Nelle pagine iniziali del suo libro 10+ Il mio mondo in un numero, Alessandro Del Piero racconta come le giocate migliori della sua carriera siano arrivate «in quei momenti di profonda solitudine in cui stai per fare una cosa e i tuoi avversari non sanno cosa farai, i tuoi compagni non sanno cosa farai, e soprattutto non lo sai ancora neanche tu». Si tratta dell’esaltazione della componente individuale, anzi individualista del calcio, dell’attimo in cui l’essenza del campione si concretizza in un colpo perfetto e inaspettato, in cui il talento si manifesta all’interno di una congiunzione spazio-temporale ideale e astratta, totalmente staccata da una realtà di campo logica, prevedibile, standardizzata. Una sorta di limbo in cui «quell’attimo di solitudine diventa un vantaggio immenso, perché puoi liberare l’istinto e fare quello che devi mentre nessuno sa cosa sia, nemmeno tu. Diventi quello che fai, per così dire, sparisci nel tuo gesto».
Il gol segnato da Lorenzo Pellegrini all’Hellas Verona – che per meccanica ed esecuzione richiama quello realizzato da Amantino Mancini in un derby del 9 novembre 2003 – non è solo la rappresentazione plastica e tangibile di questo concetto, ma è anche il probabile punto di svolta nella carriera del centrocampista della Roma: la ripetitività di certi momenti abbaglianti ha progressivamente cambiato la percezione sulla reale dimensione di Pellegrini, che oggi non è più solo un ottimo giocatore di sistema, piuttosto un giocatore che quel sistema lo fa funzionare, che a quel sistema riesce a dare forma, sostanza e concretezza, decidendo le partite grazie alla sua creatività realizzativa.
In questo senso i gol di Pellegrini sono filosoficamente molto simili ai gol di Quagliarella, difficili da pensare prima ancora che da fare, eppure sono replicabili, sono parte integrante di una memoria muscolare e di un’istintività primordiale che rendono del tutto plausibile, per certi versi persino naturale, colpire di tacco di controbalzo e in controtempo un pallone che Karsdorp non era probabilmente riuscito ad alzare a sufficienza, chiudendo l’azione che lui stesso aveva iniziato.
Proprio la naturalezza di un’esecuzione forzata che Pellegrini ha dovuto improvvisare a causa delle contingenze – il campo bagnato, il passo con cui aggredisce lo spazio aspettandosi un passaggio per una conclusione di collo torcendo la caviglia, il rimbalzo all’ultimo momento che cambia tempo e luogo d’impatto con il pallone – costituisce l’aspetto più significativo della componente estetica: per quanto sia stato costretto a calciare in quel modo, l’elasticità e l’eleganza del gesto hanno fatto in modo che tutto sembrasse il risultato di una decisione autonoma di Pellegrini, che tra tutte le opzioni disponibili si era semplicemente limitato a scegliere la più bella, quella che stupisse di più, non solo la più funzionale, la più efficace.
Segnare non è mai stato un problema per Pellegrini – 37 gol in 159 presenze in carriera. Segnare gol così belli, segnarli così spesso, è ciò che oggi lo pone su un piano diverso rispetto agli altri e che permette di inquadrare e raccontare la sua evoluzione tattica, tecnica, psicologica. È la descrizione di un singolo attimo: quello in cui Pellegrini, appunto, “sparisce nel suo gesto” per poi riapparire nell’esultanza che celebra l’estetica al servizio dell’utilità, il saper pensare l’inaspettato, l’impossibile, l’eccezione che diventa regola. Ancora e ancora.
vs Milan (02/10/2016)
Prima di evolversi in un trequartista dagli spiccati istinti verticali con Di Francesco prima e con Mourinho poi, Lorenzo Pellegrini sembrava destinato a un brillante futuro da mezzala box-to-box in grado di esercitare la sua influenza su una porzione di campo molto più ampia: lui stesso, in questa intervista al Corriere della Sera di quasi un anno fa, ha detto che «il mio ruolo naturale è la mezzala». Per questo quello visto al Sassuolo nella stagione 2016/2017 – la seconda migliore in termini realizzativi: otto gol in 34 partite – è probabilmente il Pellegrini originale, per certi versi quello più vero, quello con la volontà e le potenzialità di dominare tecnicamente la partita, di imporre il suo ritmo indipendentemente dalla posizione di partenza. Come, ad esempio, in questo gol al Cagliari in cui, dopo aver ricevuto alle spalle della linea di pressione strappa palla al piede in conduzione entrando dentro il campo e cambiando tre volte passo all’interno della stessa azione, prima di calciare di collo-interno, forte e radente.
