Il 26 agosto 2013, in occasione della sua prima da allenatore del Manchester United a Old Trafford contro il Chelsea, David Moyes alzò lo sguardo in direzione dello Stretford End e lo vide. Quello striscione si trovava lì praticamente dal giorno del suo annuncio come nuovo tecnico dei Red Devils e, oltre l’immagine stilizzata del suo volto, recava tre parole piuttosto suggestive, anzi evocative: The Chosen One, il Prescelto. Da Alex Ferguson, naturalmente. Colui che tutto vede e tutto sa e tutto può, il deus ex machina che aveva voluto fare di lui l’erede al trono calcistico più longevo d’Inghilterra, oltre che il tecnico che avrebbe dovuto guidare in una nuova era la dinastia che aveva fatto la storia della Premier League. Tredici titoli in 21 stagioni: non era solo una questione di vincere il campionato, ma di essere quel campionato, continuando a tramandare un’idea di grandezza che ormai era parte del brand Manchester United – come e più dei campioni che avevano contribuito ad alimentarne la leggenda.
Nove mesi dopo, il 24 aprile 2014, alla vigilia dell’ultima di campionato contro il Norwich, lo striscione era stato rimosso. Moyes era stato licenziato qualche giorno prima, sostituito da Ryan Giggs, a seguito della rovinosa sconfitta interna contro l’Everton – la prima in 44 anni a Old Trafford contro i Toffees. Lo United era settimo in classifica e aveva 13 lunghezze di distanza dal quarto posto, con appena cinque punti conquistati (su 24 disponibili) nelle otto sfide contro le prime quattro in classifica. I tifosi, in realtà, quello striscione avrebbero voluto toglierlo già a marzo, dopo lo 0-3 nel derby contro il City, ma l’intervento degli steward aveva solo rimandato l’inevitabile. «Moyes non è mai sembrato un allenatore da Manchester United o ha mai agito come tale. Lo United ha assunto un manager da Everton, un allenatore da Everton, ha acquistato giocatori da Everton e, proprio come l’Everton, è finito settimo», scrisse tempo dopo Samuel Luckhurst sul Manchester Evening News, in quello che avrebbe potuto essere considerato l’epitaffio sulla carriera manageriale di Moyes ad alti livelli. E non solo: i successivi disastri con Real Sociedad e, soprattutto, Sunderland – nel drammatico prequel di quello che avremmo visto in ‘Til I die – avevano restituito l’immagine di un allenatore incapace di andare oltre il proprio fallimento, oltre una stagione che avrebbe per sempre alterato giudizi, prospettive e percezioni sul suo valore, sulla sua legacy nel calcio del XXI secolo.
A quasi dieci anni di distanza da quegli eventi, non si può pensare di raccontare il West Ham di oggi senza partire dal David Moyes di ieri, da quel David Moyes. Un tecnico che ha raggiunto il traguardo delle 1.000 panchine in carriera – il 4 novembre scorso nel match di Europa League contro il Genk – e che ha fatto degli Hammers la prima vera alternativa alle “big six”, dopo averli salvati per ben due volte (nel 2018 e nel 2020) da una retrocessione che sembrava certa. Non è tanto, o non è solo, una questione relativa al terzo posto in classifica a tre punti dal Chelsea capolista o della fama di giant killer consolidatasi dopo la vittoria contro il Liverpool (3-2 all’Olympic Stadium, prima sconfitta stagionale per i Reds), ma di come il West Ham abbia assorbito tutto di Moyes diventando la sua squadra nel senso letterale, quindi più profondo: «Il Moyes manager probabilmente è diventato un manager migliore. Oggi è molto più rilassato perché si trova in un club dove è apprezzato: si è quasi attratti dal guardare il suo West Ham perché è un piacere vedergli fare così bene», ha detto recentemente a The Athletic Phil Jagielka, che con Moyes ha condiviso i fasti della sponda in blu della Mersey. E che, quindi, è un giocatore che conosce il manager del West Ham, sa riconoscere quando il rapporto simbiotico tra lui e la sua squadra evolve in una consapevolezza dei propri mezzi che rende possibile la sfida contro club più ricchi, più forti, più attrezzati.
