Novak Djokovic ha cambiato il tennis per sempre

Dei Big Three, il serbo è quello che ha lasciato l''impronta più profonda sul tennis che vediamo oggi e che vedremo nel futuro.

I fast food e le consegne express non fanno per Novak Djokovic. Di fronte al senso di urgenza che il mondo sembra continuamente demandare a sé e agli altri, il serbo prova soltanto una grande indifferenza. Ha 34 anni ma sembra avere tutto il tempo dalla sua parte. A un’età in cui i tennisti più forti della storia sono diventati fantasmi della loro stessa gloria, e in molti casi ritirati già da un pezzo, Nole ha provato a mettere tutti d’accordo sul tema che affolla con sempre maggior insistenza le cronache tennistiche: chi è il migliore di tutti i tempi. Djokovic è arrivato a una sola vittoria dal centrare il Grande Slam, un’impresa che in campo maschile era riuscita soltanto a Rod Laver nei lontani anni Sessanta: altro tennis, altre superfici, altra dimensione. Riuscirci nel tennis ultracompetitivo di oggi sarebbe stato una testimonianza di grandezza senza pari, riverberata all’infinito nell’era iper-connessa e dell’informazione che viaggia veloce. Eppure a gran velocità, Nole, non è mai voluto andarci. Il suo stesso tennis è un riflesso di questa inclinazione: è uno slow tennis, che attorciglia e poi strangola.

Richiede i suoi tempi perché l’effetto mortifero del suo gioco faccia effetto sull’avversario: a volte prende subito alla gola, altre volte ci mette di più, e non è raro vedere i match del serbo andare per le lunghe. Poi, però, trova sempre il modo di uscire vincitore. È l’opposto della generazione TikTok: mentre gli altri comprimono il proprio tennis in miniclip da 15 secondi, con sferzate micidiali e spin impossibili, l’essenza di Djokovic non la si coglie in un colpo, e nemmeno in un punto. Con lui bisogna considerare la visione d’insieme: il suo tennis è freddo e calcolato, è pura ingegneria sofisticata, poggia su dati e certezze. Djokovic rappresenta la massima applicazione della teoria darwiniana al tennis: vince chi sa meglio adattarsi alle condizioni naturali. E questo per Nole è il miglior talento possibile. Mentre il pubblico si inebriava della grazia senza tempo di Federer o dell’atletismo esasperato di Nadal, lui sceglieva di piegare la sua bravura all’efficacia. Cambiando la storia del tennis molto più di quanto siano riusciti a fare i due più grandi rivali: oggi Nole è indiscutibilmente il modello a cui i tennisti del presente e del futuro guardano come fonte di ispirazione. Il serbo ha scomposto il gioco rendendolo un esercizio di intelligenza, più che di abilità. Più facile, potrebbe sembrare. Tutt’altro, altrimenti i pretendenti al suo trono non farebbero così tanta fatica a spodestarlo dopo tutti questi anni.

Come tutti i più grandi vincenti dello sport, Djokovic non è tanto ossessionato dal successo quanto terrorizzato dalla paura di perdere. Nei momenti di difficoltà il serbo è stato protagonista di alcune delle reazioni più violente del circuito: racchette distrutte, urla furibonde, persino una pallata a una giudice di linea che poi gli sarebbe costata l’eliminazione dagli Us Open del 2020. È il suo modo di ricordarsi che stanno per addensarsi le minacciose ombre della sconfitta. È il momento in cui la paura sta per fare capolino, ed è lì che Djokovic ritorna a fare il Djokovic: l’uomo impossibile da battere. Zlatan Ibrahimovic ha detto che Djokovic ha una «testa balcanica» e che dà il meglio di sé quando si arrabbia.

