Malinconico Mourinho

Anche alla Roma le sue crociate uno contro tutti, la sua retorica e i suoi toni sarcastici e arroganti sembrano ormai anacronistici, incapaci di avere effetti concreti in campo.

La cosa davvero tragica dei personaggi grandi è che non possono mai sapere cosa c’è alla fine della loro strada, non possono anticipare quale sarà la forma del declino, dove sarà ubicata la loro Sant’Elena. Se le vite normali hanno un copione e un finale tutto sommato prevedibili, la parabola di José Mourinho non poteva averne: le vite come le sue sono manuali si scrivono solo vivendo, esistenze senza istruzioni per l’uso, nemmeno su quando e come dire: basta così. Come poteva sapere che tutti i suoi trucchi, le sue armi, la sua retorica sarebbero a un certo punto suonati così deprimenti? Come poteva attrezzarsi al fatto di essere non solo superato dal suo tempo, ma anche noioso, ripetitivo, meccanico?

Dopo la mesta sconfitta casalinga di sabato della sua Roma contro l’Inter, José ha provato a fare quello che fa sempre: le scosse di orgoglio alla squadra, il sarcasmo allusivo contro gli arbitri, l’arroganza con la stampa. Ma ormai tutto questo p fuori contesto e fuori tempo, non si offende più nessuno. La sconfitta e il post partita sono stati una lezione di schadenfreude, il piacere sadico e pigro che proviamo nel vedere come sono fatti i guai di qualcun altro. Presentarsi così impotente e fragile proprio di fronte all’avversario che un tempo era stato il monumento alla sua bravura è il contrappasso più crudele per l’allenatore che aveva trasformato il disturbo narcisistico della personalità in una carriera di trionfi. Ormai è rimasto lì a costruire barricate contro un assedio che nessuno si prende nemmeno più la briga di fargli. Il rumore dei nemici è diventato quasi solo di sbadigli.

Nessuno potrà mai negare l’importanza di Mourinho negli ultimi vent’anni di calcio, né quanto abbia avuto il merito di averlo reso palpitante (oltre che spesso vincente, in modi imprevisti e romanzeschi) per i popoli che ha adottato, e interessante per tutti gli altri. È stato bello vivere nel suo mondo, essere suoi contemporanei, siamo tutti stati innamorati di lui, in un modo o nell’altro, per i motivi giusti o sbagliati. Il suo carisma è stato una calamita, un riscatto collettivo per nevrotici non necessariamente tifosi del Porto, del Chelsea o dell’Inter. Mourinho è stato quello che è stato non solo perché ha vinto tantissimo, ma anche perché ha reso i campionati ai quali partecipava più divertenti per tutti, anche per gli sconfitti. Ed è per questo che la noia di oggi è segno del suo declino quanto la penetrabilità della difesa della Roma o di quel tetro sesto posto dove galleggia quasi alla fine dell’anno (otto punti in meno rispetto all’ultima stagione del connazionale Fonseca).

«Un amore finito somiglia a un vecchio laboratorio abbandonato, un luogo dove sono state fabbricate macchine meravigliose che ormai non servono più a niente», ha scritto Paul B. Preciado su Libération. Oggi le macchine retoriche create da Mourinho sono come gli amori finiti di Preciado: non servono più a niente, sono lingue non più in grado di comunicare. La sua aggressività mescolata all’empatia, la ricerca del conflitto e della massima tensione emotiva, la produzione seriale di trincee: a Roma sta mettendo in mostra di nuovo tutto il suo campionario, quella costruzione di comunità per la quale viene pagato così tanto, ma niente sembra più funzionare. Come aveva funzionato poco a Manchester e per niente già al Tottenham.

Quando la Roma e José Mourinho si sono presi sembrava non solo una scelta reciprocamente affascinante (e questo nessuno può negarlo) ma anche in un certo senso logica: la Roma orfana di tutto e tutti e l’allenatore che, come un padre autoritario, viene a incollarne di nuovo i pezzi insieme intorno a una nuova identità marziale. La squadra adolescente e il padre autoritario. Più che un allenatore dal vasto palmarès (cosa che obiettivamente Mourinho è), la nuova presidenza ha voluto acquistare un’ideologia sportiva preconfezionata. La scelta non è mai, in nessun momento, sembrata davvero sportiva – cioè legata a un modo di fare calcio – quanto culturale, cioè legata a un modello di leadership.

Sulla panchina della Roma, finora Mourinho ha accumulato 13 vittorie, due pareggi e otto sconfitte in 23 gare ufficiali di tutte le competizioni (Paolo Bruno/Getty Images)

Una delle cose belle dell’essere romanisti è in quello striscione che dice: «Chi tifa Roma non perde mai» (esposto per altro anche in occasione di uno scudetto perso contro Mourinho). È un’aspirazione emotiva, ovviamente, perché anche a Roma vorrebbero tornare a vincere e vanno in crisi cronica quando non succede. Il punto è che l’allenatore di Setúbal odia perdere, più di qualunque altra cosa al mondo. Diventa la radio romana di se stesso, un continuo vociare di complotti, polemiche, disagio. Perdere è la cosa che ne tira fuori il suo lato più tossico e problematico. O meglio, rende tossico e problematico l’atteggiamento che Mourinho ha sempre. La sua creazione sistematica di persecuzioni è stata un bellissimo innesco di riscosse collettive, ma dopo tutti questi anni sembra solo una pistola che spara a salve e che non ti fa nemmeno più sobbalzare. Ed è forse con questo aspetto che si presenta la fine della strada per Mou: non essere cambiato di una virgola, ma aver scoperto che il mondo si è evoluto e non gli ha conservato un posto, nemmeno quello del ribelle.