Di chi è la colpa nel caso Djokovic

Cos’è successo in Australia? Come mai il serbo è partito lo stesso? Tutto, ma proprio tutto, quello c’è da sapere sulla surreale vicenda di Nole.

Siccome non può essere accusato di ignoranza, nel mare magnum di opinioni traballanti sul caso di Novak Djokovic vale la pena conoscere il rendiconto sulla vicenda fornito, per il quotidiano The Age, da un ex ufficiale del dipartimento immigrazione australiano. L’Australia omnia divisa est in partes septem: ci sono i sette Stati e poi c’è lo Stato federale, che ha competenze sia esclusive, sia in concorrenza con i componenti la federazione. In via esclusiva, controlla gli ingressi nel Paese. Esclusiva vuol dire che non esiste altro organo che possa mettere becco sullo status giuridico di un essere umano che si presenta alla frontiera e vuole entrare in Australia. Salvo la magistratura, in caso di ricorso, come accadrà lunedì prossimo al numero uno del tennis, che non è nuovo alle sfide: sua è stata l’idea di fondare un’associazione (la Ptpa) concorrente dell’Atp, per tutelare meglio i giocatori non miliardari in euro (o giù di lì) come lui, iniziativa dai presupposti meritori e dagli effetti finora impalpabili. Sua la trovata di organizzare una serie di esibizioni, l’Adria Tour, in piena pandemia 2020, anche quella pensata a fin di bene (dare un po’ di denari a colleghi disoccupati causa virus) e conclusa non esattamente in gloria, con finale non disputata causa contagi dei partecipanti – lui compreso. Sua, tra le altre, l’iniziativa di ospitare in video una conventicola di guru, fautori di cure alternative, coach del pensiero e varia umanità a-scientifica durante uno dei primi lockdown. Sua, infine, la scelta di fare resistenza alla graduale estensione dell’obbligo vaccinale per accedere ai tornei.

Novak Djokovic aveva sottoposto il suo stato di salute (di non vaccinato, evidentemente) alle commissioni mediche del Victoria, ottenendo un responso positivo, cioè l’esenzione dall’obbligo vaccinale. Il non detto era che quel certificato non significava automaticamente l’immunità alla frontiera: difatti, il serbo si è trovato una mano sul petto in discesa dall’aereo, dopodiché è stato condotto in uno stanzino e interrogato, al fine di stabilire se sussistessero o meno i requisiti per accettare il suo ingresso in Australia. Con risposta negativa e annesso trasferimento in un residence piuttosto squallido, in compagnia di richiedenti asilo e altre persone in attesa di respingimento. Una brutta figura collettiva.

Eppure, il clan Djokovic si era informato lo scorso novembre sulle condizioni di ingresso e, su mandato del giocatore, sulle possibilità di ottenere un’esenzione vaccinale. Lo Stato che ospita il torneo ne prevede quattro: tre, legate a condizioni che si possono serenamente escludere nel suo caso (infiammazioni cardiache gravi, imminenti operazioni chirurgiche, stati mentali alterati). L’unica percorribile restava la prova di aver contratto negli ultimi mesi il covid, e quindi di dovere-potere rinviare la prossima dose di vaccino per qualche tempo. In conseguenza di ciò, il giocatore ha presentato una istanza di dispensa dal vaccino. Accettata. E allora: o chi ha giudicato il contenuto della sua cartella clinica si è venduto (ma i dossier erano anonimi, il che rende la possibilità ancora più remota), o il tennista di Belgrado ha presentato documenti contraffatti (implausibile) oppure – ed è ovvio scegliere questa terza via – è tutto vero: Djokovic è guarito dal covid da poco e, quindi, era titolare di una causa legittima di non vaccino. Ma allora, come è stato possibile che martedì scorso, all’ora di pranzo, il nove volte campione degli Australian Open sia partito alla volta dell’Happy Slam per poi essere trattenuto dai frontalieri prima e vedersi negare il visto di ingresso poi?

La spiegazione, finora mai smentita, è che nessuno si era preso la briga di specificare al campione serbo che il sì di una commissione medica non potesse sostituire il visto. Che non è un referto clinico compilato da un gruppo di esperti sanitari ma un atto amministrativo, che valuta in maniera indipendente e sovrana la situazione di un richiedente. Solo che, quando Djokovic ha presentato ai federali le carte per ottenere il visto, settimane fa, non gli sono state poste domande sul suo stato vaccinale. Difatti, gli è stato concesso senza problemi. Mentre saliva a bordo né l’autorità di frontiera, che è sempre presente nel caso di voli diretti verso l’Australia, direttamente o per interposta persona, né lo staff della compagnia ha avvisato il tennista del fatto che il suo ingresso nel Paese non fosse garantito, a dispetto della deroga sanitaria concessa. E questa dormita collettiva è una colpa non indifferente del sistema australiano. Anche perché è emerso che pure Tennis Australia, la federazione che organizza il torneo, sapeva: esistono agli atti due lettere che la federtennis locale ha ricevuto a novembre, da parte dello stesso panel che ha esentato Djokovic dal vaccino. Il testo è chiaro:  occhio, perché questo nostro pass medico non è un pass frontaliero. E allora, per quale motivo tutto ciò non è stato riferito al giocatore, anzi, agli altri giocatori e accompagnatori (tre o quattro in tutto) che hanno ottenuto l’esenzione?

