A inizio giugno, quando Roberto Mancini ha diramato la lista ufficiale dei convocati per Euro 2020, la presenza di Giacomo Raspadori sembrava figlia di un’ossessione tutta italiana: quella per la ricerca del nuovo Schillaci o del nuovo Paolo Rossi, di un’entità salvifica a metà strada tra il wonderboy e l’eroe per caso, di un giocatore – anzi: un attaccante – potenzialmente in grado di influenzare le sorti di una manifestazione lunga poco più di un mese e, per questo, ancor più soggetta a tutto ciò che di episodico e imponderabile esiste nello sport. Come se un Mondiale o un Europeo non potessero essere affrontati (e vinti) senza la trasposizione fisica dell’uomo del destino, come se questi tornei abitassero in una realtà competitiva a sé stante dove il fato sembra prevalere su tutto il resto.
Con i fatti, poi, lo stesso Mancini avrebbe dimostrato quanto questa visione fosse abbondantemente superata, che anche la più casuale ed astratta delle componenti potesse essere dominata – o meglio, controllata – attraverso una proposta di gioco proattiva, costruita sulla tecnica in velocità, sull’aggressività, sull’esecuzione, sulla gestione del ritmo e dei momenti, sull’esaltazione delle qualità dei singoli attraverso il sistema, sull’idea che il calcio è fatto di episodi, e allora è necessario mettersi preventivamente in condizione di poterli sfruttare, di farli accadere. In virtù di questo approccio, la convocazione di Raspadori – che aveva battuto la concorrenza di Politano e, prima ancora, quella di un Moise Kean reduce dalla miglior stagione della carriera – doveva avere una spiegazione tecnica, una spiegazione di campo, delle motivazioni che andassero oltre la figura ideale e idealizzata del giocatore giusto al momento giusto: «Ha qualità straordinarie, spero che possa entrare e fare come Paolo Rossi, ma non l’ho portato solo per questo: sono convinto che in Nazionale possa fare davvero bene già in questo Europeo. Ha delle caratteristiche completamente differenti rispetto a Immobile e Belotti, e poi ha delle potenzialità importanti: lui può essere il futuro», disse Mancini in conferenza stampa prima dell’amichevole con la Repubblica Ceca.
Raspadori agli Europei ha disputato appena 15 minuti nella terza (e ininfluente) partita del girone contro il Galles. La prima da titolare in azzurro sarebbe arrivata soltanto l’8 settembre successivo, nella gara di qualificazione a Qatar 2022 contro la Lituania. Eppure il fatto che l’attaccante del Sassuolo sia ancora lì, il fatto che sia parte integrante del più importante ricambio generazionale della storia recente del calcio italiano, dimostra come il suo racconto debba andare oltre la dimensione del giovane per il futuro: Giacomo Raspadori è infatti un calciatore vero, forte, probabilmente unico nel suo genere. È un possibile pilastro all’interno di una ricostruzione tecnica proiettata nel futuro. Un futuro in cui promette di essere uno dei principali protagonisti.
Raspadori è già ora un pezzo unico. Non tanto – o non solo – perché ci sembra un predestinato, perché ha a disposizione grandi mezzi tecnici e atletici, o perché è uno dei pochi calciatori italiani che è riuscito ad affermarsi nella squadra con cui ha completato l’intera trafila delle giovanili. La vera unicità di Raspadori sta nel suo gioco, nel fatto che sia contemporaneamente un 9 e un 10, iniziatore, rifinitore e finalizzatore dell’azione offensiva. Tra l’altro, Raspadori fa tutto questo all’interno di un sistema complesso in cui la dimensione associativa e la qualità delle letture finiscono con il prevalere sull’istintività e l’immediatezza della giocata, vale a dire le caratteristiche tipiche di un ragazzo come lui, che non ha ancora compiuto 22 anni. Intendiamoci, però: Raspadori è anche quel tipo di giocatore diretto, verticale, iperattivo, instancabile, l’attaccante che deve essere alla sua età. Insomma, per dirla con una parola: è un giocatore imprevedibile nel senso letterale del termine, perché interpreta il ruolo di attaccante in maniera del tutto personale, perché incarna il cambio di paradigma sotteso al suo essere centravanti, ruolo per il quale effettivamente non avrebbe le dimensioni fisiche adeguate – 172 cm per poco più di 65 chili. Raspadori è imprevedibile perché in ogni azione può scegliere se attaccare la profondità, arrivando alla conclusione in prima persona dopo aver guadagnato spazio e tempo grazie all’esplosività dello scatto sui primi metri, oppure può spostarsi sull’esterno svuotando lo spazio alle spalle del centrale di riferimento per permettere l’inserimento dei compagni.
