Tutto quello che resta delle Olimpiadi di Tokyo 2020

Sono stati dei Giochi unici, irripetibili, non solo dal punto di vista sportivo: l'eredità e l'importanza di questa edizione sarà compresa solo tra molto tempo.

La fiamma di Olimpia si è spenta, domo arigatou ad amici, parenti e conoscenti, cioè agli atleti che adesso amiamo e che prima non conoscevamo, che hanno vinto e che si sono ritirati, che hanno perso e che hanno partecipato. L’Olimpiade esiste soprattutto mentre succede, cioè fino a ieri, e quindi da domani molti di questi momenti andranno persi nel tempo, fino a quando il tempo non sarà arrivato a Parigi 2024 e la fiamma di Olimpia brucerà di nuovo e nella memoria ogni momento tornerà al suo posto. È un girotondo retorico e smielato, questo, lo so. Però seguendo la cerimonia di chiusura della XXXII edizione dei Giochi Olimpici mi sono commosso e non riesco a capire il motivo di questa commozione, come non riesco a capire il motivo di un’infinità di cose successe in questo paio d’anni troppo strani per viverli come tali, troppo diversi per non sforzarsi di metterli nel mucchio insieme agli altri. Forse la ciclicità degli eventi, del tempo, delle cose delle Terra e degli uomini, ormai mi fa piangere.

Forse non c’è niente di male nella retorica e nel miele. La Nazione e le nazioni, i vincitori che trionfano e gli sconfitti che partecipano, gli eroi romantici (o nazionali o proletari o inaspettati o involontari o qualsiasi cosa ci serva nel momento) e i semidèi mitologici: tutto ciò che odio con ogni particella elementare del mio corpo, in ogni altro momento della mia esistenza, durante l’Olimpiade va bene. Magari non va proprio bene ma va comunque meglio. Chissà se è in questo che sta il senso autentico dell’Olimpiade, il tratto di significato che tiene assieme quella antica e quella moderna: sospendere le ostilità nei confronti di tutti quelli e di tutto ciò che nei 1460 giorni che non sono di Giochi si detesta con gusto, si odia con metodo.

Le Olimpiadi mi ricordano quanto non so e non capisco, mi ribadiscono una distinzione che è un tesoro che custodisco gelosamente al centro della mente: l’arrogante è incompetente, il curioso è neofita. Non si fa peccato a non sapere, non si ha colpa quando non si capisce: i Giochi sono la prova provata che siamo tutti, nello stesso momento, per le stesse ragioni, cultori e incompetenti, esperti e neofiti. E ogni sport di cui non so vive di una retorica che, proprio per via del non saperne, finisce per attrarre. E forse il disprezzo per la retorica è solo un’altra manifestazione dell’ossessione: quel pugno di sport che – per ragioni quantitative – consideriamo “maggiori”, occupano uno spazio della vita (mia, nostra) tanto grande che c’è bisogno di legittimazione, di nobilitazione, di trasformazione in qualcosa che sia più che sport e quindi meno che retorica. E per strada si perdono pezzi di cui lo sport non può fare a meno: la retorica, appunto, che per chi non ha pretese è solo un altro modo di dire epica, di fare memoria. Le Olimpiadi, che sono sport in quanto tale, in purezza, in essenza, non rifiutano questo racconto, anzi lo amano, di più: ne vivono. E chissà che non sia per questo che le Olimpiadi sono facili da amare, sono belle da vivere: sono i Giochi, cioè dei giochi, e niente di più. Anche se questa poi è la verità di tutti tranne di quelli che giocano, si capisce. E anche in questo l’Olimpiade è sport come dovrebbe essere: loro di lì a vivere una cosa, noi di qui a godercene un’altra.

Sono stati, questi di Tokyo, Giochi del nostro tempo. Tutti lo sono, ovviamente, ma questa volta di più. Si dice sempre così, naturalmente, ma questa volta è vero. Giochi del nostro tempo significa, purtroppo e soprattutto, nel mezzo di una pandemia: doveva esserci il pubblico, alla fine non c’è stato, per un po’ è parso ci fossero più comitati No-Olimpiadi tra i giapponesi che persone interessate ai Giochi in tutto il resto del mondo. Alla fine tutto è sembrato più normale di quanto all’inizio non ci si sarebbe aspettati, ma solo perché ormai ci siamo abituati (rassegnati?) alle cose che succedono nel vuoto, dentro il silenzio, arresi al nostro sforzo di ignorare o sottolineare tutto ciò che non va. Ha ancora senso ribadire quanto tutta questa assenza, tutte queste assenze mettano (dovrebbero mettere) a disagio? Ha ancora senso ripeterlo dopo che dentro tutto questo ci abbiamo messo un’Olimpiade? Dovevano essere i Giochi della normalità e rischiano di essere i Giochi della normalizzazione.

