Xavi oltre la retorica

La scelta del nuovo allenatore del Barcellona non è solo una mossa di marketing, ma rappresenta un filo rosso calcistico che parte da Cruijff e passa per Guardiola.

Xavi nuovo allenatore del Barcellona è la notizia, ma la verità è che Xavi, in un certo senso, torna a essere l’allenatore del Barcellona. È l’unica maniera, questa, di riconoscere il ruolo di Xavi nella storia recente dei blaugrana: non stava solo in campo e non era solo un centrocampista. Quando penso al Barcellona (non c’è nemmeno bisogno di indicare un punto nello spazio-tempo, per la mia generazione il Barcellona è quel Barcellona), a Guardiola, a Xavi, al rapporto tra l’uno, l’altro e l’altro ancora mi viene in mente Hugo Cabret: Pep è l’inventore, il Barça è l’automata e Xavi è la chiave a forma di cuore, il pezzo senza il quale la macchina esiste ma non funziona. La chiave e il cuore, l’oggetto che accende una cosa inanimata e l’organo che segna il tempo di una vita. Con tutti gli altri – Messi compreso – ma senza Xavi, il Barcellona sarebbe un Barcellona. Forte, ma forte e speciale son cose diverse come esistere e vivere sono cose diverse: quella squadra ha vissuto allora ed è per questo che esiste ancora adesso, è per questo che l’arrivo di Xavi nel ruolo di head coach dà la sensazione che danno gli occhi quando si fermano sul bianco che avanza nell’ultima pagina di un capitolo prima di spostarsi sulle parole del successivo.

Parlare di Guardiola per parlare di Xavi è imbarazzante ed è inevitabile ed è giusto: il rapporto tra i due è questo, è così. Magari per Xavi è fastidioso – immagino lo sia, l’uomo è di quelli orgogliosi – e il suo lavoro consisterà anche e soprattutto nel liberarsi di questo fastidio: se il paragone con Pep è valso per tutti, persino per Koeman che del Tiqui-taca non riusciva ad azzeccare nemmeno l’ortografia e la pronuncia, figuriamoci per lui. È la croce, questa, che il Barcellona ha scelto di abbracciare, allo stesso tempo peso e puntello. È l’identità, e da essa vengono i profeti e le profezie, gli eletti e gli impostori, la maledizione e la salvezza. Il Barcellona è incastrato in questo loop temporale, al sicuro eppure in prigione dentro un ouroboro che mangia la sua stessa coda: l’identità in campo la dà chi viene da La Masía, l’identità in panchina la dà chi è stato in campo, che è venuto da La Masia. Da Cruijff a Guardiola e da Guardiola di tentativo in tentativo, sempre con la spiegazione e/o giustificazione dell’identità: Tito Villanova e Luis Enrique perché facevano parte di quel mondo, Gerardo Martino ed Ernesto Valverde sempre e comunque degli estranei, Ronald Koeman perché comunque è stato il Rambo che segnò il gol nella finale di Coppa dei Campioni del ’92. Adesso Xavi per la stessa ragione: è un’altra ripetizione del loop, l’ultimo pasto dell’ouroboro, e anche stavolta stiamo a vedere.

La storia recente del Barcellona è un susseguirsi di cicli della ri-fondazione: si ricomincia spesso ma sempre dallo stesso punto. A una crisi profondissima i blaugrana non potevano che dare la risposta prevedibilissima: il ragazzino che giocava per le strade di Terrassa e che uscì da La Masia per concedere a Guardiola il tempo di guarire dalle ferite. Ovviamente catalano, che nel calcio è un altro modo di dire olandese: Van Gaal lo fece arrivare in prima squadra, Rijkaard gli trovò la posizione giusta in campo perché ammise una cosa che all’epoca nessuno a Barcellona voleva ammettere: i mediani servono. Eccome: l’arrivo di Edgar Davids cambiò quella stagione blaugrana e la vita di Xavi. A suo dire, l’olandese gli fece capire la dedizione necessaria al successo quando il successo non sono i trofei ma «l’anima stessa del calcio». L’anima di cui a Barcellona sono convinti di essere i better angels, quelli che appaiono ai fedeli con le fattezze di Rinus Michels, Johan Cruijff e Pep Guardiola. Come ha detto Daniel Alves, il Barcellona è come una casa automobilistica: ci sono macchine che hanno linee e forme e design che diventano stile, icona, simbolo. «Se Cruijff è stato il Mark 1 e Pep è stato il Mark 2, quanto tornerà Xavi, lui sarà il Mark 3».

