Sono Giochi in una bolla: senza spettatori, senza il villaggio olimpico, senza il resto della città. Lo sport, da solo, riuscirà a salvare Tokyo 2020?
Tra le tante cose che ci perdiamo con l’inevitabile versione sanificata e riluttante dei Giochi, c’è anche questa: come sarebbero stati con l’interpretazione sentimentale che i giapponesi danno al fatto di ospitare un’Olimpiade. Era successo nel 1964 e sarebbe successo di nuovo nel 2020, in un’ucronia senza virus. Yoshinori Sakai aveva diciannove anni quando accese la fiamma olimpica ai Giochi di Tokyo del 1964. Era studente universitario e quattrocentista di livello buono ma non olimpico, a quei Giochi non avrebbe nemmeno gareggiato. Il comitato organizzatore lo aveva scelto per un solo motivo: per quell’ultimo tratto da tedoforo serviva un atleta nato a Hiroshima il giorno della bomba, il 6 agosto 1946.
La sua storia privata di sopravvissuto, riservata come quella di ogni hibakusha, divenne un fatto pubblico e globale, la sua biografia era il messaggio olimpico giapponese. C’era una lunga eredità di dolore nella sua corsa: la sua Hiroshima e poi Nagasaki, ma anche la restituzione dell’Olimpiade mai organizzata del 1940, a sua volta progettata per essere simbolo della ricostruzione dopo il grande terremoto del Kantō del 1923. E c’era il futuro da accogliere: un paese in pace, ottimista, fiero, orgoglioso di mostrare le sue infrastrutture (il treno shinkansen era stato inaugurato pochi anni prima). Da Tokyo ’64 iniziava il viaggio del Giappone, da deserto post-atomico a potenza economica, culturale, politica.
Anche il secondo sarebbe stato costruito intorno a una cicatrice guarita da mostrare: il terremoto del2011, lo tsunami e disastro nucleare di Fukushima, il peggiore dai tempi di Chernobyl. Solo due anni dopo, il Cio aveva scelto Tokyo e con lei un’altra grande storia olimpica da raccontare. Di nuovo, la bandiera a cinque cerchi in Giappone sarebbe stata un modo per dire: ci siamo, siamo vivi, siamo forti e guardiamo avanti, guardate insieme a noi. Come sappiamo, la rigida organizzazione kanban di questa narrazione olimpica è andata in frantumi. C’è stata la pandemia, il rinvio di un anno, poi l’affannosa costruzione dell’evento. In ambiente sterile è difficile raccontare buone storie e non c’era tempo per concepire una nuova risposta simbolica intorno a cui costruire i Giochi, anche perché la pandemia in Giappone è ancora un gran problema, la quarta ondata ha preso il Paese alla sprovvista e la vaccinazione è lentissima.
Il popolo più orgoglioso del mondo avrebbe dato qualsiasi cosa per cancellare la festa che per anni aveva organizzato. Più del senso dell’onore, sono state le clausole del contratto a tenere valido l’appuntamento: i Giochi sono del Cio, solo il Cio poteva cancellarli. Tokyo 2021 è come celebrare un compleanno col festeggiato che, dopo aver provato a scappare in ogni modo, accoglie gli ospiti col viso tirato e un elenco di regole per ammazzare il divertimento: non si festeggia, non si beve, non si canta, non si tifa, non si fa sesso (nonostante la distribuzione di preservativi, che è una tradizione olimpica: ma dovranno essere portati a casa), non si visitano le città, non si prendono i mezzi pubblici.
Si entra, si gareggia e in massimo due giorni bisogna fare le valigie e andarsene. Il primo ministro Yoshihide Suga – atteso a ottobre dalle prime elezioni dopo essere subentrato a Shinzō Abe – ha assicurato da tempo che il suo governo «non avrebbe messo i Giochi al primo posto». Kaori Yamaguchi, icona del judo e membro del comitato olimpico giapponese, ha detto che Tokyo è stata forzata a organizzarli. In un Paese fondato sul consenso, i sondaggi rilevano quote tra il 70% e l’80% di giapponesi contrari all’Olimpiade.
È per questo che la bolla in cui tutto si svolgerà non sarà solo sanitaria. Tokyo 2021 si terrà con pochissimo Giappone intorno. Comunque vadano Olimpiade e Paralimpiade, sarà uno dei rimpianti di chi ama i Giochi, da tempo diventati un immenso evento culturale che sovrasta le gare sportive, le riduce a sovrastruttura. Rio, Londra, Pechino erano delle atmosfere, dei grandi moodboard, a distanza di anni o decenni ne tratteniamo più i colori che i contenuti. L’Olimpiade contemporanea è un festival e assistere a quel festival nel variegato Giappone degli anni ’20 sarebbe stato indimenticabile.
