Non è un caso che i due trofei della carriera di Maurizio Sarri (l’Europa League col Chelsea e lo scudetto con la Juventus, escludiamo la Coppa Italia Serie D con la Sansovino per puro realismo capitalista) siano arrivati nelle due squadre in cui l’allenatore di Figline Valdarno è stato più infelice. In un certo senso si può dire che, tra Londra e Torino, Sarri abbia finalmente imparato l’aspra lezione del suo primo ventennio da allenatore, quando era il genio delle promozioni sui campi toscani, l’innovatore maniacale che conosceva a memoria le caratteristiche di ogni mestierante della regione; a quel tempo forse si sentiva anche prigioniero di quella dimensione, per la pigrizia del calcio italiano, certo, ma anche per la gabbia del suo cattivo carattere.
Quel Sarri era un personaggio alla David Foster Wallace, un ossessivo troppo intelligente per il suo stesso bene. Il vero compromesso che ha dovuto fare per arrivare, come ha raccontato Vanni Bergamaschi (il dieci di Stia e del cuore di Sarri per sempre) è stato quello con se stesso. Il suo è stato il cammino dell’illuminista che ha dovuto imparare a muoversi in un mondo di superficiali, incompetenti, arruffoni, distratti, arrivisti, conformisti. Non che fosse sempre vero, ovviamente, perché realtà e calcio sono complessi e ognuno vive come può, ma questa è spesso sembrata la sua lettura standard delle cose. Ogni tanto riaffiora, come quando, intervistato a Sportitalia, ha commentato la scoperta pop del suo Jorginho. A tradirlo non sono tanto le parole («È un giocatore raffinato, quindi non capibile da tutti»), ma quel sorriso tra il rassegnato e il divertito di chi sente di vivere l’avere sempre ragione come una necessaria fatica esistenziale.
Ora, la domanda (non per i laziali, ovviamente, ma per quelli che seguono il calcio come un romanzo) non è se Sarri nella Roma biancoceleste possa riuscire a essere se stesso o a vincere, ma se saprà fare entrambe le cose contemporaneamente. Se riuscirà a raggiungere il suo endgame, vincere in una città dove è anche felice e per una tifoseria che ha genuinamente voglia di accontentare. I suoi successi finora sono sembrati quasi in opposizione alle piazze dove li ha conseguiti: Chelsea e Juventus hanno usato Sarri per vanità e ambizione, ma anche Sarri ha usato loro, per prendersi nel più breve tempo possibile – e con ogni compromesso possibile – i successi (e i soldi) che riteneva di meritare. Saziata quell’inquietudine nervosa, la storia con la Lazio potrebbe essere molto diversa, e somigliare, per certi versi, al grande romanzo interrotto e senza trofei di Napoli, la capitale della sua felicità e dei suoi rimpianti.
L’inizio a Roma è stato politicamente bizzarro e calcisticamente notevole. E dobbiamo parlare di politica e non solo di campo, a differenza delle nuove sfide di Allegri, Spalletti e perfino Mourinho, perché Sarri ha scelto che fosse così. Con calcolo e non per idealismo: non essendo stato calciatore, ha dovuto inventarsi una back story. Se Mourinho, a un problema analogo, ha risposto con una trama di arroganza e volontà, Sarri ha incentrato il suo romanzo da allenatore sul riscatto. Ed è in nome di quel riscatto – che è personale, solo suo, non di popolo, non geografico, figurarsi di classe – che nascono tanti malintesi sulla carica rivoluzionaria del Sarrismo. Lo sceneggiatore della Serie A ha dimostrato un certo umorismo per il primo caso mediatico della sua stagione alla Lazio. Appena arrivato a Roma, il suo fedele luogotenente Elseid Hysaj ha litigato con l’ala di destra del tifo organizzato per aver cantato Bella ciao su Instagram. Hysaj pensava alla serie Netflix La casa di carta e non ai partigiani, ma vallo a spiegare agli Irriducibili: da un lato è un equivoco deprimente, uno dei tanti imbarazzi che ci dà il calcio italiano, ma alla fine potrebbe esserci anche un suggerimento narrativo per la Lazio sarrista. A Napoli, l’innesco della retorica sul Comandante Sarri e la presa del palazzo – che tanto colpì l’impressionabile borghesia partenopea – fu una frase sul colpo di stato che si poteva fare anche con solo diciotto uomini. Era solo una dichiarazione fatta prima di una gara di Europa League col Midtjylland, ma stabilì la temperatura emotiva del triennio.