In questo senso il paragone più naturale, persino scontato, è quello con Sergio Agüero. Non a caso, lo stesso Raspadori ha dichiarato di ammirare «il suo modo di giocare con la squadra oltre che per il gol». Con il Kun, Raspadori condivide il baricentro basso, la contro-intuitività nella conclusione con il piede teoricamente più debole, la rapidità del primo passo in spazi stretti, la capacità di assorbire i contatti e giocare spalle alla porta massimo a due tocchi, sfruttando la sensibilità del primo controllo per ovviare al mismatch fisico con il diretto marcatore e prepararsi la giocata successiva. «Il ruolo è quello del Kun, le caratteristiche anche. Ma Giacomo non è solo bravo in area di rigore: quando si abbassa a cucire il gioco lo fa con una qualità e una classe da numero 10. Sa far giocare la squadra ed è bravo a finalizzare. Negli spazi stretti diventa micidiale. E poi ha forza, non è vero che è limitato fisicamente: l’altezza non è tutto. In campo è fastidioso, tignoso, non molla mai». Queste parole sono di Roberto De Zerbi, e l’ex tecnico del Sassuolo le ha pronunciate poco prima degli Europei, sottolineando come dietro la crescita esponenziale del suo ex pupillo ci fosse un lavoro di costruzione e “specializzazione” che mirava a risolvere – con la tecnica e i movimenti senza palla – i problemi derivanti dalla sua scarsa fisicità. La rete realizzata il 16 maggio alla Juventus, l’ultima di Raspadori nella stagione 2020/21, rappresenta perfettamente questo concetto: su un’azione che si sviluppa centralmente fronteggiando la densità di due linee da quattro negli ultimi 40 metri, Raspadori si stacca da Bonucci e va ad occupare lo spazio di mezzo alle spalle dei centrocampisti; a quel punto ruba un tempo di gioco alla successiva rotazione difensiva con la sponda di tacco per Locatelli, e poi si libera lo spazio per la successiva conclusione fronte porta di sinistro. Per far gol a Buffon gli erano bastati due contro-movimenti e tre tocchi in tutto:
Il commento di Raspadori a questo gol: «Quando sei bambino lo guardi tra i pali, poi torni a casa la sera e rivedendo gli highlights dici “cavolo, ho fatto gol a Buffon”»
In effetti si potrebbe quasi dire che Raspadori non avrebbe il fisico per giocare da centravanti, solo che lui non lo sa e ci gioca lo stesso. Come nella partita contro il Milan a San Siro, a fine aprile, ribaltata con una doppietta in sette minuti dopo essere subentrato a Defrel: il primo gol è un estratto del manuale dell’attaccante del XXI secolo, quello che si abbassa tra le linee per offrire un’ulteriore linea di passaggio e contribuisce allo sviluppo dell’azione in ampiezza, andando poi a concluderla in prima persona occupando in anticipo lo spazio libero all’interno dell’area di rigore che lui stesso aveva creato sul primo movimento – in questo caso con un tap-in in controtempo, facile solo in apparenza. In occasione del secondo gol, invece, riemerge la componente istintiva dell’attaccante di razza che si sublima in due giocate fatte alla velocità della luce: il primo controllo “higuainesco” che toglie a Tomori il tempo dell’intervento; la conclusione a incrociare sul palo più lontano, in modo da lasciare immobile anche Donnarumma, un portiere felino per ciò che riguarda i tempi di reazione nell’andare a terra. «La completezza è importante, De Zerbi mi ripete spesso che in campo bisogna saper fare tutto», dichiara al termine della gara che lo mette definitivamente sulla mappa della Serie A.
«La doppietta a San Siro contro il Milan alla mia età fai fatica a sognarla, quando ci ripenso il cuore batte più forte» dirà un mese dopo a Sportweek
Quello relativo alla multidimensionalità è l’altro grande filtro narrativo utilizzato per spiegare Raspadori, per elencarne pregi, difetti, limiti, potenzialità. Nel suo caso si tratta di un filtro essenzialmente critico: secondo alcuni, infatti, questo suo saper far tutto, questa sua naturale inclinazione ad uscire dall’area di rigore per facilitare le connessioni tra i reparti e consolidare il possesso, gli impedirebbe di specializzarsi ulteriormente, di lavorare sulle sue qualità di finalizzatore puro. Qualità che, comunque, sono già emerse in alcuni momenti della scorsa stagione, per esempio la gara contro il Genoa a Marassi – movimento ad attaccare lo spazio tra i due centrali e piatto destro sul palo lungo mentre il portiere aveva già spostato il peso per tuffarsi dalla parte opposta – e in occasione del 2-2 interno contro la Roma – controllo e girata in caduta all’interno dell’area piccola. Pensare, perciò, che il gioco a tutto campo di Raspadori sia una condizione ostativa sulla strada per diventare un centravanti d’élite, o il motivo per cui segna ancora troppo poco, vuol dire aver capito poco di lui: è propri questa sua qualità ad averlo reso il giocatore che è oggi, un attaccante in grado di avere un impatto in squadre costruite sui principi del gioco di posizione e che puntano al controllo delle partite attraverso il possesso palla, al dominio del campo attraverso l’occupazione preventiva degli spazi alle spalle delle linee di pressione.
Una di queste squadre è la Nazionale di Roberto Mancini, che avrebbe bisogno esattamente di un centravanti con le sue caratteristiche. Per aspirare davvero a essere la prima punta dell’Italia, però, Raspadori dovrà effettivamente lavorare sull’incisività e sulla continuità sotto porta – col Sassuolo, finora, ha segnato solo nove gol in 45 presenze ufficiali. È ciò che gli manca per diventare un attaccante di culto, e ha tutti i mezzi per fare questo ultimo, decisivo passo in avanti. Se davvero ci riuscisse, il calcio italiano potrebbe avere finalmente a che fare con un attaccante antico e moderno, efficace e tecnico, letale e funzionale a un certo tipo di gioco. Tutti, anche i più scettici, dovrebbero per forza innamorarsi di lui. Sarebbe ora, sarebbe bello, e in fondo sarebbe anche giusto.