Sei giocatori che avranno mercato dopo gli Europei

Dumfries, Locatelli, Schick, Forsberg, Phillips e Isak.

Una volta, neanche troppi anni fa, gli Europei e i Mondiali erano una grande occasione per gli operatori di mercato: le Nazionali e le nazioni meno battute dagli osservatori svelavano letteralmente i loro migliori giocatori su un palcoscenico globale, in pratica aprivano dei nuovi canali per le squadre alla ricerca di nuovi talenti da valorizzare – in campo e come asset economico. Ora i tempi sono cambiati, lo scouting è una pratica che non conosce confini geografici, tutti i calciatori del mondo sono già conosciuti e seguiti prima ancora che diventino professionisti, e quindi le manifestazioni estive sono come il volantino di un supermercato, di quelli che troviamo quotidianamente nella buca della posta: sai già cosa ci troverai, bisogna solo vedere che sconti ci sono. In alcuni casi, però, la vecchia magia riprende vita: succede quando i giocatori medio-borghesi, che di solito giocano in squadre medio-borghesi, si mettono in mostra a un livello superiore, e allora intorno al loro nome si generano un interesse e un traffico maggiore rispetto a quanto succedesse prima. Sono storie spesso interessanti, noi ne abbiamo selezionate sei, ed è un modo per provare anche a sperare che questo mercato, così condizionato dalla crisi post e intro-Covid, possa accelerare un po’.

Denzel Dumfries
Una delle chiavi tattiche ricorrenti di Euro 2020 è stata il modo in cui alcuni giocatori hanno interpretato il ruolo dell’esterno sui due lati del campo, ovvero quella figura in grado di fungere alternativamente da braccetto di una difesa a tre, di dare ampiezza in fase di possesso in un 3-2-5, di coprire tutta la fascia in un 3-5-2 più statico, lineare e monocorde in fase di risalita del campo. In questo ruolo così sfaccettato, Denzel Dumfries si è dimostrato uno degli elementi più continui e completi della manifestazione continentale, certamente la soluzione offensiva più esplorata dall’Olanda di Frank de Boer dopo gli inserimenti – con e senza palla – di Wijnaldum. Arrivato all’apice del suo prime tecnico, fisico e psicologico. il giocatore del PSV può essere considerato una sorta di “Cuadrado wannabe”, forse meno dotato del colombiano dal punto di vista della tecnica di base – soprattutto per ciò che riguarda la capacità di generare la superiorità numerica partendo da fermo – ma ugualmente costante, reattivo e iper-cinetico quando viene servito nello spazio in situazione dinamica – anche se, per lui, la linea laterale resta un riferimento fisico irrinunciabile. Qualsiasi grande squadra che fosse alla ricerca di un esterno multidimensionale, di un laterale in grado di switchare senza problemi tra vari sistemi di gioco, troverebbe in Dumfries il miglior elemento possibile nel rapporto tra qualità, quantità e prezzo di mercato.

Manuel Locatelli
La lunghezza della trattativa che sta portando – o che dovrebbe portare – Manuel Locatelli alla Juventus probabilmente è più percepita che reale, a causa di quella stereotipizzazione da calciomercato parlato per cui i summit, i blitz e gli incontri a cadenza settimanale aggiungono incertezza a una storia che, in realtà, è stata già definita da tempo. In questo senso, Euro 2020 è stato la conferma di qualcosa che sapevamo già, la rappresentazione plastica di come e perché l’ex wonder-boy del Milan si sia meritato una seconda occasione in una big dopo aver saputo dovuto convivere con il peso delle grandi aspettative disattese, dopo aver trasformato questa delusione in un percorso di ricostruzione meraviglioso, certo, ma anche più lungo e doloroso di quanto possa sembrare. Il fatto che, a un certo punto del torneo, il suo dualismo con Verratti per il ruolo di mezzala sinistra – circostanza impensabile anche solo un anno fa – sia stato visto come legittimo, e non solo una conseguenza degli infortuni del centrocampista del Psg, o di un momentaneo overperfoming individuale e collettivo, spiega meglio di tante parole come Locatelli, oggi, sia percepito come un calciatore pronto a disputare le grandi partite di una grande squadra. A farlo con i galloni da titolare. Non è tanto – e non è solo – una questione tecnica e di completezza, doti che lo rendono impiegabile praticamente ovunque in un centrocampo a due o a tre: questa sensazione di maturità si nutre anche di quella durezza mentale necessaria per competere a questi livelli, vale a dire ciò che è mancato a tanti giocatori più talentuosi di Locatelli (ma dalla parabola calcistica simile) per mantenere le premesse di inizio carriera. Il Locatelli di oggi in una big ci può stare, anzi ci sa e ci deve stare, e la conferma è arrivata al termine di un Europeo vissuto e vinto da protagonista, o comunque come un elemento importante per l’Italia: alzi la mano chi, al momento del suo passaggio al Sassuolo, considerava possibile una cosa del genere.

