Kimi Raikkonen si ritirerà alla fine di questa stagione di Formula Uno. In una carriera lunga vent’anni ha vinto un Mondiale nel 2007 con la Ferrari, è arrivato primo al traguardo in 21 occasioni, è finito sul podio 103 volte. Quest’ultimo numero, 103, gli ha permesso l’ingresso in uno dei club più esclusivi della storia della Formula Uno, quello dei piloti che possono dire di aver messo i piedi sul podio almeno 100 volte in carriera. È un club composto da cinque membri soltanto: oltre a Raikkonenci sono Alain Prost (106), Sebastian Vettel (122), Michael Schumacher (155) e Lewis Hamilton (174). Élite se mai ne è esistita e ne esisterà una. Ovviamente, di tutto questo a Raikkonen non importa nulla: «La gente pensa che il numero uno sia l’unico che conta, anche se nei team tutti sanno che, per esempio, un quarto posto può essere una gran cosa in determinate circostanze. Ma non ha senso spiegare queste cose se alla gente importa solo chi c’è sul podio. Il risultato finale è l’unica cosa che vedono. Ho splendidi ricordi di gare che non ho finito perché tutto andava alla grande e poi all’improvviso il motore è scoppiato. […] Chi guarda non può capire». Raikkonen, per come me lo immagino io, ha a cuore solo un record: non c’è un pilota nella storia della Formula Uno che abbia completato più gare di lui (271). Parafrasando, non c’è un pilota nella storia della Formula Uno che abbia guidato più di lui.
Raikkonen è un pilota speciale proprio per questo: perché l’unica cosa che gli interessa, che gli piace, è guidare. Della Formula Uno odia tutto quello che sta fuori dall’abitacolo, attorno alla pista: certamente i giornalisti, ma anche un ambiente mutato lentamente ma inesorabilmente verso lo star system. «Un ritorno ai piloti degli anni ‘70 come James Hunt», ha scritto di lui Will Buxton di Formula1.com. Persino la vittoria sembra un accessorio – una distrazione –, a sentir parlare Raikkonen: «Sei bravo solo se arrivi primo. La gara può essere stata di una noia mortale, ma se arrivi primo, i giornalisti allora pensano che tu abbia fatto una gran prestazione. Puoi anche ammettere che la gara è stata una noia, una merda, perché gli altri hanno avuto un sacco di problemi e tu, soltanto grazie a un’assurda botta di culo, sei quello che è arrivato primo e comunque loro ti diranno che sei stato proprio bravo».
Essendo Raikkonen uno che in vent’anni ha concesso meno interviste di quelle che Lewis Hamilton concede in tre settimane, è impossibile verificare la veridicità di una cosa che di lui si dice ormai da anni: la sua gara preferita, la corsa che considera il suo lascito allo sport che è stato ¾ della sua vita, è una in cui ha tagliato il traguardo per sesto. La gara è il GP d’Australia del 2001, l’esordio di Raikkonen in Formula Uno. Aveva 22 anni e soltanto 23 gare in Formula Renault alle spalle. Peter Sauber fu costretto a metterci la buona parola con un titubante Max Mosley, allora presidente della FA, affinché al giovanissimo finlandese fosse concessa una super-patente provvisoria: quattro gare “di prova” prima della decisione definitiva, questo fu l’accordo tra Sauber e Mosley. Sauber non pensò nemmeno per un attimo che le cose potessero andare diversamente da come poi sono andate: era lì al Mugello a seguire la prima volta su una macchina da Formula Uno di Raikkonen e fu lui a decidere che quel ragazzino era talmente forte da meritare un nome in codice come le armi segrete nei film di spionaggio. Prima di Iceman venne Eskimo, la copertura che doveva proteggere il team Sauber dagli agenti in rosso e da quelli in argento: guai se i top team si fossero accorti che questo ragazzino girava già mezzo secondo più veloce del veterano Pedro Diniz. Tornando al GP di Melbourne 2001: Eskimo arrivò al sesto posto, come detto. Un punto nella classifica piloti. Oggi non è possibile per nessuno, in nessun modo, gareggiare in F1 con così poche gare in una serie Formula. Oggi il sesto posto vale otto punti nella classifica piloti.
Mark Slade, race engineer di Raikkonen alla Mercedes McLaren e alla Lotus, uno dei pochi nel paddock che può dirsi amico del finlandese, nel 2006 disse che «In Spagna e in Germania, Kimi ha corso probabilmente le due migliori gare che vedremo nelle nostre vite. Basta guardarlo mentre esce dall’abitacolo per capire lo sforzo che ha fatto. Ha dato tutto e probabilmente non lo ha notato nessuno se non quelli che gli stavano vicini. Guidava solo per andare a punti e per la maggior parte della gara ha guidato contro se stesso. È stato sensazionale». Slade raccontò anche un aneddoto: durante la guerra tra Bridgestone e Michelin, quest’ultima insisteva per testare le gomme sempre e solo con Raikkonen. La ragione stava in un questionario che i piloti dovevano completare dopo aver provato le gomme, tentando di indovinare le specifiche degli pneumatici che avevano appena usato. La maggior parte di piloti azzeccava abbastanza risposte. Raikkonen era l’unico che le azzeccava tutte, sempre.