È però la rete realizzata al Milan nel pirotecnico 4-3 di San Siro quella che racconta come, all’epoca, Pellegrini orientasse lo sviluppo dell’azione nell’ultimo terzo di campo attraverso i suoi movimenti con e senza palla e la pulizia di esecuzione in ogni fondamentale. Qui vediamo Lirola che rinuncia a un comodo appoggio su Politano isolato in uno contro uno contro De Sciglio per permettere a Pellegrini di attaccare lo spazio che si era creato tra le linee di centro campo e difesa: dopo aver valutato la situazione, Pellegrini accelera, chiede ed ottiene da Defrel la pared a due tocchi, sbilancia Gustavo Gómez con una finta di corpo e chiude con il sinistro sul palo lungo anticipando il tuffo di Donnarumma. Dal replay si può apprezzare come la qualità del primo controllo sul tocco di ritorno di Defrel permetta a Pellegrini di accorciare i tempi della battuta a rete, togliendo il tempo di intervento sia a Gómez che allo stesso Donnarumma:
vs Danimarca (18/06/2017)
Il 30 giugno 2017, giorno del suo personale ritorno a casa dopo i due anni in prestito al Sassuolo, Pellegrini rilascia un’intervista al sito ufficiale della Roma in cui ricorda che «da piccolo ero punta e mi piaceva, ero il più alto di tutti e segnavo sempre». Si tratta di un dettaglio non trascurabile e che spiega come le qualità realizzative di Pellegrini siano figlie di una predisposizione naturale alla finalizzazione, di un’abitudine fisica ma soprattutto mentale, della capacità sua di pensare come un attaccante prima ancora che di muoversi e agire come tale all’interno dell’area di rigore.
Due settimane prima di quell’intervista Pellegrini aveva realizzato il gol più bello della sua giovane carriera, nella prima partita dell’Italia Under-21 contro la Danimarca agli Europei di categoria: su cross dalla sinistra di Bernardeschi, la palla si impenna ulteriormente dopo un contrasto aereo tra Benassi e Rasmussen, complicando il successivo rinvio di Banggard che, infatti, colpisce male di testa e fa finire la sfera proprio nella zona occupata da Pellegrini. Dal replay frontale si intuisce come l’azzurro, già pronto a correre all’indietro, quasi conti mentalmente i passi necessari per ricoordinarsi mentre tiene gli occhi fissi sul pallone in caduta: il risultato è una sforbiciata praticamente perfetta dal punto di vista biomeccanico, con la sfera colpita di collo pieno, all’altezza ideale per conferire ad un calcio che è comunque spalle alla porta la giusta dose di potenza e precisione. Un gol del giocatore che si trova al posto giusto nel momento giusto, da attaccante vero, appunto. Come quest’altro realizzato al Torino in cui quasi non ha bisogno di toccare un pallone che sa già dove finirà. L’Italia – che aveva in rosa i futuri campioni d’Europa Chiesa, Berardi, Donnarumma, Locatelli e Bernardeschi – vincerà quella partita e avanzerà fino alla semifinale, eliminata dalla Spagna di Saúl, Asensio e Marcos Llorente.
vs Lazio (29/09/2018)
Il gol emotivamente più importante della carriera del Pellegrini romano e romanista – «Per un romano è normale sentire il peso del derby: insieme alle tue vivi le tensioni di tanti amici e dei familiari tifosi. Però è anche un vantaggio: io vivo lo spogliatoio in maniera sentimentale e con questa maglia mi sento a casa», dirà Lorenzo nella già citata intervista al Corsera – è quello che, complice il primo di una lunga serie di infortuni di Pastore, gli consegna le chiavi del sistema offensivo della Roma di Di Francesco, di cui diventa il trequartista titolare in un 4-2-3-1 dinamico e verticale adottato per ovviare a un inizio di stagione da cinque punti nelle prime cinque partite di campionato.