Emil Forsberg     

Il gol del provvisorio 2-0 della Svezia contro la Polonia – il secondo personale di una partita dominata psicologicamente prima ancora che tecnicamente – spiega perfettamente il tipo di giocatore che è, anzi che è sempre stato, Emil Forsberg. Nell’inquadratura a campo largo il giocatore del Lipsia quasi scompare per poi riapparire fulmineo a seguito del contro-movimento che lo porta a ricevere il tocco di Kulusevski quando è al limite dell’area di rigore, completamente smarcato.

Un gol, due inquadrature

Quella di “shadow striker” è una definizione calzante per Forsberg nella misura in cui la si fa combaciare con quell’idea di sottovalutazione perenne che lo accompagna, con quella etichetta da “giocatore più forte di cui non avete mai sentito parlare” che sembra aver appiccicata addosso dall’inizio della carriera. Della Svezia arrampicatasi – è proprio il caso di dirlo – fino agli ottavi di finale, Forsberg è stato il centro tattico tecnico ed emotivo, il giocatore totale di trama e ordito cui erano affidati i compiti di costruzione e rifinitura nell’ultimo terzo di campo, il trequartista atipico che partiva dalla fascia sinistra per poi accentrarsi e disporre a piacimento della zona 14. Che poi è quello che è accaduto nella partita contro l’Ucraina, probabilmente la migliore della carriera e che, se vinta, avrebbe rivelato anche al pubblico mainstream una realtà che è già manifesta da tempo: alla soglia dei 30 anni, anche una realtà ambiziosa e futuribile come quella del Lipsia può star stretta a un giocatore così.

Patrick Schick

Se c’è un giocatore in grado di alimentare e alterare i sogni, le speranze e le illusioni che solo un grande torneo estivo sa regalare questi è Patrick Schick. Il gol contro la Scozia non è stato solo il più bello del torneo, piuttosto una manifestazione – cercata e voluta e, per questo, ancor più stupefacente – di lucida follia, la sintesi della meraviglia dell’incredulità che accompagna un colpo comparabile all’hole-in-one del golf, l’ideale compromesso tra una prima parte di carriera da the next big thing e le ultime due stagioni passate a cercare di ricostruirsi una dimensione internazionale adeguata al suo strepitoso talento. In questo senso Euro 2020 è stata una tappa intermedia, fondamentale ma non decisiva, nel suo personale percorso di catarsi e redenzione dopo la parentesi romanista, il palcoscenico ideale per dimostrare – prima di tutto a sé stesso – come il giocatore generazionale intravisto alla Sampdoria fosse ancora lì da qualche parte: bastava solo aspettarlo, così come servirà aspettarlo ancora nei momenti in cui svanirà quella grazia divina che sembra averlo toccato a Euro 2020, nelle due settimane in cui ha trascinato quasi da solo la Repubblica Ceca ai quarti di finale svanirà.

In questo articolo del dicembre 2019, nel bel mezzo di una stagione da dieci gol in 28 partite con il Lipsia, scrivevamo che Schick si stava «riprendendo tutto ciò che sembrava aver perso», anche a causa di una serie di errori di valutazione per cui «abbiamo esagerato con le lodi e le investiture e le speranze quando era alla Sampdoria, ci siamo fatti convincere tutti, subito, di avere a che fare con un talento in grado di spaccare il mondo; poi è passato un po’ di tempo, sono cambiate delle cose e abbiamo commesso l’errore opposto, ci siamo fatti ingannare da due anni orribili alla Roma, abbiamo finito per considerarlo un sopravvalutato»; oggi Schick ha 25 anni, è alla vigilia della sua seconda stagione a Leverkusen, e la sensazione è che sia pronto per il grande salto. Questa volta per davvero.

