Perché ci sono sempre meno talenti sudamericani in Europa?

Non è solo una questione di gap economico, ma anche di metodo e idee: strategie antiche, così come dirigenti e procuratori oscuri, stanno frenando lo sviluppo del calcio sudamericano.

«Il divario tra campionati europei e campionati sudamericani è troppo ampio, è quasi impossibile per il Sud America raggiungere il livello dell’Europa». La frase è dell’allenatore del Leeds, Marcelo Bielsa, estrapolata da un’intervista concessa a Sky Sport Uk la settimana scorsa. Il tecnico argentino riflette sulle vene aperte di un’America Latina calcistica che, negli ultimi vent’anni, ha perso ulteriore terreno rispetto al movimento europeo, pur non potendo fare a meno di una quotidianità scandita dai risultati delle partite, da una relazione viscerale con il gioco, da un’epica futbolera da bestseller o da kolossal. La critica di Bielsa non è un fulmine a ciel sereno: il gap tra Europa e Sud America è ampio come in pochi altri momenti della storia, e sta crescendo anno dopo anno. I risultati delle nazionali sono un buon punto di partenza: l’ultima vittoria ai Mondiali di una formazione non europea è del 2002, era il Brasile di Ronaldo, Rivaldo, Cafù e Roberto Carlos. Già nel 2006 le quattro semifinaliste erano tutte europee, e nel 2018 sei delle otto squadre ai quarti erano del Vecchio Continente. L’ultima finalista sudamericana in un Mondiale è stata l’Argentina nel 2014.

Nella sua intervista, Bielsa dice: «I campionati sudamericani stanno portando sempre meno giocatori in Europa», alludendo a una minor competitività delle giovani generazioni di calciatori colombiani, cileni, argentini e brasiliani. El Loco non critica i singoli giocatori – non avrebbe senso – ma l’incapacità dei club nel ragionare in prospettiva, sviluppare il talento e valorizzare i giovani a disposizione: i talenti veri che arrivano in Europa dal suo subcontinente somigliano sempre più gemme rare all’interno del calciomercato globale, che nel frattempo sta battendo altre strade.

Poco prima della pandemia che ha stravolto l’economia del calcio, l’Economist aveva pubblicato un’analisi sul peso economico dei giocatori sudamericani in Europa: «Tra il 2000 e il 2009 ogni anno l’11% dei 100 trasferimenti più costosi coinvolgeva squadre sudamericane. Tra il 2014 e il 2019 quel numero è crollato al 3%. In questi anni le squadre europee hanno avuto ricavi crescenti, grazie ai diritti tv e agli sponsor, che hanno permesso di battere i record di spesa sul mercato stagione dopo stagione, ma quella ricchezza si è allontanata dall’America Latina». Rotte diverse del mercato che hanno indebolito club già impoveriti dalla situazione economica degli Stati sudamericani: le difficoltà delle società sono un riflesso delle condizioni economiche di nazioni con livelli di Pil bassissimi o finanze squilibrate, come quella del Brasile.

Un’altra frase interessante di Bielsa: «I giovani sudamericani lasciano i loro Paesi d’origine troppo presto, se compri un giocatore di 15 anni rischi di frenarne la crescita». Se entrano meno soldi nelle casse dei club sudamericani è anche perché i giocatori vanno via prima rispetto al passato: se si considerano i primi 250 trasferimenti di ogni stagione, la quota di sudamericani Under 21 che sbarcano in Europa è passata dal 24% nel 2000-04 al 37% nel 2015-19. Una trasformazione figlia di due esigenze: da una parte la necessità dei club sudamericani di fare cassa per sopravvivere; dall’altra c’è il risparmio dei club europei che acquistano giocatori più lontani dalla maturità calcistica per pagarli meno. In questo modo l’Europa sposta il rischio dal piano economico (spesa minore) al campo (un teenager è diverso da un giocatore già formato). Merito anche dell’evoluzione dei meccanismi di scouting, che hanno permesso di intercettare e prevedere il talento con maggiore anticipo e maggiore accuratezza.

Acquistare i giovani sudamericani in età più verde, per i club europei, significa anche avere la possibilità di guidarne lo sviluppo secondo direttrici diverse da quelle che avrebbe in Sud America.  È una motivazione strettamente calcistica che aveva espresso perfettamente l’attuale allenatore della nazionale honduregna, Fabián Coito, in un’intervista ad As: «Qui ci si basa molto sulle capacità individuali del calciatore, su un gioco fatto di duelli uno contro uno, l’imprevedibilità che il sudamericano ha ormai introiettato. In Europa invece si gioca un calcio più collettivo, che noi sudamericani dovremmo essere bravi a importare per tornare importanti». Se è vero, infatti, che il calcio europeo è sempre più dominato da squadre con un’identità chiara e un collettivo capace di andare oltre la somma dei singoli, importare calciatori da contesti più individualistici sarà sempre più difficile.