Nelle ore successive al 3-2 contro il Liverpool, Jonathan Wilson ha scritto sul Guardian che «questo West Ham può essere considerato come un riflesso delle virtù moynesiane. Sono resilienti, sono capaci di aspettare e di resistere alla pressione, sono ben organizzati». Wilson ha spostato il focus sull’aspetto narrativo prima ancora che su quello tecnico o tattico, per cui «è vero che nel loro mondo ideale non avrebbero mai dovuto concedere due gol, m è altrettanto vero che il Liverpool, ogni volta che ha giocato fuori casa in questa stagione, non ne ha mai segnati meno di tre».
Messa in questi termini, il West Ham sembra il classico team of destiny proiettato verso un processo di catarsi e redenzione collettiva ma anche individuale, che trova la sua rappresentazione in un gruppo assemblato perseguendo l’idea della seconda occasione, del riscatto, sulla voglia di arrivare di seconde e terze linee. Fabianski, Ogbonna, Lanzini, Benrahma, Michail Antonio, lo scintillante Lingard dei primi sei mesi di 2021 – rientrato allo United dopo nove gol e quattro assist in 16 partite – sono tutti parte integrante di un gruppo che è riuscito a restituire senso, dignità e hype all’evento partita nel suo complesso, riuscendo persino ad allontanare momentaneamente dal London Stadium lo stigma causato dall’aver preso il posto del leggendario Boleyn Ground: «Lo stadio è vivo ed emana vibrazioni positive che avvertiamo tutti. Ultimamente vedo tanti ragazzini venire alla partita con la maglia del West Ham addosso e questo mi emoziona perché significa che le persone sono orgogliose di tifare la squadra, più di quanto non lo siano state negli ultimi anni» ha detto Moyes in quest’intervista alla tv ufficiale del club.
È come se l’allenatore stesse ricostruendo la rosa seguendo dei criteri antropologici ben precisi, rivoluzionando le sue stesse capacità manageriali messe in discussione ai tempi dell’acquisto di Mata e Fellaini per 65 milioni di sterline complessivi, creando valore attraverso lo sviluppo dei giocatori che già ha: considerando le ultime quattro sessioni di mercato, l’acquisto economicamente più oneroso (25 milioni) è stato quello di Kourt Zouma, mentre quello più importante, Tomas Soucek dallo Slavia Praga, è costato appena 16. Tutto il resto è la diretta conseguenza di un player development strutturato e attuato in maniera capillare, studiato per mettere i singoli calciatori nelle migliori condizioni possibili per esprimere le proprie qualità all’interno di un sistema: «Cerco sempre di ottenere il meglio dai miei giocatori, è quella che considero la parte fondamentale del mio lavoro: per alcuni sono certo di aver fatto tutto il possibile pur senza essere riuscito a migliorarli ma ce ne sono tanti altri che hanno beneficiato di questo lavoro e sono diventati giocatori internazionali. È qualcosa che mi rende felice, con alcuni di loro mi tengo sempre in contatto», ha spiegato Moyes.
