Il Napoli di De Laurentiis è il secondo miglior Napoli di sempre?

Al produttore e alla squadra azzurra, fallita e risorta nel 2004, manca un grande trofeo. Eppure quest'era deve essere considerata come la più florida nella storia del club, al di là dell'irripetibile parentesi di Maradona.

Nella primavera del 1997, mentre stavo per terminare la prima elementare, il più importante quotidiano napoletano – Il Mattino – avviò una fortunata iniziativa editoriale: per quattro settimane uscì con delle videocassette sul Napoli curate da Salvatore Biazzo, giornalista sportivo della Rai. Le prime tre erano incentrate sull’era-Maradona, sui due scudetti vinti e sul trionfo in Coppa Uefa a cavallo tra il 1987 e il 1990; la quarta cassetta era molto più ambiziosa, perché si proponeva di ricostruire l’intera storia del calcio napoletano – iniziata molto prima del 1926, anno di fondazione del Napoli– attraverso filmati d’epoca custoditi nelle teche Rai. Ancora oggi quelle videocassette dal packaging indimenticabile – azzurro fluo con Word Art bianche e giallo-arancio sulla costa – sono in bella mostra nella mia casa di Napoli e nelle case di molte persone che conosco. Ancora oggi, quando vado a riguardare gli spezzoni di quei documentari su YouTube, mi rendo conto di ricordare a memoria tutte le interviste di Maradona, tutti gli interventi e gli interludi di Biazzo. Ci sono almeno altri quattro o cinque amici, bambini o ragazzini del 1997, che mi hanno confessato di avere lo stesso problema.

La quarta cassetta uscita con Il Mattino, quella ambiziosa, che senza grande fantasia si intitolava “Il Napoli nella Storia”, mi è tornata in mente poche settimane fa: in un articolo di Paolo Macry sui “Sovrani Repubblicani di Napoli”, pubblicato da The Passenger, c’era la storia di uno dei protagonisti del documentario di Salvatore Biazzo, vale a dire Achille Lauro. Oltre che un potentissimo armatore, Lauro è stato segretario del Partito Nazionale Monarchico, sindaco di Napoli (due mandati tra il 1952 e il 1961) e presidente del Napoli a più riprese tra il 1936 e il 1954 – in realtà è stato proprietario occulto del club molto più a lungo, infatti la sua influenza è durata almeno fino al termine degli anni Sessanta. La prossimità tra il pezzo di Macry e il documentario di Biazzo va ben oltre la figura controversa di Lauro: nel corso della sua storia millenaria, Napoli si è fatta ammaliare da molti altri leader monocratici, popolari e forse anche populisti. Il pensiero corre istintivamente ai viceré francesi e spagnoli, a Masaniello, a Maurizio Valenzi, sindaco comunista negli anni Settanta e nei primi anni Ottanta, ai democristiani post-dorotei della Corrente del Golfo, a Bassolino, a De Magistris. E poi anche agli altri grandi presidenti del Napoli: Giorgio Ascarelli (il fondatore del club) e Corrado Ferlaino, prima e dopo Lauro, hanno messo le mani sulla squadra – e quindi sulla città, parafrasando il film capolavoro di Francesco Rosi – e l’hanno monopolizzata, si sono presi l’intero palcoscenico e in pochi frangenti sono stati oscurati da tecnici o giocatori più celebri di loro. Non a caso, la narrazione del documentario “Il Napoli nella Storia” era scandita dalle loro biografie, dai tempi del loro ingresso in società e del loro disimpegno; le gesta dei campioni e/o degli allenatori che hanno nobilitato la storia azzurra, Careca, Krol, Juliano, Sivori, Zoff, Vinicio, Pesaola, Jeppson, Sallustro e persino Maradona, venivano raccontate come delle parentesi aperte e chiuse da coloro che li hanno messi sotto contratto.

Tutti i presidenti più illustri nella storia del Napoli, insomma, sono stati proprietari e padroni in una città che ama e venera i padri, che fatica a staccarsi da loro. Anche se poi finisce inevitabilmente per odiarli: Giorgio Ascarelli è morto a soli 36 anni e quindi non ha avuto il tempo di essere ripudiato, ma Achille Lauro e Corrado Ferlaino sono stati ferocemente contestati prima del loro addio, per poi essere rivalutati e addirittura rimpianti solo dopo, a distanza di moltissimo tempo. Soprattutto da quando, sul Napoli, si è stagliata la figura di Aurelio De Laurentiis.

