Il “fallimento” Ronaldo e la lezione mai imparata dal calcio italiano

CR7 saluta la Juventus ed è un addio amaro: non per lui, ma per una Serie A incapace di rinnovarsi nel modo giusto.

A leggere (in larga parte) i giornali italiani, Cristiano Ronaldo è l’uomo che ha spezzato il cuore del nostro calcio. Ingrato, incapace di mantenere le promesse, tutto muscoli e poca umanità: vai via e non tornare più. E ancora: ti abbiamo trattato come un re ed è così che ci ripaghi: neanche uno straccio di Champions vinta, solo qualche scudetto il cui gusto è svanito presto nel tempo. E alla Juventus abbandonata sull’altare di nozze mai pienamente celebrate non resta che asciugarsi gli occhi inumiditi, riscoprirsi più debole e fragile, e – dicono in molti – meno competitiva di come fosse prima dell’arrivo del portoghese.

Ecco: CR7 è il capro (a lui farebbe piacere, trattasi pur sempre di GOAT) espiatorio, il colpevole numero uno degli insuccessi europei della Juventus e più in generale del calcio italiano. Il calciatore-superstar che con il suo arrivo doveva accumulare trofei e ricchezze e che invece ci lascia tutti sedotti e abbandonati. Non entreremo nel merito delle modalità (discutibili, e ci mancherebbe) con cui Ronaldo ha forzato la separazione con i bianconeri, né degli aspetti prettamente tecnici della sua esperienza torinese, di cui abbiamo già scritto. Ad ogni modo, i suoi 101 gol in tre stagioni non si raccolgono come pere da un albero, ma sono la sottolineatura (qualcuno ne aveva bisogno?) di un giocatore formidabile come pochi ce ne sono stati nella storia del calcio. Poi, è chiaro: Cristiano sposta tantissimo, e di conseguenza condiziona, in certi casi limita, ma questo non gli ha mai impedito di vincere ovunque sia andato.

Ma, appunto, la vulgata di queste ore esige che Cristiano Ronaldo venga descritto in modo univoco: un grande fallimento, uno che ha minato la forza e la credibilità della Juventus, in campo nazionale e internazionale. Non ha portato la Champions e ha pure interrotto la striscia di scudetti conquistati in Serie A. Colpevole di tutto, dei più disparati capi di accusa. I suoi numeri straripanti altro non sono che un’aggravante: è il solito egoista e narcisista, uno a cui non interessa alcunché della sua squadra ma gioca solo per le sue statistiche e per la sua concezione solipsistica del mondo. Trattato alla stregua di un Darko Pancev qualunque, del Ronaldo bianconero rimane in queste ore soltanto un ricordo amaro e infelice.

È un handicap del calcio italiano e non solo, quello di giustificare le proprie debolezze e i propri fallimenti nel modo più autoindulgente possibile. Questa lettura miope, tra l’altro, nasconde la verità più lancinante: è Ronaldo che ha scaricato la Juventus, non viceversa. L’ha scaricata perché ha capito che il progetto non era più alla sua altezza, quella di un calciatore che ambisce a vincere tutto quello che c’è da vincere, Europa compresa. Oggi la Juventus non può più dargli queste garanzie, e nell’estate in cui la Serie A perde, oltre a lui, Donnarumma, Hakimi, Lukaku, De Paul, l’ego smisurato o i capricci di questo o quel giocatore non sono più sufficienti a nascondere la polvere sotto il tappeto.

È la lezione mai imparata del calcio italiano: occorrono progettualità, idee, strategie per arrivare ai livelli più alti e restarci. Ronaldo oggi diventa lo scaricabarile con cui prendersela, il punching ball con cui sfogarsi e nel frattempo rimandare le riflessioni a un domani non identificato, che sia il più lontano possibile. La Juventus che aveva intrapreso un percorso di crescita, sportiva e commerciale, fino a diventare meta appetibile per Ronaldo, proprio con Ronaldo si è persa: ha sbagliato valutazioni, investimenti, uomini. In soli due anni, tra il 2017 e il 2019, il monte ingaggi della Juventus è aumentato da 150 a 250 milioni (al lordo): pesano i 54,3 milioni incassati dal portoghese, certo, ma pure gli ingaggi pesanti di giocatori che hanno deluso (Ramsey e Rabiot guadagnano 10,6 milioni lordi a stagione), senza dimenticare chi è stato ceduto con pochi rimpianti dopo pochi mesi (è il caso di Emre Can, 8,8 milioni lordi a stagione, e Douglas Costa, 10,5) e alcuni rinnovi errati (come quello di Khedira nel 2018, 10,5 milioni, che da lì ha giocato 22 partite in campionato in tre anni).

Mentre i costi della squadra si ingrossavano e la qualità in campo calava, la Juventus ha tentato il tutto per tutto alla roulette, cercando di compensare le mancanze tecniche e “filosofiche” del gruppo con gli ingaggi di allenatori diversi – Sarri, Pirlo – dal solco che si era seguito fino ad allora, salvo poi chiudere dopo un solo anno di fisiologico rodaggio con questi tecnici e tornare sui propri passi, palesando in tutta evidenza la mancanza di una visione a lungo termine. Insomma, la Juve è di nuovo al punto di partenza, con meno certezze e con uno scudetto scucito dal petto, non certo per colpa di Ronaldo, ma per l’incapacità di costruire attorno a Ronaldo una squadra in grado di sorreggerlo e con cui poter vincere insieme.

Resta l’amarezza di una grande occasione perduta, l’ennesima, da parte del calcio italiano: un calcio che non si sa riformare ma che tende a emulare realtà straniere lì dove non può competere (economicamente con le big d’Inghilterra o con il Psg) e che spera di risolvere i suoi problemi con l’arrivo del deus ex machina (Ronaldo, poi la suggestione Guardiola, ora, chissà, Mourinho?). Impareremo mai? Per ora abbiamo perso il calciatore più prolifico di tutti i tempi, che se ne va sdegnato sbattendo la porta della Serie A. Un fallimento che pesa, e che è solo del nostro calcio.