Ma che altro si poteva fare? Che altro si può fare? Abbiamo chiuso l’Olimpiade dentro una bolla per proteggere chi ci stava dentro e chi vive fuori, e alla fine, non fosse stato per il fuso orario, ci siamo persi di vista il Giappone. Che è un peccato grande, considerato che il Giappone è una delle poche nazioni che si ama anche da lontano, anche da stranieri, grazie a una cultura che da sempre esercita un fascino che va assai oltre l’esotico. E di tutto questo fascino purtroppo s’è visto poco, e quel che si è visto è stato anch’esso un segno inevitabile, ineludibile dei tempi. Quella che ha partecipato a questi Giochi è la prima generazione di atleti che conosce – di più: che vive – il mondo attraverso i consumi pop-culturali, quindi attraverso i ricordi della gioventù, dell’infanzia. E da qui viene la maggior parte di Giappone visto in queste due settimane: Miltiadis Tentoglou che si presenta nella posa di Monkey D. Rufy in Gear Second; Massimo Stano che festeggia l’oro nella 20 km di marcia con il dito in bocca che serve a portare Rufy al Gear Third; Payton Ottherdal “super” come il nakama di Rufy, Franky; Noah Lyles che mischia sacro e profano, mimando la kamehameha di Goku avvolto nella bandiera stelle e strisce; la squadra di 4×100 metri piani cinese che fa la stessa cosa prima della gara, e niente di giapponese fatto da un cinese è mai irrilevante; e ancora una volta Goku, questa volta però con le fattezze dell’ungherese Balint Kopasz sul gradino più altro del podio; Kiran Badloe e l’acconciatura omaggio ad Aang di Avatar – The last airbender, che è un cartoon americano che però non esisterebbe senza gli anime giapponesi; Isaiah Jewett che prova la kage bunshin no justsu di Naruto; e ovviamente Elia Viviani, Filippo Ganna, Francesco Lamon, Simone Consonni e Jonathan Milan in posa come la squadra Ginew della Saga di Frieza.

Sono stati, questi di Tokyo, Giochi del nostro tempo. E la lezione che ne resta è la lezione che impariamo da due anni: non c’è niente di scontato, nulla di facile in una fiamma che si accende in un angolo del mondo e giunge viva in un altro angolo del pianeta quattro anni dopo, ogni quattro anni. Ed è per questo che i simboli sono tali e hanno tale importanza in tutte le culture di ogni tempo e di ogni luogo: perché resistono, e di resistere si tratta, in questa epoca terribile e incredibile. E di resistere si è trattato, si è parlato, in questa Olimpiade. In un modo diverso rispetto a tutti gli altri Giochi, in questo certamente questi di Tokyo sono stati Giochi del nostro tempo più di tutti gli altri: parole e discorsi che cambiano, raccontati e riassunti in un evento che è inevitabilmente quello che i protagonisti ne fanno (o non ne fanno, possibilità remota un tempo, risultato possibile oggi). E ormai lo sport non è più solo il modo dei moderni per riconciliarsi con il corpo, adesso è anche uno strumento utile a osservare la mente dall’interno.