I meandri enigmatici e affascinanti della mente di Nole sono diventati un genere letterario a sé: più volte il serbo ha insistito su questo aspetto nella narrazione di sé all’esterno. Il suo libro Serve To Win ha come principio teorico un senso distante dalle autobiografie, a volte stucchevoli, dei suoi colleghi sportivi: è un trattato sul farsi-da-sé grazie a una corretta alimentazione e a un mirato allenamento mentale. Qualcosa che pensiamo possa essere più appropriato per le penne di manager o di capitani d’industria. Scrive il serbo a proposito del lavoro sulla sua testa: «Per me è importante al pari dell’allenamento fisico. Anziché provare a silenziare la mente, accetto i miei pensieri. Cominciano a rimbalzare qua e là all’impazzata, ma te lo devi aspettare: il tuo compito è lasciarli entrare e poi cacciarli». Il credo di Nole si chiama mindfulness, quell’approccio alla vita che «mi permette di esaltare al massimo il mio potenziale in ogni aspetto: non solo fisico, ma anche mentale, emozionale, spirituale. Sono esercizi che faccio quotidianamente e che mi fanno sentire bene, calmo e felice». Ha detto bene Andy Roddick: prima ti prende le gambe, poi l’anima. Giocare contro Djokovic può essere un’esperienza decisamente frustrante. Tifare contro, anche.

Djokovic ha partecipato alle Finals per 13 volte, vincendole in cinque occasioni, l’ultima nel 2015; i quattro trionfi di fila tra il 2012 e il 2015 sono un record assoluto per il torneo di fine anno (Julian Finney/Getty Images)

Il serbo ha imparato negli anni a nutrirsi dell’odio nei suoi confronti: «Quando il pubblico scandisce il nome del mio avversario, io sento il mio». Con il passare del tempo è sembrato quasi che Djokovic ci godesse, a incarnare la figura dell’antagonista. Più tifavano contro di lui, più si atteggiava a cattivo. E più vinceva. Come hanno fatto notare in molti, compreso l’ex numero uno Hewitt, il serbo paga il peccato originale di aver “rovinato” la rivalità sportiva perfetta: quella tra Federer e Nadal. Il suo è stato l’arrivo di un intruso. I tratti scherzosi del suo carattere sono stati interpretati come dissacranti, esagerati, fuori luogo. Le esultanze selvagge nel suo angolo non sono mai piaciute a nessuno. «Djokovic è quel tipo che a un cocktail party si sente in imbarazzo e deve fare qualcosa di diverso per essere a suo agio», ha detto una volta l’agente Tom Ross. Poi è arrivata la pandemia, le controverse posizioni sul tema vaccini, il famigerato Adria Tour organizzato in piena emergenza sanitaria. Djokovic non si è mai preoccupato di passare per simpaticone.

Finché non è arrivato il giorno in cui avrebbe potuto riscrivere la storia del tennis: la finale agli ultimi Us Open contro Medvedev. Per la prima volta nella sua vita, un intero stadio ha fatto il tifo per lui. E, per la prima volta, la guaina robotica di Djokovic si è sgretolata facendo trapelare tutta l’umanità del serbo. Nel corso del terzo set, mentre tutti gli spettatori inneggiavano a lui, Nole è scoppiato in lacrime. E poi, ancora, durante la cerimonia di premiazione: «Anche se non ho vinto, il mio cuore è pieno di gioia perché mi avete fatto sentire davvero speciale», ha detto rivolgendosi al pubblico. Potrebbe essere il lieto fine perfetto: il brutto anatroccolo vincente e antipatico che non misura più la soddisfazione personale in trofei. Ma non è questa la storia di Nole. L’istinto animalesco di primeggiare lo accompagnerà fino all’ultimo istante della sua carriera: il 2022 dovrà essere ancora una volta l’anno della rincorsa al Grande Slam, o almeno quello in cui staccherà gli eterni rivali nella classifica di più Slam vinti (al momento i tre sono tutti appaiati a quota 20). Torino è l’occasione per tornare a vincere il torneo di fine anno che gli manca dal 2015, ma anche per riaffermare il suo ruolo di despota all’interno del circuito. E per dimostrare che il tempo è ancora dalla sua parte.