Il problema delle istantanee è che raccontano solo una parte di verità. Le scattiamo per ingannarci, per dilatare un frammento fino a renderlo sovrapponibile al quadro intero. Gli attimi felici finiscono in una cornice. Una parte per il tutto. Il resto, giù nel cestino. Ed è proprio qui che si trova la porzione più sapida della narrazione. Gelosie, rabbia, risentimenti, imprecazioni. Sentimenti neri come fondi triturati di caffè. Pulsioni che si condannano in pubblico e si abbracciano in privato. Un principio universale che trova perfetta applicazione nell’iconografia delle esultanze di Alessandro Del Piero. Quello che conta non è il gesto in sé, ma il sottotesto, quella parte di storia invisibile che non affiora e rimane sotto la superficie. È proprio in quelle increspature che si può leggere il cammino dell’eroe, quel viaggio fra affermazioni e rovinose disfatte che porterà il protagonista alla piena consapevolezza di sé. Un cammino in quattro tappe che ha conosciuto il suo punto più alto con quella corsa a bocca aperta dopo il gol al River Plate, andata in scena esattamente 25 anni fa. E che ha trovato la sua conclusione perfetta nella rete segnata contro la Germania ai Mondiali del 2006, quando quella corsa sotto lo spicchio dei tifosi azzurri ha assunto il sapore dolce dell’espiazione.
13 settembre 1995, Borussia Dortmund – Juventus 1-3
Il ragazzo corre verso una porzione di campo spuria. Oltre l’area di rigore avversaria, prima della linea del fallo laterale. La pioggia fitta gli ha appiccicato i capelli sulla fronte. Il marketing non ha ancora sovraffollato la sua maglia. La schiena è immacolata. Niente nome fra le spalle, niente bascksponsor sopra il bacino. Solo un numero dieci bianco che sbuca da un rettangolo nero. Il ragazzo fa un saltello, fende l’aria con il pugno destro. Poi, quando i suoi piedi toccano nuovamente l’erba verde del Westfalenstadion, fa giusto una piroetta su se stesso. Sembra più un gioco fra bambini che un’esultanza in uno degli stadi più grandi d’Europa. È un gesto che contiene una carica di genuinità. Anzi, di ingenuità. Soprattutto perché viene immediatamente dopo un prodigio. Qualche secondo prima aveva ricevuto palla sulla sinistra, aveva tagliato verso il centro, aveva puntato un difensore avversario. Si era aperto lo spazio con un tocco di sinistro, poi aveva calciato con il destro. Aveva disegnato una parabola delicata e spietata al tempo stesso. La palla si era alzata per poi rientrare verso il palo lontano. Non era il primo gol che segnava in quel modo. Eppure quella è la rete che crea un genere letterario. È lì che nasce il gol alla Del Piero. Un marchio di fabbrica.
Quell’esultanza è una fotografia. Racconta alla perfezione un momento personale che diventa collettivo. Nel settembre del 1995 Alessandro Del Piero è un ragazzo di 20 anni con un futuro luminoso davanti, ma non è ancora un titolare fisso della Juventus. Si porta dietro uno strano peccato originale. Perché i bianconeri hanno deciso di puntare su di lui. E non più su Roberto Baggio. L’ultima giornata del campionato precedente era stata un’agonia. Il Divin Codino si era fatto fantasma. In campo, non sugli spalti. La sua assenza era ingombrante. Perché riempiva gli spalti. Di striscioni, di cori, di immagini. Un’iconografia pagana che era diventata un inno al dio del calcio. L’addio a Baggio come abiura di una fede. Almeno fino a quella sera. È qualcosa di molto vicino all’epifania. È il primo gol in Champions di Del Piero. È l’inizio di una nuova era.
La eco arriva fino in Spagna. «Ha dimostrato perché a Torino nessuno sente più la mancanza di Baggio», scrive Mundo Deportivo. Un’esagerazione. O forse no. «Alex incanta il mondo», titola La Stampa. Eppure qualcuno tira fuori ancora quella frase. Gianni Agnelli aveva paragonato Robi al Raffaello. E Alex a Pinturicchio. Per qualcuno l’intenzione di sminuire Del Piero. A fine partita il dieci si presenta davanti alle telecamere e dice: «Magari l’Avvocato cercherà un altro pittore: ho visto un quadro del Pinturicchio su una rivista. Non capisco niente di arte, ma quella cosa non fa per me». Due giorni dopo l’Avvocato risponde: «Non era un’offesa accostarlo a Pinturicchio. Io ho una grande ammirazione per i quadri del pittore da me citato. Per me è stato immenso. Perciò Del Piero non creda che la mia definizione sia riduttiva. Anzi…». È in quel giorno che si scrive l’incipit di una grande storia.
