La nostalgia è una trappola

Barcellona, Juventus e Manchester United, ma non solo: tantissimi club stanno guardando al passato per rifondarsi, dimenticando ciò che li ha resi davvero grandi.

L’esonero di Ole Gunnar Solskjaer è stata una notizia per noi ma mi auguro sia stata anche e soprattutto una liberazione per lui. Non so come abbia fatto l’allenatore norvegese a superare mesi e mesi di sfottò negli stadi e memificazione su Internet. “Ole’s at the wheel” era diventata ormai una frase fatta che stava per inettitudine, una specie di traduzione nella lingua del calcio della legge di Murphy: se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora Ole la farà in quel modo. “Ole’s at the wheel”, cantavano i tifosi della squadra avversaria del Manchester United praticamente ogni fine settimana, unica traccia nella colonna sonora dell’ennesima e sempre peggiore – ma mai ultima – figuraccia dei Red Devils. Ole non è più al timone, ormai si trattava soltanto di scegliere la scusa migliore per togliercelo: una sconfitta 4-1 contro il Watford, non più grave delle altre, non più imbarazzante delle precedenti, alla fine la scelta è caduta su questa scusa. E che resta, adesso, al Manchester United? Resta il veleno che si sono scelti, il liquido dolciastro, appiccicoso e assuefacente che si chiama nostalgia. «Il Manchester United e i rischi del vivere nel passato», ha scritto Rory Smith sul New York Times.

Della tendenza del calcio a ripetersi sappiamo tutto. È la tendenza di tutti i mondi rovesciati, coni in equilibrio sulla punta sottile ma resistente di un’aristocrazia. Nel calcio esiste – è sempre esistita ma in forme e per ragioni diverse, e mi pare si sia aggravata e approfondita negli ultimi quindici anni, e penso la colpa sia sempre e comunque di Pep Guardiola – questa ossessione incestuosa per la purezza del sangue, la convinzione che la prossima generazione sia in realtà la precedente ma seduta su un’altra sedia, vestita in un altro modo. È la nostalgia, cioè la convinzione che il meglio è sempre già venuto ma può anche tornare sempre: quale altra spiegazione si può dare alla scelta dello United di lasciare il timone nelle mani di Ole per tre anni?

Anche nei momenti migliori (che con Solskjaer sono stati discreti tutt’al più) era chiaro che non fosse pronto o capace per fare il manager dei Red Devils. Eppure lì stava e lì restava. Perché? Si dirà perché i Glazer non avevano idea di chi metterci, al timone, al posto di Solskjaer. E sicuramente c’è in questo una parte di verità. Ma un’altra parte di verità sta nell’idea che i Glazer hanno avuto quando si è trattato di sostituire Mourinho: prendere Solskjaer perché lui c’era quando c’era Ferguson, prendere Solskjaer perché ha segnato quel gol in quella finale per quella vittoria. E, ovviamente, anche questa volta, anche allo United, anche con Solskjaer è andata a finire come va a finire sempre in questi casi: male. La nostalgia funziona così, è come una mano di vernice data sopra una macchia di muffa: alla fine la muffa torna. Sempre.

È curioso – o perverso – che le proprietà che più stanno cercando di staccare le radici (geografiche, culturali, storiche) del calcio siano anche quelle che più allungano il vino cattivo della casa con l’acqua della nostalgia. Ovviamente c’entrano il marketing e le pubbliche relazioni e la facilità con la quale si può convincere un cliente/consumatore ad acquistare più e più volte sempre la stessa gioia, la sua. Ma non è solo questo perché, per quanto si sforzino, le squadre di calcio non sono esattamente aziende. Il Real Madrid e la Juventus sono le squadre che più hanno insistito su quel futuro possibile del calcio che abbiamo imparato a conoscere con il nome di Super Lega. Eppure anche Florentino Pérez e Andrea Agnelli, nel momento di difficoltà delle rispettive gestioni, hanno cercato (e, chissà, trovato) la certezza nello stesso posto delle fragole: nel passato, cioè nella nostalgia, cioè nell’allenatore della Décima l’uno e in quello degli scudetti a ripetizione l’altro. 

La terza gamba del governo della Super Lega è in una situazione simile, peggiore dal punto di vista sportivo ma altrettanto esemplificativa: dopo aver esonerato Koeman – scelto, anche se è impossibile da dimostrare, solo e soltanto per quel gol segnato nella finale di Coppa dei Campioni del ‘92 – il Barcellona si è affidato anima e corpo a Xavi. Dal punto di vista dei significati che possono essere estratti dai simboli, Xavi sulla panchina del Barcellona dice una cosa simile a quella che diceva Solskjaer al timone del Manchester United: come i Red Devils, loro malgrado, sono ancora la squadra di Sir Alex, anche il Barcellona, suo malgrado, è ancora la squadra di Pep. E se con i simboli ci volessimo fissare, che cosa dice dello stato del calcio al finire del 2021 il fatto che questo sia stato l’anno in cui Cristiano Ronaldo è tornato allo United e Daniel Alves è tornato al Barcellona?