Tutti gli atleti, sempre e per sempre, vanno oltre i limiti imposti al nostro corpo dalla bontà o crudeltà della sorte, dalle leggi ferree ed eterne dell’universo. Ma tutti gli atleti, questo ci è stato spiegato stavolta, vivono dentro le pareti della mente e certe volte la stanza è enorme, altre volte diventa minuscola e in questo spazio che cambia c’è la loro gloria e il nostro amore. Ma né la gloria né l’amore devono esistere per forza o esistere assieme: c’è chi ha rinunciato a una cosa e vinto un’infinità dell’altra, e chi ha deciso che la prima vale la seconda, anzi, che la gloria esiste in assenza di amore. Da tantissimi punti di vista la storia di questa Olimpiade è la storia di Simone Biles e Novak Djokovic, i migliori a fare quello che fanno (lei sicuramente, lui probabilmente) anche se quello che fanno non è sempre piacevole. E viene da chiedersi come sarebbe andata se questa Olimpiade si fosse tenuta quando si doveva tenere, come si doveva tenere. Ci fosse stato il pubblico, forse sarebbe stato tutto meno rilevante, meno attuale di quanto è stato. Biles magari avrebbe gareggiato e avrebbe vinto: ha detto che sempre più spesso fa le cose che fa più per gli altri che per se stessa, e ovviamente il problema si è posto questa volta che gli altri non c’erano e lei è rimasta sola con se stessa, dentro se stessa. Ci fosse stato il pubblico, forse Djokovic avrebbe vinto la medaglia d’oro e completato un più che Grande Slam: commentando i fatti di questi Giochi, il tennista serbo ha detto che la pressione è un privilegio, e in effetti lui sembra vincere in spregio a un pubblico che preferisce sempre l’altro, pare dominare per dispetto ai cultori che ne commentano lo stile barbaro, le strategie distruttive. E ovviamente il problema si è posto questa volta che il pubblico non c’era e la pressione era minore e il privilegio di Nole più piccolo. Questi Giochi sono stati la storia di come gli atleti vivono ciò che sta intorno a loro e quindi dentro di loro, sono stati la dimostrazione del fatto che forse non esiste un modo giusto di affrontare la sfida ma sicuramente esiste un limite alla capacità di farlo. Si può mostrare la ferita sempre fresca della propria mente, come ha fatto Biles, e si può insistere fino a frantumare l’osso del proprio orgoglio, come ha fatto Djokovic con la sua racchetta dopo la sconfitta con Zverev. Ancora una volta: loro di lì a vivere una cosa, noi di qui a osservarne un’altra.

Per la prima volta nella storia dei Giochi Olimpici, la Nazionale italiana ha vinto cinque medaglie d’oro nell’atletica leggera: oltre a Jacobs e Tamberi, gli atleti azzurri hanno trionfato nella staffetta 4×100, nella marcia maschile (con Massimo Stano, nella 40 km) e in quella femminile (con Antonella Palmisano, nella 20 km) – Jewel Samad/AFP via Getty Images

Sono stati, questi di Tokyo, Giochi del nostro tempo. Cioè anche i Giochi della tecnologia, quindi della diffidenza. Mentre Lamont Marcell Jacobs vinceva la medaglia d’oro nei 100 metri piani io ero su un autobus a lunga percorrenza, direzione Nardò. A un certo punto il mio telefono comincia a scottare di notifiche che dicono che un italiano è l’uomo più veloce del mondo. Come tutte le cose che vengono dal mio telefono (dalle chat, dai social), anche questa notizia ha sbattuto contro uno strato ormai spessissimo di diffidenza. Ci ho messo più di quanto avrei voluto ad accertarmi che la notizia era vera. Forse un tempo ci avrei creduto e basta, e la mia vita sarebbe stata felice cinque minuti di più. Grazie mille, Mark Zuckerberg. Grazie per questo, e per la storia delle scarpe che non si capisce se corrono loro al posto del velocista, e per quella della pista che non si sa se si muove lei al posto delle gambe degli atleti, e per quella dei letti di cartone che non si capisce come e perché dovrebbero impedire agli atleti di scopare. Grazie per aver rovinato le Olimpiadi e per farmi sognare ogni notte l’apocalisse che trasforma il mondo in un deserto in cui la sopravvivenza dipende da quanti sassi e bastoni si riesce ad accaparrare.

Sono stati, questi di Tokyo, Giochi del nostro tempo. Quindi, soprattutto, Giochi la cui importanza simbolica, la cui portata sportiva, le cui conseguenza culturali capiremo quando il momento dentro il quale questa Olimpiade è esistita, e che a questa Olimpiade ha dato una forma così peculiare, sarà passato. Sarà il passato. Nel frattempo, resta ciò che resta sempre, cioè i simboli e la retorica. Grazie per tutto quello che è stato, perché ora tutti quanti sappiamo che può non essere, che può smettere di essere in qualsiasi momento, per qualsiasi ragione.

Domo arigatou. どうも有難.