Campioni, ragazzi

Il documentario Sogno Azzurro funziona perché racconta una grande impresa rendendola umana.

Il momento più significativo di Sogno Azzurro (disponibile su RaiPlay) non arriva alla fine dei 60 minuti di montaggio. E non arriva nemmeno nel mezzo della narrazione, laddove gli sceneggiatori del passato tendevano a collocare il punto di non ritorno dei loro film, delle loro storie. Il momento più significativo di Sogno Azzurro, il momento più vero, arriva novanta secondi dopo l’inizio, quando Salvatore Sirigu dice che «con queste immagini ci dovete fare un film, un documentario, quello che sia, per mostrare tutto quello che è successo. Siamo ragazzi come voi, siamo ragazzi normali che abbiamo gridato e sognato come voi per questa grandissima Nazionale». Sirigu dice queste parole pochi minuti dopo aver vinto l’Europeo, ha la medaglia d’oro al collo, è un uomo evidentemente felice, quasi commosso, ed è ovvio che questa condizione renda tutto più bello, più speciale, più coinvolgente dal punto di vista emotivo – del resto questa è la vera essenza del cinema, della televisione, di tutti i prodotti mediali. Ma il punto è che le sue parole avrebbero avuto lo stesso identico valore, lo stesso senso, anche se l’Italia avesse perso la finale contro l’Inghilterra, o la semifinale contro la Spagna.

Se i moderni contemporanei incentrati sul calcio – a cominciare da All or Nothing di Amazon Prime, passando per Sunderland ‘Til I Die di Netflix – ci hanno portato per la prima volta dietro le mura dei grandi club, o hanno saputo individuare e dipingere bene l’appartenenza e il valore socio-culturale del tifo, Sogno Azzurro riesce a fare qualcosa di diverso, qualcosa di nuovo: racconta una grande vittoria rendendola umana, portandola vicina a noi, perché ci mostra che questa impresa è stata compiuta da persone normali, da persone simili a tutti gli altri.

L’idea alla base del montaggio è semplice, per non dire elementare: seguire la Nazionale italiana nel suo percorso agli Europei, quindi né più né meno di quanto non abbiano già fatto le telecamere di Amazon con il City di Guardiola, con il Tottenham di Mourinho. Anzi, nel caso di Sogno Azzurro è tutto molto più semplice, meno artificioso: c’è pochissimo retroscena, ci sono gli allenamenti, le sedute di recupero postpartita, i viaggi in aereo e in bus, le riunioni pre-gara di Mancini. Insomma, tutto l’Europeo viene ripercorso in maniera lineare, non morbosa, è evidente come non ci siano scelte di copione e che la “trama” era legata a ciò che succedeva in campo, nient’altro. Il fatto che sia stato chiuso e montato in poche ore, e che sia stato mandato in onda quattro giorni dopo la finale di Wembley, ha alimentato questa sensazione di normalità e spontaneità e freschezza. Ed è proprio questa la forza di Sogno Azzurro: è concepito come il film-ricordo di una lunga gita, di un lungo viaggio in comitiva, solo che in realtà è il diario della vittoria in una grande competizione.

Dietro la confezione di questo prodotto, quindi, ci sono tanta bravura e tanta fortuna. Anche perché i soggetti più ricorrenti – i giocatori, Mancini, Vialli, De Rossi – si prestano perfettamente a questo mood del racconto: Manuel Locatelli, il giorno dopo la doppietta con la Svizzera, dice che «mi è venuto troppo bene il lancio per Berardi, a quel punto ero troppo invasato e così ho pensato ora corro e vado a fare gol, e l’ho fatto»; Matteo Pessina, dopo la gara con la Spagna, racconta a Donnarumma che «stanotte ho sognato che Busquets era lì, vicino a me»; Jorginho spiega che riguarda tutte le sue partite «per vedere cos’ho sbagliato»; Nicolò Barella racconta che «mi piacciono i bambini e mi piace prendermi molte responsabilità, per questo ho voluto farmi una famiglia fin da giovane». Tutte queste parole e tutte queste sequenze cancellano – almeno apparentemente – ogni filtro, aggiungono tantissimo ai momenti scherzosi, ai cori sulle canzoni neomelodiche, a tutte le stories Instagram che abbiamo già visto, e che sono solo una parte del tutto: quella è una normalità divertente ma costruita proprio per andare sui social, per essere divertente; quella ripresa da Sogno Azzurro, invece, è una normalità molto più vera, perché mette a nudo le vulnerabilità, le paure dei giocatori. Li immortala per quello che sono: esseri umani.

Sogno Azzurro, nella sua solo velata semplicità, ha una capacità di catturare le immagini e le parole che, paradossalmente, finisce per restituire in maniera ancora più forte le doti eccezionali di molti protagonisti – no, l’aggettivo eccezionali non è eccessivo, perché vincere un Europeo non è una cosa da tutti. È così che scopriamo che Mancini, prima di ogni partita, riesce a prevedere sempre quello che succederà in campo, a dare le indicazioni giuste ai suoi difensori, ai suoi centrocampisti, ai suoi attaccanti; è così che scopriamo l’importanza di Vialli per il gruppo, la sua capacità di dire le parole migliori per caricare i giocatori; è così che scopriamo quanto Sirigu sia stato un consigliere fondamentale per Donnarumma, infatti prima della sfida contro la Svizzera il portiere del Torino ha detto al suo compagno che sarebbe stata «una partita di merda», avrebbe dovuto fare una sola grande parata nel secondo tempo e quindi avrebbe dovuto rimanere concentrato. Inutile aggiungere che è andata esattamente così.

In virtù di tutto questo, quello che voleva essere – ed è stato – un racconto emotivo ha finito per trasformarsi in un docufilm in cui la spiegazione del gioco ha una parte centrale: in tutte le riunioni prepartita, Mancini dice che in realtà ha poco da dire, spiega che «possiamo difendere in alto ma dobbiamo anche saper aspettare e compattarci in alcuni momenti della partita», che «il sistema arriva fino a un certo punto del campo ma poi voi dovete metterci la vostra fantasia, che ne avete tanta», che «contro la Spagna e forse contro qualche altro ci giocheremo il prossimo Mondiale, ma noi oggi siamo più forti». Sono tutte parole che descrivono l’identità di gioco di questa Nazionale, il lavoro fatto per tre anni, sono tutti momenti che rendono Sogno Azzurro un’opera completa, moderna, non troppo retorica. Certo, la partita con la Spagna e la finale contro l’Inghilterra vengono raccontate con un’epica diversa e un po’ più ridondante, nel senso che si parla molto dei rigori. Questa è stata una scelta evidentemente ex-post, dettata dal fatto che entrambe le gare sono finite proprio ai rigori, e quindi ha stonato un po’ con il resto del montaggio. Ma del resto si trattava di una semifinale e di una finale vinta dagli undici metri: ci stava, ecco. Così come ci stava una delle ultime immagini, quella di Spinazzola che dorme sull’aereo Londra-Roma con una corona un po’ ridicola in testa, lui che ha festeggiato con le stampelle dopo un terribile infortunio, lui che è uno di noi – nel bene e nel male – e alla fine ha vinto, mentre intorno a lui qualcuno stava raccontando una storia di persone che stava diventando la storia di una vittoria. E ha saputo farlo proprio bene.