Nessuno riesce a capire Kyrie Irving

La controversia sui vaccini è solo l'ultimo episodio di una carriera vissuta tra grandezza e follia.

I Brooklyn Nets hanno un problema, e questo problema è Kyrie Irving. Essendo l’uomo in questione fatto della stessa materia di cui sono fatti i paradossi, Irving riesce a essere allo stesso tempo una cosa e anche il suo contrario: è un problema la sua assenza, ovviamente, ma è un problema anche la sua presenza. Un imbarazzo, quantomeno. Questa sera comincia la Nba 2021/2022, nella partita inaugurale i campioni in carica dei Milwaukee Bucks affrontano i Nets. È l’inizio di una stagione diversa a Brooklyn, è la fine di un percorso che ha portato i Nets sulla soglia della grandezza, è l’anno in cui le parole devono diventare fatti, cioè titoli: «Siamo i Big 15», disse Kevin Durant lo scorso maggio dopo una vittoria contro i Cleveland Cavaliers. L’intento di KD era buono (riconoscere meriti, fatica e talenti ai compagni che non sono Harden e Irving), le conseguenze furono ovvie: allora per voi vincere sarà cinque volte più facile di tutte le altre squadre che di big se ne sono potuti permettere al massimo tre, rispose il coro della pallacanestro americana. Il discorso attorno ai Nets non può che essere questo: a team that lives under the media microscope è per ora l’unico titolo che si sono guadagnati.

Sotto la lente d’ingrandimento adesso c’è Irving, che questa sera non sarà in campo, né in panchina, né al Barclays Center. I Nets saranno dunque i Big 14, per questa notte e per tutte le notti che verranno «finché non sarà pienamente a disposizione». Parole del general manager dei Nets Sean Marks, al quale è toccato l’onere di chiarire la situazione dopo mesi di voci di corridoio. Irving ha deciso di non vaccinarsi e nello Stato di New York questo significa che non può entrare al Barclays Center quando lì si tiene una partita Nba. Può andarci per gli allenamenti, e la situazione è talmente complicata che a coach Steve Nash è toccato dire che questa è «una buona notizia». Meno buona è la notizia che Irving, se le cose rimanessero come sono oggi, salterebbe le 41 partite casalinghe dei Nets e le due da giocare al Madison Square Garden contro i Knicks. Tecnicamente Irving può giocare in trasferta (solo a San Francisco e L.A. c’è una legge simile a quella newyorchese, ma vale per i Golden State Warriors e per i Los Angeles Lakers, non per i loro ospiti) ma, appunto, non lo farà finché non sarà pienamente a disposizione. È una situazione in cui perdono tutti: i Nets, per ragioni ovvie a chiunque abbia mai visto giocare la number 1 pick al draft del 2011, e Irving, per ragioni evidenti a chi conosce il giocatore oltre il ritratto macchiettistico che se ne è fatto negli ultimi anni (con un contributo di numerose pennellate da parte dello stesso Irving).

Quindici milioni di dollari sono un sacco di soldi, e sono solo una parte del prezzo che Irving pagherà – fino a quando non si sa – per la sua decisione di non vaccinarsi. Da contratto Irving guadagna intorno ai 363.000 dollari a partita, e 363.000 x 43 fa quindici milioni e spiccioli. Per le partite in cui sarebbe tecnicamente a disposizione (le trasferte) i Nets hanno deciso di pagarlo, o meglio: la lega ha detto loro che devono pagarlo. Poi c’è tutta la questione degli sponsor: Irving ha un accordo con Nike che gli vale circa undici milioni di dollari all’anno, ma vista la situazione l’azienda potrebbe ricorrere alle famigerate reduction clauses. Insomma, ci sono in ballo un sacco di soldi ma il problema non è solo né tanto questo.