Slade disse anche di non aver mai incontrato un altro pilota capace di raggiungere la stessa affinità che Raikkonen aveva con la macchina: «Uno straordinario livello di sensibilità» che gli permetteva di percepire problemi nel controllo trazione così infinitesimali che non venivano rilevati dai trackside data esaminati dagli ingegneri. Un’eredità familiare: Kimi aveva iniziato e abbandonato la scuola per diventare meccanico, suo fratello è un meccanico, suo padre era un meccanico. È convinto, Raikkonen, che non esista il grande pilota privo delle necessarie competenze da meccanico. Convinzione che lo porta alla riprovazione per una generazione di «teste di cazzo con i padri milionari», che «arrivano in elicottero quando è tutto già pronto, non fanno nulla». Parla dei giovanissimi kartisti di oggi, con il disprezzo di chi il kart se lo pagava, costruiva, riparava, lavava, trasportava da solo. La sua, d’altronde, era una famiglia proletaria («zingari bianchi», la definizione di sua madre) che investì tutto in uno sport che brucia i soldi più in fretta della gomma.
All’età di tre anni Kimi-Matias Raikkonen non aveva ancora pronunciato una sola parola. I suoi genitori lo portarono dal pediatra, preoccupati che il bambino soffrisse di un disturbo dello sviluppo. Il pediatra esaminò il piccolo e la sua diagnosi fu: «È tutto a posto. Non ha niente che non va. Semplicemente non gli va di parlare». A 22, a 32, a 42 anni, Raikkonen è rimasto il bambino che non aveva voglia di parlare: un’identità che nella vita adulta, nel mestiere di pilota si è fatta brand nonostante per lui tutto fosse tranne che una posa assunta a favore di telecamera, a beneficio dello sponsor. Iceman esiste nei luoghi e nei momenti dai quali Raikkonen, potesse, scapperebbe: pagine dei giornali, conferenze stampa, interviste one on one. L’autenticità, la sincerità di Raikkonen sta nella memoria muscolare di un braccio che si muove da solo, di una mano che in autonomia si allunga verso il collo, di dita che senza prurito da lenire si muovono avanti e indietro a grattare la pelle del collo. Ogni volta che un giornalista gli fa una domanda scema, Raikkonen si gratta il collo e risponde con due parole al massimo. È un tic che ha sin da bambino, che sua madre riconosce: non si può fingere né evitare, così come Raikkonen non può né fingere né evitare di essere se stesso.
L’ultimo episodio di Terruzzi racconta è dedicato ovviamente a Raikkonen. Terruzzi racconta di quella volta che gli chiese qual è la parte più noiosa di un fine settimana di Formula Uno e la risposta di Raikkonen fu «Questa». Quando parla del suo rapporto con i giornalisti e in generale con quel pezzo del suo mestiere che prevede interazione-comunicazione col prossimo, Raikkonen spiega che non è colpa di nessuno: «Forse non ci sono poi tante domande da fare su questo sport. [I giornalisti] potrebbero semplicemente riutilizzare le risposte, sarebbe molto più semplice per tutti». Il problema per lui non sono i giornalisti né le domande: è la ritualistica. È aspettarsi da lui ciò che è normale aspettarsi da un moderno pilota di Formula Uno. Ma lui è quello che dormiva fino a mezz’ora prima del suo esordio al volante della Sauber. Quando Nicole Kidman fu invitata a fare un giro nel box Ferrari prima del GP d’Australia del 2017, l’indifferenza di Iceman al fascino hollywoodiano dell’attrice divenne la barzelletta del paddock intero. Per settimane. Mesi. Anni. Su Youtube si trova una testimonianza dell’incontro intitolata Kimi Raikkonen meets Nicole Kidman!: vi sfido a guardarlo senza scoppiare a ridere. «Perché dovrei parlare con qualcuno solo perché è famoso?» spiegherà poi Raikkonen.
Quando il giornalista Martin Brundle gli chiese come mai lui fosse l’unico pilota assente alla cerimonia di addio alle corse di Michael Schumacher (c’era pure Pelè!) tenutasi prima della partenza del GP di Brasile del 2006, Raikkonenrispose «Stavo cagando». La risposta di Brundle fu «Allora avrai una macchina bella leggera in pista». Persino Iceman si mise a ridere. O meglio: sorrise. In realtà: ghignò. Fosse stato un altro tipo d’uomo, Raikkonen ne avrebbe approfittato per garantirsi una carriera parallela come meme di se stesso: è il protagonista di alcune delle più esilaranti conversazioni via team radio della storia della F1 moderna, contenuti degli di essere raccolti e venduti come l’album di uno stand-up comedian. Quella volta in cui si dimenticarono di dargli i guanti e montargli lo sterzo, quella volta in cui si scordarono di collegargli il drink, quella volta in cui si scordò che Bottas era in testa e continuava a chiedere che ci faceva Bottas in testa, quella volta che disse a un ingegnere «lasciami in pace, lo so quello che devo fare».
Tutte le stranezze di Raikkonen si spiegano con una frase. È la prima frase registrata dal dittafono del giornalista finlandese Kari Hotakainen, autore della biografia intitolata The Unknown Kimi Räikkönen. La frase è questa «Sarebbe bellissimo guidare in Formula Uno, però in incognito». Incuriosito, Hotakainen chiede a Raikkonen perché mai vorrebbe arrivare e rimanere dentro l’abitacolo di una monoposto F1 senza che nessuno si accorga di lui. La risposta: «Perché poi lì dentro sei finalmente da solo».