Per il Giappone si aggiunge la ferita geopolitica, lo smacco all’interno della contesa per la leadership regionale della regione più importante al mondo. Tokyo 2021 è la terza delle quattro Olimpiadi asiatiche in questo quarto di secolo, di cui tre consecutive. Nel 2008 a Pechino ci fu l’ascesa simbolica della superpotenza cinese. Nel 2018 a PyeongChang lo spettacolo del dialogo tra le Coree. Tra un anno tocca di nuovo alla Cina, che farà di Pechino 2022 un manifesto della sua visione ecologica. A Tokyo invece non resta che provare a sopravvivere e uscirne senza troppe ferite, nell’orgoglio e nei conti. «È come essere nella posizione del giocatore d’azzardo che ha già perso troppo», ha detto ad AP Koichi Nakano, analista politico della Sophia University di Tokyo. «Ritirarsi avrebbe solo significato confermare le enormi perdite». E quindi si è andati avanti, sperando a un certo punto di rivedere l’alba e qualche vantaggio in questi Giochi.
E quindi? Cosa rimane nella rigidità di questi Giochi senza divertimento? Seiko Hashimoto è un’altra grande olimpionica della storia giapponese, pistard e pattinatrice di velocità. È a capo del comitato organizzatore e nelle settimane più difficili, quelle in cui è stato fatto l’ultimo tentativo di mettere in discussione Tokyo 2021, e ha detto: «I Giochi sono sempre stati un momento di entusiasmo collettivo, ma spesso a causa di questa euforia il significato e i valori non venivano trasmessi. Ora credo che finalmente torneranno al centro i veri valori dei Giochi olimpici e paralimpici». Sono frasi di circostanza, è vero, ma sono anche sensate: questa è un’Olimpiade nuda, priva di contesto, con poco colore e limitati accessori. C’è una sola cosa che può salvarla ed è lo sport, proprio l’insieme di tutti i gesti sportivi, delle 33 discipline, dei 339 eventi, delle 5mila medaglie che saranno assegnate, la somma della bellezza che saranno in grado di offrire. La responsabilità di salvare il significato dei Giochi pandemici è tutta sugli atleti. Perché se Tokyo c’è ma è come se non ci fosse, se il colore intorno sbiadisce, se nessuno si divertirà a pieno, ogni riflettore sarà sui campi, sulle piste, nelle vasche. Gli atleti faranno quello che hanno sempre fatto. Non sarà difficile per loro accettare la depressione del villaggio olimpico sterile, l’assenza di contatti e l’eclissi dei Giochi come esperienza culturale.
Questi aspetti ci sono stati raccontati sempre di più come la vera essenza olimpica, ma erano un contorno e per un’edizione torneranno a esserlo. Gli sportivi si preparano a giornate così per una vita intera e quindi dimenticheranno quello che non serve, anche gli spalti semivuoti, e gareggeranno. Qualcuno vincerà, qualcuno deluderà, record saranno fissati, ci saranno grandi vicende da raccontare, gloria, pianti, sorrisi, proteste, imbrogli, infortuni, meraviglie, schifezze, moltissima bellezza.
E sarà bello lo stesso, perché alla fine dello sport ci si può fidare. Le gare olimpiche e paralimpiche non avevano mai avuto bisogno della sovra-stimolazione che ha trasformato i Giochi in festival itineranti. Quello era il «capitalismo della celebrazione», come spiega il politologo della Pacific University (ed ex campione di indoor soccer) Jules Boykoff nel libro Celebration Capitalism and the Olympic Games, la filiera di fondi pubblici, profitti privati e nodi ambientali e sociali mai risolti. È quello che ha spinto David Owen, per vent’anni corrispondente olimpico del Financial Times, a descrivere i Giochi del 21esimo secolo come «un elaborato esercizio di fundraising con il meglio dell’umanità sullo sfondo».
Il punto è che ora quello «sfondo», col meglio dell’umanità, è tornato a essere tutto quello che abbiamo. Non che spariscano gli interessi economici, cancellare i Giochi sarebbe costato al Cio tre miliardi di dollari solo in diritti di broadcasting, ma viene meno tutto quello che il capitalismo della celebrazione ha dovuto creare per essere certo che ogni essere umano si interessasse all’Olimpiade e ai suoi sponsor. Ora che rimangono a intrattenerci quasi solo gli atleti e le loro performance, a essere stanati saremo noi. Ci interessa davvero lo sport nella sua infinita varietà umana, atletica, performativa?
Saranno Giochi in cui torneremo ai valori, ha promesso Hashimoto. E uno di quei valori è il piacere primitivo di assistere a una competizione sportiva di alto livello. La domanda che viene implicitamente posta a media e spettatori, ai consumatori e ai produttori di questo evento globale ridotto ai minimi termini, diventa: sapremo tenere l’attenzione su quello? Ci basterà? Ci piacerà? È la vera questione sulla quale si gioca l’eredità di quest’Olimpiade nuda. Una volta archiviata, cambieranno i contratti e magari aumenterà la sostenibilità, reale o di facciata, il capitalismo della celebrazione troverà comunque ancora il modo di organizzare Giochi su vasta scala, anche nel post-pandemia, o in un contesto di crisi climatica come quello che ci attende negli anni ’30, dopo Parigi ’24 e Los Angeles ’28. Il vero tema di Tokyo è se ci interesserà, e quanto, e per quali motivi. Questa Olimpiade sarà una fotografia sul senso e sul piacere che lo sport sa ancora darci.