Negli ultimi anni il calcio europeo ha anche imparato a sviluppare in casa, in maniera sistemica e programmata – per quanto possibile – i giovani talenti di cui ha bisogno. Le società più ricche si sono strutturate, hanno allestito settori giovanili articolati e profondi, spesso anche in collaborazione con federazioni che hanno saputo ritagliarsi un ruolo di rilievo con i loro centri di formazione: si pensi al modello francese o al modo in cui Inghilterra, Belgio e Germania hanno rivoluzionato i loro metodi di lavoro negli ultimi vent’anni. In questo si nota ancor di più l’inadeguatezza politica delle federazioni nazionali sudamericane, che negli anni si sono rivelate un freno che una spinta per i movimenti calcistici locali.

Il caso di Gérson è emblematico: acquistato dalla Roma nel 2016, quando aveva solo 19 anni, non è riuscito a imporsi nel calcio europeo e ha preferito tornare in Brasile, al Flamengo, dove ha vinto tutto il possibile. Nell’ultima finestra di mercato il Marsiglia l’ha riportato in Europa, versando 25 milioni alla squadra carioca (Johnny Fidelin/Icon Sport via Getty Images)

Prendiamo l’Argentina che ha vinto l’ultima Copa América, ed è anche l’ultima finalista mondiale proveniente dal Sud America: alla morte di Julio Grondona, nel 2015, la federazione rimase per mesi senza un vero presidente. D’altronde Grondona era salito in carica nel 1979 e aveva gestito l’Afa senza immaginare un futuro dopo di sé, senza guardare al suo successore. Alle elezioni del 2017 si arrivò al paradossale conteggio di 76 voti su 75 votanti. Intanto in quel periodo, fino all’arrivo di Lionel Scaloni, gli allenatori accettavano e abbandonavano il ruolo di direttore tecnico della nazionale nei momenti meno opportuni. Non a caso in quei mesi confusi Daniel Lagares, in un editoriale sul Clarín, aveva riassunto in poche parole lo stato del movimento calcistico del suo Paese: «Benvenuti alla morte del calcio argentino». Il caso dell’Argentina non è poi così distante da quello di altre nazioni. Quando Bielsa dice che purtroppo in Sud America «i cartellini dei giocatori non appartengono alle squadre per cui giocano» probabilmente ha in mente il Brasile, in cui circa l’80% dei cartellini dei calciatori professionisti è in mano a fondi speculativi che li spostano a piacimento da un club all’altro per lucrare sulle commissioni. Argentina e Brasile sono solo due esempi, ma sono anche i due mercati più grandi, più ricchi e storicamente più floridi del calcio sudamericano.

Non mancano eccezioni alla regola, perfino gestioni illuminate. Un anno fa, qui su Undici, avevamo raccontato gli esempi di chi stava provando ad aggiornare il calcio nel subcontinente partendo soprattutto dalle contaminazioni con l’estero. Lo ha fatto Jorge Jesus nella sua parentesi al Flamengo, o il giovanissimo Tiago Nunes al Corinthians; ma anche gli argentini hanno saputo farsi strada oltre la retorica della scuola bielsista con una nouvelle vague segnata da Marcelo Gallardo, Gabriel Heinze, Hernán Crespo. Allenatori anche molto diversi tra loro, ma che hanno saputo portare le loro squadre a un livello successivo partendo dal lavoro sul campo, dalla costruzione di sistemi di gioco proattivi, che provano a vincere dominando ogni singola partita, da un rapporto privilegiato con il pallone, da un’intensità che a certe latitudini non si vede sempre. Un modo per colmare il gap tra Sud America ed Europa con metodo e idee, nella speranza che il Vecchio Continente possa poi diventare il destino dei loro giocatori. Il quadro generale è quello di un calcio sudamericano che annaspa, soffoca tra esigenze economiche stringenti e metodi di lavoro perlopiù antiquati. L’esistenza di casi isolati validi, futuribili, replicabili, fa pensare che forse la speranza di riportare i talenti argentini e brasiliani ai massimi livelli anche sui grandi numeri, non è ancora tramontata.