quasi senza eguali all’interno della competizione. È stata svilita quella convinzione: che un manipolo di fenomeni assoluti, ché tali restano a prescindere da come si è evoluto l’Europeo, potesse decidere a piacimento che faccia dovesse assumere il torneo. Ormai è una convinzione antiquata: anche le squadre di club più forti, come il Chelsea campione d’Europa, o il Manchester City o ancora il Paris Saint-Germain e il Bayern Monaco, asservono i loro migliori giocatori a un livello più alto, incentrato su un’identità chiara e, appunto, sulla forza del collettivo. Certe volte l’allenatore, si dice, incide molto di più dei nomi che vanno in campo.

Il collettivo ha fatto emergere valori inespressi o che in altri contesti non sarebbero stati amplificati in egual modo. È successo per varie realtà: la Svizzera, l’Austria, ma anche per squadre decisamente più avanti nelle gerarchie, come Spagna e appunto Italia. E poi, ovviamente, la Danimarca, che si è arrampicata fino alla semifinale sulla spinta di un’organizzazione di squadra calibrata su meccanismi condivisi. Ha perso il giocatore più forte, Christian Eriksen, e su quel momento di paura e tensione ha costruito l’immagine perfetta per rappresentare il credo comune: nascondendo il dieci danese dall’invadenza delle telecamere, ha comunicato l’idea del gruppo. La fotografia perfetta per raccontare quel modello di solidarietà che è di tutta la Danimarca ancor prima che della Nazionale di Hjulmand.

Per la terza volta nella sua storia, la Danimarca è stata tra le prime quattro d’Europa: era già successo nel 1984 e poi nel 1992, quando vinse il torneo (STUART FRANKLIN/POOL/AFP via Getty Images)

L’Italia ha invece poggiato sulla convinzione di avere dalla sua 26 titolari: una forzatura, ma nemmeno troppo. Perché tutti sono stati indispensabili, e al tempo stesso insostituibili: è stato il messaggio che ha rassicurato i giocatori quando non potevamo contare pienamente su Verratti nelle prime partite, o quando, nel corso del torneo, si sono dovuti fermare i vari Chiellini, Florenzi, Spinazzola. Ogni volta che qualcuno ha dovuto alzare bandiera bianca, o ha dovuto arrendersi per stanchezza, l’Italia non ha perso colpi: anzi, semmai ha accelerato, come si è visto nella partita contro l’Austria, quando a segnare i gol della qualificazione, nel match in cui abbiamo rischiato l’eliminazione più di ogni altra situazione (benedetti i piedoni di Arnautovic finiti in fuorigioco), sono stati Chiesa e Pessina, due che avevano iniziato dalla panchina.

Dal torneo sono uscite indicazioni abbastanza nette sui singoli, ma di questo, semmai, se ne occuperanno (buona fortuna) i club quando dovranno ridiscutere il rinnovo dei contratti. Qui si coglie invece l’aspetto principale degli azzurri e di una buona parte degli Europei, ovvero che la somma delle parti è superiore al valore dei singoli. Chi ha intrapreso questa strada ne ha beneficiato; chi ha fatto affidamento sulla garanzia di avere maggior qualità, ha pagato. Del resto, è questo il bello del calcio delle Nazionali: non c’è nessuno sceicco che possa emendare le lacune di organico, né aumentare il valore della rosa pescando a piacimento tra gli altri club. Tutto sta nel lavoro portato avanti dall’allenatore e dal suo staff, nella disponibilità dei giocatori, nella voglia di mettere l’identità comune davanti alle ambizioni personali. Se all’interno della squadra francese bisticciavano un giorno sì e l’altro pure, non è poi così sorprendente vederli subire un gol decisivo a tempo scaduto nel modo più sciocco possibile.

Il momento che abbiamo sognato a lungo: Gigio Donnarumma neutralizza il rigore di Saka, siamo campioni d’Europa (Laurence Griffiths/Getty Images)

Si potrebbe dire che l’Italia ha vinto perché ha giocato meglio delle altre squadre, ma non sarebbe vero. La Spagna ha giocato meglio degli azzurri nel confronto diretto, l’Austria ci ha messo in grande difficoltà, nel primo tempo contro l’Inghilterra non abbiamo visto certo la versione migliore della nostra Nazionale. Le stesse Francia e Inghilterra hanno mostrato sprazzi di grande calcio quando hanno voluto. È il fatto di aver giocato da squadra, sempre e comunque, ad aver fatto la differenza, e questo ci ha tenuto a galla anche quando non abbiamo avuto l’opportunità di esprimere il nostro calcio. Aveva ragione Mancini ad arrabbiarsi dopo che, al termine della partita contro la Spagna, gli hanno fatto osservare che quella era stata una vittoria “all’italiana”. «Le squadre di calcio attaccano e difendono», ha risposto il ct, si fanno le cose sempre allo stesso modo, guidate dallo stesso concetto, anche se poi ci sono partite e partite, momenti e momenti.

Leonardo Bonucci, dopo l’Europeo del 2016, mi aveva detto quanto era stato difficile abbandonare il raduno, dopo l’eliminazione con la Germania. Si era creata un’unità di gruppo talmente forte che andava oltre il senso sportivo della competizione: era una Nazionale che aveva voglia di stare insieme e che quando andava in campo c’era l’uno per l’altro. Quella squadra, con pochissime individualità rilevanti, era arrivata a giocare alla pari con la Germania campione del mondo, dopo aver strapazzato big come Belgio e Spagna. Quell’eredità è rimasta, sorprendentemente, intatta: l’Italia campione d’Europa ha un nuovo ct, un gruppo rinnovato, ordini di scuderia diversi. Eppure, l’elemento che accomuna le due esperienze è sempre lo stesso. E resta la risorsa più preziosa.