Nel documentario Take the ball, pass the ball a un certo punto Jordi Cruijff parla di Xavi. Ovviamente ne parla con le parole di suo padre Johan: «Per lui, Xavi era el listo de la clase, quello intelligente, quello sveglio. Il problema è che quando tutti la pensano già così, la pressione diventa troppa. Ma se segue la sua strada, a poco a poco, con pazienza, come ha fatto Pep, allora arriverà il momento in cui sarà pronto. E spero davvero che Xavi abbia successo». Guardiola – che di complimenti è prodigo con gli sconosciuti, figuriamoci con gli amici – ha già detto che Xavi ha più esperienza di lui quando si sedette la prima volta sulla panchina blaugrana. È vero, ma non me ne vogliano né Guardiola né Xavi se non sono andato a indagare i due anni di quest’ultimo sulla panchina dell’Al-Sadd: è difficile prendere sul serio la Coppa dello Sceicco Jassem, la coppa delle Stelle del Qatar e la Coppa dell’Emiro del Qatar, l’imbarazzo comincia dai nomi, nemmeno in campo. Coaches’ Voice ha dedicato una masterclass al Xavi allenatore, ma ovviamente tutto quello che dice in quei dieci minuti lo sappiamo già perché tutti quanti conosciamo il Barcellona: il 4-3-3, le linee, i movimenti, i quadrati offensivi, l’andamento lento, le risalite improvvise, tutte le variazioni e rivisitazioni di quello che però resta sempre il modello Ajax (anche in questo caso: l’Ajax è quell‘Ajax). Xavi dice ancora adesso che «quando il pallone è lontano, io soffro», che è tanto la conferma di come vuole far giocare la sua squadra quanto la dimostrazione di quanto debba mancargli giocare in quella squadra. O di quanto gli manchi giocare a pallone e basta, chissà: ha smesso di giocare poco più di due anni fa.

Nella sua carriera da calciatore al Barcellona, Xavi ha accumulato 767 presenze e 85 gol; nel suo palmarés ci sono 25 trofei, tra cui quattro edizioni della Champions League (Gabriel Bouys/AFP via Getty Images)

Qual è l’esercizio calcistico preferito da Xavi? Il torello, ovviamente. «Impari a essere responsabile e a non perdere il pallone. Se perdi il pallone, vai in mezzo. Pum-pum-pum-pum, sempre e solo un tocco. Se vai in mezzo, è umiliante. Gli altri ti fanno l’applauso e ridono». Nel calcio, il pallone non è certo solo una palla: è il controllo. Del gioco, della partita, dello stadio, del futuro, del destino. Xavi non vuole finire in mezzo, non vuole andarci di mezzo, non gli piaceva quando giocava e non gli interessa ora che allena. Probabilmente è per questo che ha rifiutato due volte la panchina del Barcellona. La prima volta disse no perché a nessuno piaceva Bartomeu, e si sa che la disgrazia è una malattia: si attacca. La secondo volta pare sia stato perché Xavi non voleva allenare Messi. Può voler dire rispetto e amicizia e affetto, ma può voler dire che Xavi è consapevole che quello che vale da giocatore non vale da allenatore. Il Barcellona ha costruito la sua grandezza nello spazio minuscolo che c’era tra il ritmo soporifero dei passaggi di Xavi e le accelerazioni capricciose di Messi. In campo funzionava come niente altro ha funzionato negli ultimi dieci anni di pallone. Ma ora che è in panchina, Xavi lo sa quanto è difficile tenere tutto e tutti assieme, lo sa quanto è complicato avere dentro un’orchestra un musicista che ha il suo personalissimo tempo. Sarà un caso, magari è una coincidenza, forse è per rispetto, affetto, amicizia o forse è per convenienza, intelligenza, furbizia, ma Xavi diventa l’allenatore del Barcellona nella prima stagione in cui Messi gioca a Parigi.

Ma non è solo questo, il 2021/2022 del Barcellona. È una stagione di crisi, economica innanzitutto, calcistica di conseguenza. Non è la prima volta che Xavi si ritrova in questa situazione: la sua carriera è cominciata quando il Barcellona aveva i conti in rosso e la bacheca vuota da un pezzo. Solo che all’epoca in cui lui arrivava in prima squadra, la crisi stava finendo. Nel momento in cui diventa allenatore blaugrana, il peggio sembra dover ancora venire. Ma l’identità del Barcellona sta in queste crisi, è rinnovata di volta in volta nei dubbi e dagli errori che trovano sempre la stessa risposta e lo stesso rimedio: c’è una prossima generazione che brilla dello splendore dell’oro, ragazzini ancora ingenui ma già terribili in una superiorità che per il momento possono mantenere solo per il tempo necessario a mostrare al mondo il futuro. Il lavoro di Xavi, e del Barcellona tutto, sarà questo: far succedere quel che è deve succedere, quel che è già successo in passato, dare un’altra spinta a una squadra la cui storia è una ruota: il passato e il presente e il futuro sono la stessa cosa. «Altre squadre vincono e sono felici, ma per noi non è la stessa cosa. È l’identità la cosa che conta. Il risultato, nel calcio, è un impostore. Si possono fare le cose molto ma molto bene e non vincere lo stesso. Ma c’è qualcosa che va oltre il risultato, qualcosa che dura nel tempo». Come la storia di Xavi, che è il suo passato e che, da ora, potrebbe diventare il suo futuro.