Ciccio Caputo: secondo atto

Una gavetta che sembrava infinita, poi la crescita, l'affermazione in Serie A, fino all'approdo in Nazionale: intervista a un attaccante che ha saputo diventare grande.

A Ciccio Caputo riesce tutto facile. O almeno, è questa l’impressione che se ne ricava guardandolo in campo, con la sua innata capacità nell’occupare sempre lo spazio giusto al momento giusto, e poi, spoiler, la palla finisce in rete. È successo quarantacinque volte nelle sue prime cento presenze in Serie A: solo Montella, Hubner, Pippo Inzaghi e Balotelli hanno fatto meglio. La partita numero cento nella massima serie l’ha festeggiata nello scorso gennaio contro la Lazio, dove, non c’è da sorprendersi, ha anche trovato il gol. Il Sassuolo l’ha reso protagonista, e lui ha reso protagonista il Sassuolo: è diventato uno degli attaccanti più ammirati della Serie A, ha conquistato la Nazionale italiana, ha spostato in avanti le lancette del tempo. Perché anche a 33 anni si possono raggiungere le soddisfazioni migliori di carriera. Ed essere decisivi. Del resto, la storia del campionato è piena di esempi di questo tipo: alla sua età, Del Piero e Di Natale hanno vinto la classifica marcatori, Hubner ci è riuscito a 35 anni, Toni addirittura a 38.

Eppure, per tanti anni, per Ciccio Caputo, le cose sono state tutt’altro che facili. «A 16 anni vado a fare un provino con il Grosseto. Dicono che mi vogliono, ma vitto e alloggio devono pagarlo i miei genitori. Non mi quadrava, era qualcosa di strano. Così torno a casa e dico basta: non volevo più giocare. I miei genitori non mi hanno mai fatto mancare niente, ma non eravamo una famiglia ricca: papà muratore, mamma casalinga, non me la sentivo di chiedergli una cosa del genere. Quindi decisi di mollare tutto e andare a lavorare con mio padre».

Sarebbe andata così se il suo allenatore del Toritto, dove giocava da ragazzino, non l’avesse convinto a tornare sui suoi passi. Da lì parte l’ascesa: arriva in Eccellenza con l’Altamura, la squadra della sua città, quindi in C con il Noicattaro e infine in B con il Bari. All’epoca allenato da Antonio Conte, che in un pomeriggio di ottobre decide di schierare Caputo titolare. E la sorpresa è totale: tripletta. Dopo il terzo gol, va verso la bandierina, scuote i lunghi capelli che all’epoca gli contornavano il viso, e si mette le mani in faccia, esausto, ma soprattutto incredulo. L’avversario di giornata? Il Grosseto. «Il destino è strano…».

In quel campionato Caputo segna dieci gol, decisivi nella promozione in Serie A del Bari. Ma la strada verso la consacrazione è tutt’altro che spianata: i biancorossi lo parcheggiano un altro anno in B, a Salerno, poi nel 2011 assaggia la A, trovando il tempo per segnare il primo gol contro il Cesena, ma dura poco. Torna ancora in B, ancora da Conte, questa volta a Siena, e arriva un’altra promozione. Ma la Serie A, per l’ennesima volta, resta un miraggio. Si ritrova in B in un Bari senza più ambizioni, prossimo allo smantellamento, ma continua a segnare, 26 gol in due anni. Diventa capitano e simbolo dei galletti, ma ancora una volta il destino si mette di traverso: viene condannato a un anno di squalifica dalla giustizia sportiva per calcioscommesse. La giustizia ordinaria lo assolverà con formula piena, ma nel frattempo lo spettro di mollare tutto ritorna, cupo, insidioso.

Quando torna in campo, a Bari tutto è cambiato: nuova proprietà, nuove ambizioni. E i tifosi sono sempre più impazienti. Non lo vedono più di buon occhio e, alle prime difficoltà, arrivano i fischi. Pesanti, costanti, mirati verso il capitano. «Non è facile entrare in uno stadio che inizia a fischiarti non appena stai per toglierti la casacca. Ricordo un Bari-Frosinone, entrai nel finale, sul 4-0 per noi. E mi arrivarono i fischi. Ci rimasi molto male: tornai in spogliatoio e spaccai una porta. Piangevo per la rabbia. In quel momento non ero più sicuro di continuare a giocare. Mi dissi: o smetto con il calcio, o vado via».

Ⓤ: Poi che è successo?

Andai all’Entella. Il mio obiettivo era riscattarmi. In testa avevo questa cosa: “Cazzo, ora vi faccio vedere io”. E ce l’ho fatta. Sono andato via da Bari e ho fatto, a livello di gol, 17, 18, 26, 16, 21. Non è fortuna, ci sono i numeri a dimostrarlo. Quando ho segnato contro il Bari non nego che avrei voluto esultare con rabbia, avevo quella cosa dentro: “E adesso chi ha ragione?”. Ma poi non l’ho fatto per rispetto. Resta il fatto che mi è dispiaciuto tantissimo lasciarmi così male con la piazza barese.