Per una volta non c’è stata (non poteva) esserci polemica su un premio individuale

Kalvin Phillips

Durante la telecronaca della finale sulle reti Rai, Stefano Bizzotto ha fatto riferimento a quello che può essere considerato il turning point della carriera di Kalvin Phillips, cioè l’intuizione di Marcelo Bielsa di schierarlo da numero 5 davanati alla difesa, in maniera quasi contro-culturale rispetto al dinamismo, alla fisicità e alla facilità di corsa e inserimento che costituivano – e per certi versi costituiscono ancora – le sue caratteristiche di base. In realtà non è solo una questione di allenatore giusto al momento giusto della carriera: come viene raccontato in questo articolo da The Athletic, dietro la crescita esponenziale del centrocampista del Leeds c’è un vero e proprio “progetto”, un percorso che Bielsa ha pensato, seguito e messo e pratica come fosse l’architetto di un palazzo da edificare mattone su mattone, un passo alla volta. Si tratta di una metafora che lo stesso Phillips ha più volte utilizzato per descrivere come e quanto il tecnico argentino lo abbia cambiato ben oltre le suggestioni derivanti dal soprannome “The Yorkshire Pirlo” attraverso un metodo che, come ha detto il suo compagno di Nazionale Benjamin White, «ha mostrato come rendere facili le situazioni difficili».

L’Europeo di Phillips è stato interamente consacrato a questo concetto, a facilitare per sé e per gli altri tutte le situazioni su entrambi i lati del campo in cui si è trovato coinvolto, con una centralità che nemmeno le cifre, per quanto importanti – quasi 50 passaggi di media a partita con l’86% di precisione – riescono a restituire completamente. A 25 anni, e con una dimensione internazionale raggiunta e consolidata nello spazio di sette partite e 665 minuti disputati su 690 a disposizione, la tentazione di provare a dimostrare ulteriormente che il “metodo Bielsa” funzioni anche senza Bielsa potrebbe essere forte.

Aleksander Isak

La lungimiranza, anzi il tempismo, della Real Sociedad nel far firmare ad Aleksander Isak un contratto quinquennale – con tanto di clausola rescissoria portata da 70 a 90 milioni di euro – nel bel mezzo dell’Europeo della sua consacrazione, dice molto delle grandi prestazioni fornite dall’attaccante svedese, per di più nel corso di una competizione terminata con zero gol segnati. In una Svezia privata della leadership emotiva di Zlatan Ibrahimovic, e che ha trovato in Emil Forsberg il giocatore fondamentale nell’ultimo terzo di campo sia per ciò che riguarda la finalizzazione e la rifinitura, Isak è stato l’elemento sorpresa, l’uomo nuovo di un gruppo improvvisamente più responsabilizzato dall’assenza del suo leader. Si può dire che forse è stata proprio la mancanza del totem-Zlatan a permettere ad Isak di mettere in mostra quelle sue qualità di giocatore immediato, diretto e verticale, tutte doti che la presenza e la centralità di Ibra avrebbero inevitabilmente finito con il fagocitare.

In un sistema come quello svedese, caratterizzato da una fase di possesso piuttosto scolastica, in cui la risalita del campo si basava sulla capacità dei due attaccanti di attaccare senza palla lo spazio in verticale, Isak è stato decisivo nel creare (e crearsi) presupposti di pericolosità praticamente da solo, sfruttando l’elasticità e la facilità della sua corsa, e poi una tecnica di base nello stretto che, in relazione alle dimensioni, fa di lui un autentico freak. Contro la Spagna è stato nettamente il più pericoloso dei suoi: ha colpito un palo e ha servito un assist che Berg avrebbe potuto e dovuto appoggiare comodamente in porta. Contro la Slovacchia è stato decisivo nell’azione che ha portato al rigore realizzato da Forsberg e ha stabilito il nuovo record (poi ritoccato da Doku contro l’Italia) di dribbling effettuati in una partita degli Europei, ben sei, quasi tutti in un’azione che stava per sfociare nel gol più bello della manifestazione. Che abbia segnato o meno alla fine è un dettaglio marginale all’interno di una continuità prestazionale da giocatore di livello assoluto.

L’azione in questione