Ci si è svegliati solo a bomba esplosa, mentre Novak era ormai in volo sopra l’oceano. E se non si fosse trattato di uno degli atleti più celebri al mondo e più vittoriosi di sempre in Australia, forse non sarebbe capitato nulla: tanto è vero che gli altri esentati del torneo non hanno subìto alcun interrogatorio all’atterraggio, anche perché nessuno di loro aveva dichiarato pubblicamente di essere stato esonerato. Sono entrati e solo adesso i frontalieri stanno, ex post, indagando sul loro ingresso.

Alla fine, dopo che politici locali, statali, e pure il primo ministro del Commonwealth Scott Morrison hanno sentito il bisogno di pronunciarsi sul caso Djokovic, ribadendo il fatto che nessuno è al di sopra della legge né può ottenere privilegi rispetto a qualunque altro individuo (perché, è mai stato in discussione?) è finita con la scena, francamente patetica, di Djokovic trasportato contro la sua volontà in un hotel per richiedenti asilo, un casermone grigio in periferia, come un furbastro che prova a saltare i controlli alla dogana e viene pinzato dalla polizia. I suoi avvocati hanno ottenuto di prolungare il soggiorno fino a lunedì prossimo e hanno fatto appello a una corte competente per chiedere il ripristino del visto.

Eppure esistevano tempi e modi per evitare tutto ciò: se Djokovic avesse saputo che il suo visto sarebbe stato giudicato, una volta atterrato, da una autorità che aveva il potere di rimandarlo a casa (la legge parla di chiunque rechi «una condizione che rappresenti un rischio per la salute pubblica o un pericolo per la comunità»), c’è da supporre che avrebbe condotto da remoto la trattativa che si è trovato ad affrontare, del tutto sprovveduto, all’atterraggio. Dopodiché, se Djokovic avesse agito più furbescamente (per esempio non dichiarando di aver ottenuto un’esenzione: non era obbligato a farlo, né i panel sanitari avevano la libertà di rilasciare dichiarazioni sul suo stato di salute) se la sarebbe anche potuta sfangare da esentato, perché è stata l’onda di polemiche susseguenti il suo comunicato sui social a spingere i federali australiani a procedere a un fermo per immigrazione irregolare. E se la vicenda fosse accaduta in un altro momento, e cioè non con le elezioni politiche alle porte e l’ondata di contagi Omicron in pieno galoppo in Australia con forte allarme sociale e frustrazione per sicuri e ulteriori sacrifici imposti ai cittadini, è altresì possibile che non si sarebbe arrivati a nulla di quanto sta capitando.

Ma questo, il dichiararsi esentato, è il risvolto della storia, che ne è pure la premessa. Se Novak Djokovic è in questa situazione oggettivamente spiacevole non è per sfortuna, né per ripicche, o invidia, né incapacità sua o accanimento altrui. Semplicemente, il serbo è orgogliosamente non vaccinato. Tutto fa pensare che abbia voluto di proposito dare la notizia, non essendo obbligato a dichiarare il suo stato di esentato, perché fiero di potersi imbarcare senza vaccino. Che non considera l’arma formidabile che invece è (come pacificamente accettato da una maggioranza plebiscitaria) nonostante non sia la soluzione a tutti i mali – e attenzione ai termini, perché funzionare non significa che agisca sul 100% dei vaccinati, né che sul 100% delle persone garantisca l’infezione asintomatica. Anzi: uno dei problemi più cogenti dei vaccini contro il covid è che stanno mostrando, finora, di durare poco. Ma se oggi c’è una parte di mondo, quella in larga parte vaccinata, che sta vivendo una vita tutto sommato normale, e comunque non paragonabile ai coprifuoco del 2020, lo si deve alla protezione dei vaccini. Djokovic e chiunque altro è libero di non crederci, ma non è una discussione al bar tra interisti e milanisti, che uno la pensa così e l’altro cosà. Esiste una rete globale di istituzioni, farmacopea e sì, di progresso scientifico globalmente accettato – salvo frange di bastian contrari – per cui, così come un malato non lo si manda ad abbracciare una betulla nel bosco ma in ospedale, si è stabilito che questo virus è troppo pericoloso per essere lasciato correre in libertà, e che finora l’immunizzazione è lo strumento più efficace per limitarne i danni.

