Da oggi è in edicola il nuovo numero di Undici, e il volto in copertina è quello di Lorenzo Insigne, capitano del Napoli. Non poteva essere altrimenti, e non solo per il grande avvio di stagione della squadra partenopea: la cover story di Undici è tutta dedicata alla città partenopea, al rapporto tra il Napoli e la sua tifoseria, alla storia della squadra azzurra e alla nuova coolness del club di De Laurentiis. C’è anche un articolo sul legame profondissimo tra Paolo Sorrentino – regista di È stata la mano di Dio, film italiano candidato all’oscar come miglior film straniero – e il Napoli, a partire ovviamente dalla sua venerazione per Diego Maradona, a un anno dalla scomparsa del Pibe de Oro.
Il cuore della cover story è però l’intervista a Insigne realizzata da Angelo Carotenuto, con ritrati firmati da Jim C. Nedd: il capitano azzurro ha parlato della sua vita, della sua carriera, ma anche della città in cui ha sempre vissuto, di come viene vista e percepita dagli altri, da chi non la vive e quindi non la conosce.
Ecco alcune delle dichiarazioni più significative di Insigne: sulla sua formazione, il capitano del Napoli ricorda l’importanza di giocare in strada, il fatto che «mettevamo dei mattoncini come porte, si sapeva quando si cominciava e non si sapeva quando si finiva. Ci sono andato anch’io alla scuola calcio, mi hanno insegnato molte cose, non quelle che ho imparato per la strada». Nonostante un talento evidente, da ragazzino ha svolto molti provini che non sono andati bene: «Il più grande pregiudizio nei miei confronti è stato l’altezza. Al Torino, mi assicurarono che a 14-15 anni sarei andato da loro per un provino: partii, feci due-tre allenamenti, giocai una partita. Dopo mi dissero: sì, bravo, ma onestamente ci aspettavamo che crescessi. Mi mandarono a casa, e la stessa cosa successe all’Inter. L’unico che ha creduto in me è stato Peppe Santoro, al settore giovanile del Napoli».
Sul rapporto tra sé e Napoli, Insigne ha detto: «La gente si è sempre aspettata tanto da me. Ho cercato di ricambiare. Ho avuto degli screzi qualche volta coi tifosi e mi dispiace. Qualcuno non mi ha mai compreso al 100 per cento. Chi mi conosce davvero, sa come sono fatto». Sulla città vista dall’esterno, invece, il capitano ha una visione che vuole andare e va oltre gli stereotipi: «Napoli, se non la vivi, non la conosci. Io sono nato qua, potrei non fare testo, ma sento parlar bene di Napoli da tutti i miei compagni dentro lo spogliatoio, quelli che hanno girato tanto il mondo, quelli che sono venuti con le famiglie. Io non potrei dire cose sensate su Torino, se non ho mai vissuto là. Credo debba valere lo stesso per Napoli, che soffre di molti pregiudizi, resta spesso schiacciata da un certo odio che esiste tra i tifosi.
Sugli allenatori con cui ha lavorato in carriera, Insigne ha detto: «Zeman è stato decisivo, il primo a credere in me. Benítez mi ha completato: avevo sempre pensato che per me il calcio fosse solo attaccare. Il calcio con Sarri è gioia: mi sono divertito tanto in tre anni, ci è solo rimasta la delusione di non aver vinto lo scudetto. Su Ancelotti non è vero che non ci siamo presi. Avevamo idee diverse, questo sì, su cose di campo. A Gattuso devo tanto. Dopo gli anni di Ancelotti così così, è stato bravo a farmi tornare sui miei passi e a rimotivarmi. Spalletti è una personalità forte: ci ha restituito consapevolezza nella nostra forza».