Ⓤ: Pensavi di arrivare prima in Serie A?

Sinceramente sì, ci speravo. Ai tempi dell’Entella ho avuto pure qualche occasione, con Crotone e Pescara. Ma non erano squadre dove sarei stato importante, che puntavano fortemente su di me. Quindi ho deciso di rimanere in Liguria, e poi mi dissi: o trovo una squadra in A, o trovo una squadra che mi porta in Serie A. Ed è andata così con l’Empoli.

Ⓤ: E ora, a 33 anni, sei una macchina da gol. In Serie A.

Più faccio gol, più ne voglio fare. Non mi accontento mai. Fino a quando avrò il fuoco dentro, voglio togliermi grandi soddisfazioni. E inseguire il sogno di diventare capocannoniere in Serie A.

Ⓤ: Quanto ha contato De Zerbi nel tuo successo?

Il mister ha un’idea di calcio che è di pochi, e il bello è che insiste con quest’idea. Ci sono allenatori che alle prime difficoltà cambiano, lui invece no. È un martello. Dice sempre: non c’è bisogno di abbassarsi dietro la linea del pallone, è peggio perché così si con-cede campo agli avversari. Invece dobbiamo andare a prenderli alti, per recuperare subito e trovarci già nella metà campo avversaria. Una volta che abbiamo il possesso, dobbiamo far girare palla da destra a sinistra, da sinistra a destra, e ancora, finché l’avversario è costretto a fare una scelta. Ed è lì che siamo pronti a colpire.

Ⓤ: Secondo te ha degli aspetti che ricordano Conte, l’allenatore che ti lanciò a Bari?

Sicuramente sotto l’aspetto mentale anche Conte era un martello. E poi entrambi hanno un carattere forte, si vede anche come vivono la partita in panchina. Sono esigenti e pretendono sempre di più, e penso che sia giusto che vogliano entrare a tutti i costi nella testa dei giocatori. È troppo importante, se non riesci a farlo i giocatori non ti seguono, e parlare non serve a niente.

Ⓤ: Te lo vedi De Zerbi in un top club?

Certo, e pure bene. Magari in allenamento può sembrare pesante, perché è un allenatore molto esigente, pretende molto, ma di lui ne sentiremo parlare, e tanto.

Ⓤ: Grazie a lui e al Sassuolo è arrivata anche la Nazionale

L’emozione della prima convocazione è stata unica. Quando mi è arrivata la notizia, ero il ragazzo più felice del mondo. Ho chiamato mia moglie per darle la notizia, che era in Puglia con i miei figli e i miei genitori, e piangevo come un bambino. Era davvero emozionante. E poi le emozioni sono tornate quando ho sentito l’inno in campo (a ottobre contro la Moldavia, nda). Ho condiviso la gioia dell’esordio con gol con la mia famiglia, che era allo stadio: è stato bello, perché mi sono sempre vicini, fanno tanti sacrifici per essere sempre con me. E volevo lasciare ai miei figli un ricordo del sogno che stavo vivendo.

Ⓤ: E ora, inevitabilmente, è arrivata pure la fama.

Ogni volta è sempre un “Ciccio di qua, Ciccio di là”. Ormai anche all’estero! E io me lo chiedo sempre: come ho fatto a meritarmi tutta questa attenzione? Forse sono simpatico alla gente, forse per il mio modo di essere, o per la mia carriera… Appena mi muovo, c’è qualcuno che mi ferma, mi parla, ora la birra, ora il Fantacalcio…

Ⓤ: Come vivi questa attenzione?

Mi piace un sacco, mi fa impazzire. Al punto che mi preoccupo: quando smetterò tutto questo mi mancherà. È una cosa che mi fa stare bene.

Ⓤ: Se ti guardi indietro, cosa pensi di quello che sei riuscito a fare?

Sono contentissimo di quello che ho fatto, non ho rimpianti, mi godo tutto, giorno dopo giorno. Chi mi conosce sa come sono fatto: sono un ragazzo che mette cuore e passione in tutto quello che fa, che ha dato sempre tutto in qualsiasi squadra, dalla Seconda Categoria alla Nazionale. Ho sempre dato l’anima, poi i gol si possono anche sbagliare, ma io sono andato sempre a testa alta, con la coscienza pulita, e questo è l’importante. Non mi sono mai abbattuto, non ho mai mollato: tutto quello che ho conquistato me lo sono guadagnato da solo, nessuno mi ha regalato niente. Questa è la soddisfazione più grande che porterò sempre con me.

Da Undici n° 37
Foto di Federico Floriani