Malgrado non sono sicuro, però, sia la parola giusta per descrivere il rapporto che questa squadra mostrano con il loro passato più o meno recente. Certo, nella maniera in cui si arrendono alla parte più recente (perché con la nostalgia funziona così: si desidera ieri e non ieri l’altro, perché nel secondo caso la questione passa dall’essere emotiva a storica e nessuno ha tempo per la storia) del loro passato c’è un che di pigro, di paraculo. Si potrebbe dire persino di provinciale, se accusare le multinazionali del pallone di provincialismo non fosse in sé un controsenso. Eppure questa idea che certe squadre, alcune nobiltà – United, Real Madrid, Juventus, Barcellona, ma l’elenco potrebbe allungarsi andando all’indietro nel tempo e includendo così anche squadre che adesso dalla trappola della nostalgia sembrano essersi liberate – non sappiano più niente oltre l’ultimo capitolo della loro storia mi sembra provata dai fatti.

Nei suoi tre anni sulla panchina del Manchester United, da dicembre 2018 a pochi giorni fa, Ole Gunnar Solskjaer ha accumulato 91 vittorie, 37 pareggi e 40 sconfitte in 168 gare ufficiali. Non è riuscito a vincere un solo trofeo: è il primo manager a compiere questa impresa dai tempi di Frank O’Farrell, che guidò i Red Devils tra il 1971 e il 1972 (Clive Brunskill/Allsport)

Il Milan (per tanti aspetti profeta inconsapevole delle cose del pallone che viviamo oggi) ha vissuto questo dilemma prima di tutti, e anche nel caso dei rossoneri verrebbe da dire “loro malgrado” ma la le parole non sarebbero esatte. Il Milan di Berlusconi è stato in tutto e per tutto un’emanazione del suo presidente: da Arcore passò a Milanello anche la convinzione che blood is thicker than water, che le dinastie esistono, che non si esauriscono mai davvero, che possono sbiadire per un attimo ma tornano sempre a splendere. Per anni il Milan si è auto-imposto le regole che ora, quasi vent’anni dopo, stanno seguendo altre. Se la famosa “incedibilità” dei campioni (uno degli strumenti propagandistici preferiti da Berlusconi, soprattutto in anno di elezioni politiche) è ormai solo uno di quei proverbi che non usa più nessuno, la convinzione che il futuro stia scritto nei libri di storia resta. Resta nonostante il Milan, di questa convinzione, abbia a lungo sofferto le conseguenze: Seedorf, Inzaghi, Brocchi, Gattuso, la ricerca di una congiunzione che proseguisse il discorso trionfale di Ancelotti (che in quella metà di Milano vale Ferguson e vale Guardiola) ha fatto perdere al Diavolo anni che potevano essere diversi, sempre sofferti sul campo ma non buttati nell’ossessione del tempo perduto. Le squadre che oggi stanno infilando il piede nella trappola della nostalgia dovrebbero guardare le cicatrici che coprono quello del Milan: per liberarsi ci sono voluti anni, un allenatore arrivato per mancanza di scelta e un susseguirsi di salvatori della patria e uomini della Provvidenza che non è detto tutti abbiano la fortuna di ritrovarsi all’uscio di casa.

Sull’Inter andrebbe fatto un discorso a parte e forse un giorno lo farò. Qui, ora, dico soltanto che è grazie al carattere spesso incomprensibile (proprio perché incapace di memoria a lungo termine: Moratti amava tutti ma soprattutto chi c’era, non chi c’era stato) che l’Inter non si è mai ritrovata Walter Zenga in panchina. La nostalgia è un incantesimo, una trappola, un inganno. Magari sono io che esagero e che come sempre mi capita metto nel calcio preoccupazioni che nutro per la società, per la cultura tutte: il terzo millennio è, finora, il millennio della nostalgia, quello in cui – dalla politica al cinema passando per la letteratura e l’arte – abbiamo rielaborato, celebrato, mitizzato molto più di quanto abbiamo creato. O, forse, stavolta non sbaglio ma sbagliano gli altri (sarebbe una novità): mentre finisco di scrivere questo pezzo, leggo di un possibile, persino probabile, ritorno di Diego Godín all’Atletico Madrid.