26 novembre 1996, Juventus – River Plate 1-0
Le sue dita si attorcigliano attorno al risvolto della maglia. Sollevano quel lembo di stoffa bianconera verso l’alto. Poi lo spingono nuovamente verso il basso. Per un paio di volte. Senza mai scoprire neanche una porzione di addome. Stavolta la corsa di Alex Del Piero non è più incredula. È rabbiosa. Avanza velocemente verso la panchina. Il piede destro davanti al sinistro. Il piede sinistro davanti al destro. Con la bocca che non riesce a racchiudere quell’urlo che sgorga da dentro il petto. Una cavità che sputa fuori tre lettere che suonano mute. «Gol», dice. «Gol», ripete. Come se volesse convincere i 48mila dello stadio di Tokyo. Come se volesse convincere se stesso.
Alessandro Del Piero procede spedito. Sembra quasi un toro pronto a travolgere tutto quello che gli si para davanti. Moreno Torricelli prova ad abbracciarlo. Ma viene disarcionato. Almeno per un istante. Qualche secondo dopo gli sono tutti addosso. Lo abbracciano, lo sommergono, lo comprimono. È un modo di condividere la gioia. Ma soprattutto di ringraziare. Il dieci ha appena raccolto una spizzata in area di rigore. Ha dovuto fare qualche passo indietro pre raccogliere il pallone. Poi l’ha toccata di destro. Due volte. La prima per addomesticarlo. La seconda per spedirlo in rete. Su, in quello che è l’angolino alla sinistra del portiere e che ora è diventato il suo angolino. «Quel gol mi ha cambiato la vita», scriverà Del Piero vent’anni dopo. Sembra un’esagerazione. Ma non lo è. Perché in quel momento Alex non è ancora riuscito a imporsi. Nella stagione precedente aveva segnato sei reti. Troppo poche per uno con il suo talento. Così una voce aveva iniziato a circolare. Parole velenose che si erano fatte articolo di giornale. La Juventus starebbe pensando di venderlo, si dice. Solo che qualcosa aveva iniziato a girare all’improvviso. Prima il gol contro il Manchester United. A Old Trafford. Un rigore che aveva permesso di profanare un tempio fino a quel momento proibito per le italiane. Poi la rete contro il River Plate che vale la Coppa Intercontinentale. «Del Piero ha complicato i piani di chi pensava di poterne fare a meno dall’anno prossimo: è vero che non è ancora (e probabilmente non sarà mai) un fenomeno come lo furono Maradona o Platini, ma il tempo può lavorare per lui e in ogni caso non è facile sciogliersi da un personaggio tanto popolare», scrive Marco Ansaldo su La Stampa. Nel pomeriggio anche l’Avvocato fa arrivare il suo pensiero: «È un talento naturale, teniamocelo stretto».
12 febbraio 2006, Inter – Juventus 1-2
L’immagine accartoccia il concetto di linearità del tempo. Le aderenze sono infinite, ma a scrivere una storia tutta nuova sono le scollature. È il 2006, ma sembra il 1995. San Siro come lo Stadio Olimpico di Tokyo. Alessandro Del Piero corre di nuovo verso il centro del campo. Ancora con la bocca aperta. Ancora con un’espressione di liberazione tatuata sulla faccia. Solo che stavolta dalle labbra emerge la lingua. Un centimetro dopo l’altro. Fino a quando non rimane a penzoloni. È un gesto che fa discutere. Perché sa di presa in giro. Invece è qualcosa che si avvicina molto al concetto di rivincita. Del Piero ha appena trasformato una punizione dal limite nel gol vittoria della Juventus in casa dell’Inter. È una rete che ha un peso specifico incalcolabile. Perché per il dieci sono stati anni difficili. L’infortunio al ginocchio sembra averlo segnato. Nel fisico, nella mente. La prima pugnalata è arrivata nell’agosto del 2000. A Villar Perosa. Nella stagione precedente aveva segnato solo un gol su azione. E la Gazzetta lo aveva definito una «palla al piede per la Juventus». Una sentenza che gli si era appiccicata addosso. Almeno fino a quando non aveva incontrato l’Avvocato. Era arrivato per assistere alla partita fra Juventus A e Juventus B. Un po’ festa privata, un po’ sagra di paese. Gianni Agnelli guarda il capitano della sua squadra. E poi mitraglia quelle parole: «Vedi, caro ragazzo, anche Boniperti e Di Stefano a un certo punto sono arretrati a centrocampo». È una sentenza. È tutto quello che Alex non avrebbe mai voluto sentirsi dire. Perché ha già spiegato più volte di non volere giocare come trequartista.