In una diretta Instagram fatta dopo la decisione dei Nets di escluderlo (almeno) dall’inizio della stagione 2021/2022, Irving ha detto che ovviamente perdere tutti quei soldi è un problema. E perdere una stagione che potrebbe essere quella dei Nets campioni del mondo, anche questo è un problema. E perdere il rapporto con i compagni assieme ai quali «sono cresciuto, ho imparato, ho capito che in questo ambiente ci vuole sacrificio», pure questo è un problema. Però, con la stessa calma che una volta è presa per scemenza, un’altra per paraculaggine e un’altra ancora per indifferenza, Irving ha anche spiegato che «È la mia vita. Posso farci quello che voglio. È il mio corpo e voi mi state dicendo cosa fare con il mio corpo». E che «Tutto questo ha a che fare con ciò che sta succedendo nel mondo. E io mi sento coinvolto in una cosa che è più grande del gioco del basket». E che «Queste sono convinzioni che ti devi costruire da solo. Ci perderò dei soldi, ci perderò e basta, mi dicono. E allora? Il punto non sono i soldi. Il punto è scegliere quello che pensi sia meglio per te stesso».

È lo stesso discorso che sentiamo e facciamo ormai tutti i giorni, tutto il giorno, tutti quanti. Che la cosa tocchi anche la vita e la carriera di una superstar Nba dimostra solo l’onnipresenza della discussione: dove finiscono i doveri e iniziano i diritti – o viceversa, a seconda della formulazione che meglio si adatta alla vostra opinione sulla faccenda – e di cosa è fatto il confine tra gli uni e gli altri. Non saremo né Irving né, soprattutto, io a trovare la risposta a una domanda che sta facendo sembrare stupide persone assai più intelligenti, infinitamente più istruite. «I’m just a hoop player», dice lui a un certo punto della sua diretta Instagram. E io non sono manco quello, quindi figuriamoci.

Kyrie Irving si è trasferito ai Brooklyn Nets nel 2019; prima ha militato nei Boston Celtics e nei Cleveland Cavaliers, con cui ha conquistato il titolo Nba nel 2016 (Al Bello/Getty Images)

Da ragazzino Irving era stato soprannominato squirrel boy (ragazzo scoiattolo) dai suoi compagni di squadra alla St. Patrick High School, in New Jersey. Le sue stranezze hanno sempre portato, quasi costretto, gli altri a sottovalutarlo. Il primo giorno alla St. Patrick era vestito in maniera così stramba che i suoi compagni pensavano fosse uno scherzo: la divisa scolastica era di almeno due taglie più grande, il gilet veniva da chissà quale altro ensemble ma sicuramente non da quello della scuola, al polso sinistro aveva non uno ma due orologi Casio G-SHOCK. Tutti lo sottovalutarono pensando fosse «solo uno scemo», come disse Chase Plummer, il compagno di squadra incaricato da coach Kevin Boyle di guidare il nuovo arrivato in un tour della scuola. Alla fine del primo allenamento, l’opinione generale era cambiata. «Fu fantastico» e «faceva cose che non avevamo mai neanche visto», diranno poi i suoi compagni dell’epoca. Non era solo uno scemo ai tempi e non è solo un giocatore di pallacanestro adesso. Oggi è facile ridurre Irving alle assurdità che ci ha detto lui o che di lui ci hanno raccontato: la terra è piatta, i dinosauri non sono mai esistiti, sulla Luna non ci siamo mai andati, la NASA non ha nessuna intenzione di andare su Marte ma continua a ripeterlo perché vuole propinarci a narrative, JFK fu ucciso perché aveva firmato l’ordine di sciogliere il “cartello bancario internazionale”, i film sugli alieni non sono frutto della fantasia ma delle esperienze personali degli autori. Solo uno scemo, certo, e finché resta solo un giocatore di pallacanestro, poco male.