Parliamo anche in questo caso di un gol di tacco in cui l’esecuzione, pur originando ugualmente dalla necessità e dal contesto, si differenzia da quello al Verona per la mancanza della componente contro-intuitiva dettata dalla possibilità di poter scegliere tra un giocata conservativa o un’altra più rischiosa. Dopo il rimpallo tra Strakosha, Luiz Felipe ed El Shaarawy, e il mancato intervento di Cáceres, Pellegrini è girato spalle alla porta vuota, è circondato da quattro laziali e può colpire solo in quel modo per segnare. L’assenza di una scelta più logica, più prevedibile, più semplice, sembra perciò contraddire quell’idea di estetica pellegriniana per cui un gol è tanto più bello quanto più sembra che Pellegrini possa fare qualcos’altro di più facile. Eppure secondo il diretto interessato si era trattato comunque di «un gesto di puro istinto, forse anche di incoscienza. Mi sono ritrovato il pallone tra i piedi e non ci ho pensato due volte. Se avessi tirato fuori forse nessuno me l’avrebbe perdonato».
vs CSKA Sofia (16/09/2021)
La centralità di Pellegrini nella Roma di Mourinho è una questione numerica – sei gol nelle prime sette partite stagionali (tutte disputate da titolare), centrocampista più prolifico dei cinque maggiori campionati europei, impiegato nel 98% dei minuti complessivi – e dialettica – «Se avessi tre Pellegrini li farei giocare tutti e tre», ha detto recentemente il tecnico portoghese. Ma è anche una necessità pratica, visiva, di campo: guardarlo con la fascia di capitano al braccio mentre incide come mai prima nell’ultimo terzo di campo aiuta a comprendere quanto Mou abbia fatto bene a sceglierlo come arma offensiva totale, anche perché il destino della sua Roma è legato a doppio filo alla capacità dei suoi trequartisti di occupare gli spazi in transizione e far progredire l’azione in verticale nel più breve tempo possibile. La scelta di Mou di avvicinare Pellegrini alla porta, rinunciando parzialmente a quella multidimensionalità che è sempre stata uno dei suoi punti di forza, ha permesso a Lorenzo di specializzarsi, di concentrarsi su quegli aspetti del suo gioco che gli consentissero di essere più incisivo e continuo all’interno della stessa partita. Gli ha dato nuova consapevolezza di sé, e dei suoi mezzi, che si traduce in nella leggerezza di ogni singolo movimento, nella sicurezza e nella tranquillità con cui azzarda le giocate più complesse per concetto ed esecuzione.
Il gol al CSKA Sofia in Conference League, che precede di tre giorni l’arabesco del Bentegodi, è la fotografia perfetta di come e quanto Pellegrini sia in the zone, in uno stato di grazia psico-fisico tale da trasformare un pallonetto “a giro” contro un portiere nemmeno così fuori dai pali in una conclusione ad alta percentuale, quindi in qualcosa di opposto alla sua reale natura. Dopo il controllo ad ammortizzare il pallone calciato da Karsdorp da destra, Pellegrini fa perno sulla sua gamba sinistra e senza muoversi dalla posizione di partenza, calcia – anzi sarebbe meglio dire “struscia” – con l’interno del piede destro in modo che la sfera aggiri la mano di richiamo di Busatto già proteso in tuffo. L’esultanza minimale, in parte dovuta al contesto sonnolento da giovedì sera della terza coppa europea, che quasi anestetizza una perla balistica così rara, viene riscattata dal genuino entusiasmo che Pellegrini dimostra nel post gara: «La fiducia di Mourinho mi ha aiutato moltissimo, posso solo dirgli grazie. Questo è solo l’inizio, deve continuare a farmi e farci crescere; quest’anno a Trigoria c’è qualcosa di speciale e la nostra crescita non deve terminare se vogliamo vincere qualcosa».