Così prova a rispondere. Dice di sentirsi ancora giovane. «Troppo giovane per non segnare», risponde Agnelli. È una frase che sembra aprire una crepa. Del Piero e la Juventus sembrano separati da un confine. Al resto ci pensa l’arrivo di Zlatan Ibrahimović. Lo svedese non ha mai neanche indossato la maglia bianconera e già sembra l’uomo della rottamazione, l’attaccante destinato a mandare in panchina Del Piero. Pinuturicchio declassato a pittore minore. Ibra e Trezeguet formano la “coppia più alta del mondo”. Qualcuno azzarda il soprannome “Torri gemelle”, ma se ne pente immediatamente. Le critiche a Del Piero iniziano a prendere la forma dell’accanimento, del vilipendio alla bandiera. «Una volta Del Piero faceva grandi cose Dopo l’infortunio, non le fa più», dice Platini. «Ho rimosso il suo poster dalla mia camera tempo fa», risponde Alex. Nel settembre del 2004 la Juventus esordisce in Champions contro l’Ajax. E per il dieci non è esattamente un successo. «Le due punte juventine sono state controllate bene (nel caso di Del Piero, non era un’impresa)», scrive Repubblica il giorno dopo. Va avanti così per due anni. Anche se alla fine del 2005 Pinturicchio è il capocannoniere della squadra. Quella rete contro l’Inter spezza il sortilegio. Quella linguaccia è la dimostrazione che Del Piero può ancora fare la differenza. «Forse non ve ne siete nemmeno accorti, ma già l’avevo accennata la scorsa settimana a Bergamo», dice Alex a fine partita. «Ma da stasera è qualcosa di più grande. Ho preso ispirazione da Michael Jordan, non è un gesto offensivo nei confronti degli avversari, ma solo un modo per esprimere la mia gioia, la passione che metto nel calcio».
4 luglio 2006, Germania – Italia 0-1
La telecamera lo inquadra di spalle. Sulla sua maglia azzurra c’è impresso il numero 7. Perché il 10 è sulla schiena di Francesco Totti. È il segno che la nuova gerarchia si è cristallizzata. E che nessuno pensa di metterla in discussione. Del Piero non è più l’uomo da copertina. È un leader che si è fatto gregario, uno che raccoglie per strada i minuti lasciati dagli altri. Quando inizia a correre dietro la linea della porta della Germania il tabellone segna il minuto numero 120. Pinturicchio ha appena colorato la tela con un tratto più grazioso che utile. Ha ricevuto palla da Gilardino nel cuore dell’area di rigore. E per un attimo il tempo si è dilatato. Mentre lui apriva il destro, un Paese intero ha ricevuto la visita del fantasma del Natale passato. Dal Westfalenstadion indietro fino al De Kuip di Rotterdam. L’anno del Signore è il Duemila. La partita Italia contro Francia. Nella finale dell’Europeo gli azzurri sono avanti 1-0. Poi nella ripresa Del Piero si ritrova solo davanti a Fabien Barthez. Per due volte. La prima spedisce al lato. La seconda calcia addosso al portiere. È la fine. Perché la Francia pareggia al 94°. E poi vince grazie al Golden Gol di Trezeguet.
Del Piero diventa il simbolo della sconfitta, un capro espiatorio da sacrificare sull’altare del risentimento. «Sono distrutto», dice Alex a fine partita. Ma in quel momento viene risucchiato fra i versi di una poesia di Jacopone da Todi, con la folla che non fa altro che ripetere quella parola: «Crucifige!». Ora in Germania la storia prende una curvatura molto diversa. Alex colpisce di piatto. E spedisce il pallone alle spalle di Lehmann. Ancora in quell’angolino. Ancora in fondo alla rete. Del Piero si mette a correre un’altra volta. Ora rasenta i cartelloni pubblicitari, arriva fino a quella porzione di spalti colorata d’azzurro. Si ferma all’improvviso. Inizia a mulinare il pugno destro in aria. Lo sporge in avanti, lo picchia contro il suo petto. È un’esultanza che fa evaporare la rabbia una goccia alla volta, che mette fine all’espiazione di Del Piero. La riconciliazione è servita, la pace non è più armata. Perché quel gol rimette i peccati. Veri o presunti. E consegna Alex all’immaginario collettivo.