Ma il basket Nba ormai è più di un gioco e gli hoop player sono più che atleti. Irving lo sa e si vede. Si vede nella reazione di coach Steve Nash, che ha dovuto fingere di «non aver visto» la diretta, evidentemente stizzito da tutta questa fanfara attorno al giocatore che quando lui fu scelto come allenatore commentò la notizia dicendo che secondo lui i Nets non aveva poi tutto questo bisogno di un allenatore. Si vede nel fatto che Irving non si è nemmeno sforzato di trovare una scusa come ha fatto Andrew Wiggins, che ha provato a evitare la puntura giocando la religion card. Si vede nel modo in cui pone quella domanda: «I’m just a hoop player, right?», che è anche il momento in cui si capisce che è sincero perché la vendetta lo è sempre: ce l’ha con la Nba e con il basket, con la lega e lo sport che gli hanno negato lo status che sente e sa di meritare. Anche lui si è speso nella lotta contro il razzismo istituzionale e la police brutality (ha anche prodotto un documentario sulla morte di Breonna Taylor), e i media lo stesso gli hanno tirato le pietre. Ha ritrovato parte della sua discendenza nativa, lasciatagli dalla madre Sioux: ha pure detto a Nike di farci delle scarpe, e i media lo stesso gli hanno tirato le pietre. Durante la prima ondata della pandemia ha donato un milione e mezzo di dollari per aiutare a pagare gli stipendi delle giocatrici WNBA che non potevano o non volevano giocare a rischio della loro incolumità, e i media lo stesso gli hanno tirato le pietre. LeBron James ha passato gli ultimi mesi a traccheggiare sul vaccino, e lui, invece, resta il candidato Nba alla Casa Bianca. Everybody hates Kyrie, a quanto pare. A lui, quantomeno.

A gennaio scorso Stephen A. Smith, il co-conduttore di First Take su Espn, disse che Irving avrebbe fatto meglio a ritirarsi: «He’s not worth the drama at all». Fu solo l’ultima spiacevolezza di una vita sotto la lente d’ingrandimento alla quale Irving non si è mai davvero adattato, una sovraesposizione mediatica che vive come persecuzione, a life under the microscope che è valsa l’etichetta di “mentalmente fragile” a un giocatore che si è preso il tiro che valeva un titolo. Una volta disse che a lui del Natale non importava poi granché, ma comunque gli piaceva giocare la partita del 25 dicembre e fare i regali e stare con la famiglia. La reazione fu quella che ci si aspetterebbe se il Grinch dichiarasse fedeltà allo Stato Islamico. Durante la discussione all’interno dell’associazione dei giocatori su come organizzare la vita dentro la bolla di Orlando, su Espn uscì un pezzo che descriveva Irving come disruptive: preoccupato dalla possibilità di stare con la squadra anche da infortunato, dal cibo e dalle bibite che sarebbero state servite, dalla possibilità di fare la sauna e di tifare per i Nets dagli spalti. A dicembre del 2020, dopo una sessione di allenamento, Irving si rifiutò di parlare con i giornalisti, violando la Media Policy della Nba. Venticinquemila dollari di multa e un post su Instagram che si conclude con «Non parlo con le pedine. La mia attenzione vale di più».

Tornando sull’accaduto, Irving diede una spiegazione che vale ancora oggi: «C’entra come mi sento riguardo al maltrattamento di certi artisti quando arriviamo a certe piattaforme e prendiamo decisioni nelle nostre vite in modo da avere pieno controllo e proprietà». Certo, non si capisce nulla a meno che non si sappia che Irving usa la parola “artista” per descrivere se stesso. Chi lo conosce lo sa che ci tiene: Durant è un suo carissimo amico e ogni volta ripete che «[Irving] È un artista, va lasciato libero». I suoi compagni lo sanno: una volta, durante un servizio fotografico dedicato ai Nets, Irving decise che non si sarebbe tolto il cappello. E non lo tolse: alla fine il fotografo fu costretto a cancellarlo in post-produzione. Sono i suoi leggendari mood swings, sono sempre quelli ma il mondo attorno nel frattempo è cambiato. La questione-Irving riguarda lui solo relativamente, alla fine. La questione-vera è cosa facciamo con persone che abbiamo fatto ascendere a più che atleti (e quindi a più che uomini) in un momento storico in cui a tutti si chiede – e in certi casi si pretende – di essere solo bravi cittadini. Nel più rivelatore dei passaggi di quella diretta Instagram, Irving a un certo punto parla di ciò che è il basket per gli altri: una religione, un culto. Ma lui non si dichiara né profeta né dio: «Sono solo un uomo», dice con la faccia di chi sa che non è vero.