Dal punto di vista del campo il suo West Ham è una squadra contro-culturale, probabilmente più adatta a distruggere che a creare, incardinata su un 4-2-3-1 che presenta dei canoni di efficacia ed efficienza opposti a quelli delle altre squadre di vertice: fisicità esasperata in fase di non possesso, difesa posizionale organizzata per blocchi piuttosto bassi, possesso palla ridotto all’osso, estremizzazione del concetto di verticalità, calci piazzati come principale opzione offensiva – Jamie Redknapp su Sky Sports ha definito gli Hammers come degli autentici «set-piece monsters» visto che quasi un terzo dei gol stagionali, infatti, è originato da una palla inattiva. Tutto ruota, naturalmente, attorno a Declan Rice, il centrocampista che ha preso il posto di Mark Noble come centro tecnico ed emotivo del West Ham: da quando compone con Soucek quella che è considerata la miglior coppia di mediani della Premier, il ventiduenne di Kingston upon Thames è diventato fondamentale nella gestione dei tempi di ribaltamento dell’azione dopo il recupero palla, ma anche nella transizione con palla in uscita dalla difesa. La prima costruzione, che spesso si risolve nel lancio lungo sulla linea di corsa delle mezzepunte, è affidata a Cresswell e Ogbonna, le cui licenze tecniche risultano ben bilanciate dall’esuberanza fisica di Zouma e Coufal – con Ben Johnson primo cambio – che agisce da terzino bloccato rispetto all’omologo sul lato opposto. Tuttavia il grave infortunio del centrale italiano, con conseguente ritorno in pianta stabile di Dawson, accrescerà ulteriormente le responsabilità dei due esterni bassi e delle catene laterali, con la manovra che presumibilmente tenderà a svilupparsi di più in ampiezza.
In fase offensiva dipende tutto, o quasi, da Michail Antonio, che è diventato il centravanti titolare dopo l’addio, senza troppi rimpianti, di Sébastien Haller, rinato all’Ajax dopo due stagioni da appena 14 gol in 54 presenze. Il giamaicano è ciò che potrebbe definirsi un “centravanti per caso” eppure la sua costante tensione verticale, l’esplosività nel breve, la fisicità da visitor nel gioco spalle alle porta e le capacità nell’uno contro uno in situazione dinamica, risultano fondamentali per una squadra che si appoggia quasi esclusivamente su di lui quando si tratta di risalire il campo attaccando gli spazi alle spalle delle linee di pressione. Il resto è demandato alla dimensione creativa della batteria dei tre trequartisti, assemblata secondo i consueti criteri di equilibrio e bilanciamento tra i due lati: a sinistra agisce Said Benrahma, il giocatore estroso per eccellenza, l’uomo in grado di creare superiorità numerica e posizionale con una singola giocata oltre che il miglior complemento possibile per le corse senza palla di Cresswell – che può così azionare il suo mancino telecomandato senza doversi preoccupare ogni volta di dover calciare da fermo. A destra Jarrod Bowen è un elemento multidimensionale, continuo, solido, uno cui Moyes raramente rinuncia – già 1.279 minuti in stagione – soprattutto nelle fasi di partita in cui decide di passare al 5-4-1 inserendo un terzo centrale al posto di Benrahma o Fornals; e poi Fornals, appunto, il vero regista offensivo della squadra, colui dal quale tutto deve passare nell’ultimo terzo di campo. Il tutto in attesa di capire che tipo di apporto potrà dare Lanzini che, dopo una più che discreta passata stagione da supersub, sta faticando a ritagliarsi spazio e minutaggio.
L’incastro favorevole di tutti questi elementi non deve però lasciar pensare che il West Ham sia il one season wonder destinato all’oblio dopo un’annata sopra la righe. Parliamo di un progetto concreto, sostenibile, in continuità con quanto già visto nel 2020/2021, una stagione in cui la Champions League è sfuggita per appena due punti – o meglio: per qualche sconfitta di troppo negli scontri diretti con le prime cinque. In questo senso le vittorie contro Leicester, Tottenham e Liverpool sembrano costituire una prima inversione di tendenza sulla strada di una grandezza rinnovata, anzi consolidata: «Non so dire se saremo in grado di vincere qualcosa ma ora il mio compito è riportare il West Ham dove dovrebbe sempre essere e poi ripartire da lì», ha dichiarato recentemente Moyes. Di quello striscione, in fondo, chi si ricorda più?