Quando i tifosi del Napoli contestano De Laurentiis, intonano cori o espongono striscioni in cui affermano che la squadra appartiene a loro perché è sempre stato così, commettono dunque un errore storiografico: il Napoli è sempre appartenuto a un uomo solo e ben inquadrato dal punto di vista imprenditoriale e/o politico, a un amministratore unico dalla personalità ingombrante e accentratrice, per non dire oscura. De Laurentiis, quindi, non ha alterato o cancellato nessuna tradizione. Anzi, in virtù del suo carattere dominante, spregiudicato, istrionico, furbo e perciò divisivo, è un erede perfetto per tutti coloro che sono venuti prima di lui. Le uniche differenze con i suoi predecessori riguardano la geografia e l’approccio al lavoro di dirigente sportivo: pur essendo discendente di una famiglia di Torre Annunziata, De Laurentiis è nato e cresciuto a Roma, risiede ancora a Roma anche se per molti mesi all’anno si sposta a Los Angeles, parla con un accento romanesco chiaramente percettibile, solo più ingentilito rispetto a quello dei personaggi immaginati e scritti da Carlo Verdone. E poi non è un presidente-tifoso, piuttosto un imprenditore calcistico che pensa e agisce in modo misurato, lungimirante. Entrambi questi aspetti, soprattutto il secondo, fanno schiumare di risentimento una grandissima fetta di tifosi del Napoli, e infatti da molti anni De Laurentiis deve fare i conti con una falange d’opposizione compatta e trasversale, con un esercito di contestatori che arruola gli ultras del centro storico e delle periferie, i professionisti dei quartieri chic e panoramici, i padri di famiglia che abitano in provincia, che seguono la squadra in tv e vanno allo stadio ogni volta che possono.

Poco prima dell’ultima partita tra Inter e Napoli, a novembre 2021, Massimo Moratti è stato intervistato da Il Mattino. L’ex proprietario del club nerazzurro è considerato uno dei più grandi – ma anche uno degli ultimi, a livello temporale – presidenti-tifosi e quindi mecenati: è stato amatissimo dal popolo nerazzurro e ha vinto tanto, anzi ha vinto tutto, ma solo dopo molti anni fatti di ansie e delusioni e spese eccessive, senza programmazione. Pensando in termini di nemesi, moltissimi tifosi del Napoli – o comunque tutti quelli che accusano De Laurentiis di non spendere sul calciomercato – vorrebbero un Moratti alla guida della loro squadra del cuore. Eppure, parlando al Mattino, è stato proprio Moratti a dire che «De Laurentiis ha ragione. Perché ha costruito le cose con pazienza e senza fare pazzie, mettendo il Napoli nelle condizioni di essere sano in ogni momento. Ha sempre trattato il calcio come un’azienda, proprio quello che non ho fatto io. E perciò merita di vincere lo scudetto».

Gonzalo Higuaín ha giocato nel Napoli dal 2013 al 2016, accumulando 146 presenze in gare ufficiali e 91 gol segnati; due di questi sono arrivati nella finale di Supercoppa Italiana 2014, vinta a Doha contro la Juventus dopo i calci di rigore (Karim Jaafar/AFP via Getty Images)

La realtà è tutta qui, nelle parole di Moratti che fotografano i fatti e la loro contemporaneità: il Napoli di oggi è una squadra molto forte – al punto da tornare in corsa per lo scudetto – perché è una società solidissima dal punto di vista patrimoniale, nonostante i molti colpi subiti: il bilancio della stagione 2019/2020, la prima condizionata della pandemia, si è chiuso con una perdita di 18,6 milioni di euro; in quella successiva il rosso ha toccato quota 58 milioni, il disavanzo negativo più alto registrato dal 2004, ovvero dall’inizio dell’era De Laurentiis; nel 2021, inoltre, la squadra allenata da Gattuso ha mancato la qualificazione in Champions League per il secondo anno consecutivo. Nonostante tutto, le riserve accumulate negli anni precedenti hanno permesso al club di non affondare, di continuare ad autodeterminarsi sul mercato e quindi in campo. È proprio questo il punto focale: grazie al modello De Laurentiis, il Napoli non è mai stato costretto a vendere alcun giocatore, se non quando la Juventus ha versato l’importo della clausola rescissoria di Gonzalo Higuaín. Non ha dovuto cedere nessuno neanche in questo periodo di recessione calcistica universale, e se l’ha fatto in passato è solo perché un calciatore e/o lo stesso club avevano deciso di interrompere il loro rapporto – come nel caso di Cavani, Hamsik, Jorginho, come avverrà per Insigne – e non certo per esigenze di bilancio, come capitato praticamente a tutte le squadre di Serie A. Non si spiegano e non si spiegherebbero altrimenti le permanenze ormai lunghissime di Koulibaly, Mertens, ma anche di Fabián Ruiz e Zielinski, tutti calciatori che avrebbero potuto o potrebbero aspirare a una maglia da titolare in molte grandi squadre europee, forse in tutte.