Novak ha potuto scegliere: vaccinarsi o no. E ha scelto. Ma pure l’Australia, come il resto del mondo, ha scelto. È un Paese democratico i cui rappresentanti hanno, fin da subito, agito con la massima violenza possibile contro l’infezione. Melbourne, da sola, ha totalizzato 262 giorni di lockdown. Hanno chiuso i confini anche ai loro cittadini, lasciandone a migliaia sparsi per il mondo e impossibilitati a tornare a casa, per un anno e mezzo. E uno Stato che ha messo in chiusura coatta una metropoli da quasi un milione e mezzo di persone perché un pizzaiolo non aveva informato di essere positivo al covid, figurarsi se si fa il problema di respingere al portone di ingresso una persona che non può dimostrare di non essersi vaccinata per cause di forza maggiore. Perché un conto è sostenere di non aver potuto fare l’ultima dose; altro è non essersi mai vaccinati – come nel suo caso – perché si è contrari alla pratica. E se si è contrari a una profilassi che lo Stato ospite ritiene fondamentale per la protezione pubblica, tocca affrontarne le conseguenze.

Resta un punto da tentare di esplorare, quello umano. Non meno importante, e nel quale però il tasso di opinione incide con pesi superiori. Ma il problema va posto: perché nel cammino, costellato di successi, verso la missione di abbattere buona parte dei record del tennis, Novak Djokovic non ha scelto un profilo alla Pete Sampras, del quale si conosceva a menadito la meccanica del dritto in corsa ma nulla delle idee, convinzioni, passioni extraterritoriali rispetto al gioco, sempre che sussistessero. Nella foga di non accontentarsi di diventare migliore dei due più grandi, Federer e Nadal, il serbo ha usato la leva della sua indubbia intelligenza e della sua patente intransigenza per convincere prima se stesso, e poi tentare analoga impresa coll’universo mondo, di essere migliore. Anzi, il migliore.

Cadute e risalite (di stile, di gesti, di parole) depongono a favore di una persona che cerca di combattere la propria ala più oltranzista, rigida e spietata con pensieri e azioni uguali e contrari: gesti di generosità estrema (ha donato un milione a un ospedale di Bergamo per curare i malati covid!), baci e abbracci a umani e altri essere viventi, sorrisi a profusione, cedevolezza e mansuetidine. Le sue attività di autopromozione – dichiarazioni, fotografie, video, uscite pubbliche – raccontano l’ansia di dimostrarsi sempre qualcosa di più e di meglio. E mentre lo faceva sul campo, con risultati clamorosi, la sua attenzione si allargata ad altri aspetti del benessere: l’alimentazione, l’equilibrio psicofisico, insomma, il raggiungimento della beatitudine. La NoleFam non è solo una tifoseria, ma la sua famiglia virtuale, dove i bei sentimenti albergano eternamente. La nutrizione, con le linee di snack salutisti e la ristorazione vegana in cui manco l’acqua frizzante veniva servita ai tavoli, perché artificialmente addizionata di anidride carbonica (nota a margine: il suo locale di Monte Carlo, EqVita, ha chiuso dopo due anni). La meditazione. “La crescita personale”, locuzione tra le più ricorrenti nella sua narrativa affidata ai canali social.

Qui non è in discussione la convinzione: chi sta vicino a Novak Djokovic può confermare che non ci sia alcunché di artefatto. Non esiste amico, consigliere o confidente che possa smuoverlo nelle sue iniziative. Né manager accorto. Lui fa quello in cui crede e fa quello che crede, e non c’è verso di deviare il flusso delle sue certezze. Non cerca pubblicità, anche nelle iniziative più controverse, perché non ne ha alcun bisogno, essendo celeberrimo. Vorrebbe ottenere un consenso sempre crescente, un universale riconoscimento di eccellenza. E se, nella sua ricerca continua della perfezione, dal glutine alla gratitudine, dalla indubbia capacità di rendere il suo corpo una macchina dall’efficienza sbalorditiva alla spiritualità che talora degrada in stregoneria, il vaccino contro il covid lo ha sistemato alla voce “veleni che inquinano il corpo”, allora il vaccino diventa una cosa di cui fare a meno, a tutti i costi. A costo di uno Slam, a costo del tennis. A costo del proprio status di numero uno, e di mettersi contro i sentimenti di tre quarti di un mondo ferito e sfinito.

A detenzione in corso, invece di mandargli una pacca sulla spalla, mamma e papà si sono messi le magliette con l’effigie e il logo del loro figlio, hanno preso un megafono e improvvisato una conferenza stampa a Belgrado per ribadire che il loro Novak è «come imprigionato e umiliato come Gesù; è come Spartaco, simbolo del mondo libero che combatte le ingiustizie». Il padre, poi, se l’è presa col premier Morrison, che ha «osato attaccare ed espellere Novak. Avrebbero voluto mettere in ginocchio lui e tutta la Serbia. Ma noi siamo orgogliosi. Guardando la storia, non abbiamo mai attaccato ma ci siamo sempre difesi». Ecco, forse basta questo. Aprire un libro di storia e darsi le risposte che mancano.