ATP Finals: il tennis in transizione

Il torneo di fine anno viene subito dopo gli Slam, ma è anche una manifestazione in cui le istituzioni del tennis hanno sempre sperimentato nuove soluzioni per il futuro. E in cui il risultato non è mai scontato.

In un’intervista rilasciata al Telegraph nel 2020, Stan Smith ha raccontato che il campo su cui ha giocato e vinto il primo Masters Gran Prix della storia, quello del 1970, sembrava «assemblato con le costruzioni Lego, i pezzi di plastica che lo componevano si staccavano nel corso delle partite: da questo e da tante altre cose si percepiva che le prime edizioni del torneo erano a dir poco improvvisate». Nella stessa intervista, però, Smith ha aggiunto pure che «noi giocatori amavamo l’idea che ci fossero delle finali stagionali, che l’anno tennistico avesse un culmine, un grande evento di chiusura».

Il tennis è uno sport fatto di miti secolari e quindi inscalfibili, di leggende che ispirano il conservatorismo più estremo: Wimbledon e il Roland Garros sono lì e sono più o meno così da sempre, la Coppa Davis è sacra ed è stato sacrilego modificarla, gli US Open e gli Australian Open avranno un’aura più moderna, una patina più pop, ma sono comunque parte di questo gruppo di tornei intoccabili, anzi irraggiungibili per qualsiasi altra manifestazione. Ecco, questa sensazione di inarrivabilità è vera per tutti i tornei tranne uno: il Master di fine anno, che col tempo si è trasformato nelle ATP Finals che conosciamo oggi.

Certo, pensare che vincere l’ultimo torneo della stagione maschile abbia avuto o abbia lo stesso valore di un titolo dello Slam sarebbe ingenuo. Ma la corsa furiosa dei giocatori per agguantare la qualificazione, i ricordi di Stan Smith e l’attenzione mediatica e degli appassionati sono dei segnali significativi, in questo senso. È come se le Finals occupassero uno spazio di mezzo tra il tennis degli dei e il tennis dei comuni mortali, quello dei tornei grandi ma non grandissimi. Persino nelle pagine bio di Wikipedia Italia, ovviamente parliamo di quelle dei giocatori professionisti, le schede personali hanno una sezione dedicata ai risultati raggiunti nel torneo di fine anno, appena sotto gli slam, accanto ai Giochi Olimpici.

Per le Finals questo prestigio elettivo va di pari passo con uno spirito d’innovazione molto accentuato, che come detto stride un po’ con la storia del gioco, con la sua evoluzione lenta, fin troppo ragionata: nella famosa prima edizione del 1970, per esempio, il torneo fu organizzato come un girone all’italiana puro, senza fase ad eliminazione diretta, una formula che nel tennis è storicamente malvista e che invece sopravvive – parzialmente – ancora oggi alle Finals; sempre nel 1970, il Masters aveva già sperimentato il killer game sul 5-5 mentre le istituzioni del tennis iniziavano a introdurre timidamente il tie-break negli altri tornei; un anno fa, ma qui c’entra anche la pandemia, per le partite giocate a Londra è stata utilizzata una tecnologia Hawkeye live che, di fatto, ha sostituito i giudici di linea. Proprio commentando questa novità, lo Chief Tour Officer dell’Atp, Ross Hutchins, ha detto che «l’innovazione e la tecnologia hanno sempre svolto un ruolo centrale nella storia e nel successo delle Finals».

L’edizione 2020 delle ATP Finals è stata l’ultima (di dodici) disputate a Londra, alla O2 Arena: Torino è la prima città italiana a ospitare l’evento, l’ottava in assoluto dal 1990, ovvero da quando il torneo di fine anno viene organizzato dall’Atp (Clive Brunskill/Getty Images)

Un’altra caratteristica che rende unico il torneo di fine anno è la democrazia dell’albo d’oro: il tennis è reduce dall’era del triumvirato illuminato Federer-Nadal-Djokovic, eppure le Finals sono state vinte da nove giocatori diversi negli ultimi quindici anni, solo uno in più rispetto ai tennisti che sono riusciti a trionfare nelle 63 prove dello Slam disputatesi nello stesso arco di tempo. Nell’elenco dei vincitori sono già comparsi i nomi di coloro che hanno già iniziato a traghettare il gioco nel domani: Zverev (campione a 21 anni nel 2018), Tsistipas (campione a 21 anni nel 2019) e Medvedev, detentore del titolo e giustiziere di Djokovic agli ultimi US Open.

I migliori giocatori dell’anno che si affrontano solo tra di loro, una formula unica, dei risultati spesso sorprendenti e un contesto storicamente innovativo:il fascino delle Finals è un mix tra tutti questi elementi, è legato alla sua natura di evento ibrido, sospeso, che suggella il passato e spalanca una finestra sul futuro. Questa sensazione di transizione in corso è ancora più forte per l’edizione 2021: per la prima volta si gioca in Italia, a Torino; per la prima volta c’è un tennista italiano, Matteo Berrettini, che si è qualificato per la seconda volta al torneo e per di più ci arriva come vice-campione in carica a Wimbledon; per la prima volta dopo molti anni non ci saranno Federer e Nadal, e Djokovic è ancora un cannibale insaziabile ma in ogni caso ha 34 anni, quindi la sua condizione sarà da valutare – specie dopo aver accarezzato e perso l’occasione forse irripetibile di compiere il Grande Slam in un solo anno solare. Insomma, quella dal 14 al 21 novembre sarà una settimana che avrà un impatto sul presente e sul futuro del tennis, che dirà tanto agli appassionati e agli esperti, dei giocatori, del gioco, ma anche dell’Italia sportiva e logistica, delle possibilità di ripartire davvero ora che la pandemia vive una fase meno acuta. Ci aspetta un grande evento di chiusura, ma anche di scoperta, proprio come racconta lo spirito storico delle Finals.

Da Undici n° 41