La versione laziale potrebbe essere quella spoilerata dal terzino albanese, la rapina alla zecca del calcio in tempo di austerity, con i soldati Tirana (Hysaj), Torre Annunziata (Immobile), Siviglia (Luis Alberto) e Belgrado (Milinkovic Savic), guidati da Sarri nel ruolo di El Profesór, geniale, manipolatore e con un gran bisogno di amore. Il pilota della prima stagione è stato promettente, un’irruzione nel campionato con nove gol fatti, sei punti, Luis Alberto, Immobile, Milinkovic, Lazzari e perfino Leiva che per 180 minuti sembravano nati per il suo gioco. L’allenatore ha fatto il pompiere, ha detto non illudiamoci, ma quello è Sarri in purezza. A Napoli ricordano ancora la promessa iniziale che forse, in tre anni, se tutto andava bene, la squadra partenopea sarebbe arrivata ai livelli del suo vecchio Empoli. Fu presa malissimo, quella frase, e le prime partite a Napoli furono un disastro e un equivoco tattico. Poi la sua intelligenza girò la chiave nella serratura, Sarri trovò il codice (ironicamente, col Bruges e proprio con la Lazio, dieci reti in due partite) e iniziò così il Sarrismo, concetto che il suo eponimo odia almeno quanto odiava il suo vecchio lavoro in banca, inteso come zuppa mistica di riferimenti politici, estetica sovietica, culto del bello, realismo magico del possesso palla e della costruzione dal basso. Sarri è molto più intelligente di così e detesta questa retorica, ma ai tempi l’ha anche incoraggiata, suggerita, avallata. A Napoli – prima che al Chelsea e alla Juventus – l’allenatore dello Stia e della Faellese ha iniziato ad applicare la lezione: per arrivare su non servivano solo idee e vittorie ma anche consenso.
Come ogni buona bugia, il Sarrismo napoletano era costruito col materiale della verità, i pezzi della sua biografia, i natali a Bagnoli, il padre operaio all’Italsider, qualche genuina idea di sinistra, un’antica simpatia per la squadra di Maradona. Il resto è stata la furbizia mercantile che ha sviluppato per smettere di essere un esonerato seriale delle categorie inferiori, un’arte auto-promozionale nella quale il burbero illuminista ha poi scoperto di eccellere. A Torino ha scelto di essere realista perché realismo era quello che gli chiedeva l’ambiente, per lo stesso motivo per cui è stato insurrezionalista a Napoli, dove di questo c’era bisogno per sognare e divertirsi. Solo che la borghesia sabauda non è furba e non facile da ingannare, ma così Sarri si è fatto un anno di vacanza a spese di Agnelli, da scudettato e atteso come il redentore in mezza Serie A.
La lazialità è una delle culture calcistiche più sfaccettate che ci siano in Italia, i laziali sono tutti diversi tra loro, non ce n’è uno uguale a un altro, è un mondo in cui è difficile farsi camaleonte. Però Sarri potrebbe essere il grande interprete dell’era Lotito, presidente che la strategia della grande squadra austera – alla quale si stanno piegando tutte in Italia – l’ha adottata da sempre. La Lazio era una squadra pronta alla crisi finanziaria del calcio molto tempo prima che questa crisi arrivasse, è una società costruita ideologicamente per un momento storico come questo. E Sarri – che tra le tante idiosincrasie ha anche il calciomercato – è l’uomo perfetto per raccogliere i frutti di un progetto di questo tipo. L’unico concetto leninista che si adatta al Sarrismo è: «Bisogna lavorare col materiale che il capitalismo ci ha lasciato a disposizione». Nelle squadre ricche o ricchissime, nelle quali il mercato è un discorso di fusioni e acquisizioni, prosperano i gestori, in quelle meno ricche si divertono gli allenatori. E forse potrebbe essere questa la chiave della sua felicità: per l’uomo che è riuscito a mettere fine alla ventennale gavetta sostituendo il self marketing all’ostinazione, la gioia finale potrebbe essere una vittoria senza insurrezioni, senza ideologie e contro-ideologie, pensando al gioco e solo al gioco.