Questa regolarità progettuale ad altissimi livelli viene confermata da due dati piuttosto indicativi: secondo l’osservatorio calcistico CIES, il Napoli è la squadra di Serie A – tra quelle che non sono mai retrocesse – che ha utilizzato meno calciatori (67) dal 2015 a oggi; inoltre è stata la seconda società nella storia del calcio italiano ad aver ingaggiato ben due allenatori capaci di vincere la Champions League all’estero: Rafa Benítez e Carlo Ancelotti. Evidentemente la rosa e le prospettive offerte da De Laurentiis sono state giudicate appetibili, convincenti, anche da grandi professionisti. E poi è curioso – ma anche molto significativo – rilevare che, prima del Napoli, l’unica società di Serie A che abbia assunto due tecnici campioni d’Europa all’estero sia stata proprio l’Inter di Moratti, ai tempi di Mourinho e Benítez.

C’è un altro dato che De Laurentiis snocciola orgogliosamente in ogni intervista, come se fosse il claim della sua gestione: il Napoli è la squadra italiana che gioca da più tempo in Europa. È assolutamente vero: dopo la fugace comparsata nella Coppa Uefa 2008/09, il club partenopeo si è qualificato all’Europa League 2010/11 e da allora ha sempre partecipato, ogni anno, a una delle due competizioni Uefa. Neanche Juventus, Inter e Milan possono vantare una striscia così lunga, che ovviamente rappresenta un record assoluto nella storia del Napoli: tra il 1962 e il 1995, anno dell’ultima apparizione in Coppa Uefa prima dell’era-De Laurentiis, il club azzurro aveva messo insieme 104 partite internazionali; negli ultimi undici anni, le gare europee sono state 118, di cui 46 in Champions League. Se a certi numeri aggiungiamo quelli relativi ai record assoluti di punti e di gol polverizzati più e più volte, quelli dei podi in Serie A – tra il 2011 e il 2021 il Napoli è arrivato quattro volte secondo e tre volte terzo, per un totale di sette podi sui venti complessivi in 70 stagioni nel massimo campionato – e quelli del Ranking Uefa, in cui il Napoli è risalito fino al 15esimo posto, è evidente che questi anni debbano essere considerati come i più floridi e più continui nella storia del club. Anche perché, nel frattempo, sono arrivati pure tre successi in Coppa Italia (2012, 2014 e 2020) e quello nella Supercoppa Italiana del 2014.

Nel triennio 2015-2018, il Napoli di Sarri ha battuto per tre volte il record di punti della squadra azzurra in Serie A: 82 punti nel campionato 2015/16, poi 86 nel 2016/17 e infine 91 nel 2017/18 (Marco Bertorello/AFP via Getty Images)

In un articolo pubblicato su El País a settembre 2021, Daniel Verdú ha scritto che De Laurentiis «ha preso un club derelitto, inesistente se non in una manciata di cambiali, e l’ha riportato a un nuovo splendore. Però vive e soffre il confronto eterno e perdente con gli anni di Maradona, con le sue vittorie, e allora sembra che non abbia fatto niente. Ma non è così». È una lettura intelligente: al Napoli di De Laurentiis mancano effettivamente uno scudetto e/o un grande trionfo europeo, ma la verità è che il club azzurro viaggia da tempo a una velocità media mai toccata prima, in ogni caso molto superiore a quella tenuta nel corso della sua storia. In un calcio mai così stratificato a livello globale, in cui la patente di top club si ottiene solo quando arrivano proprietà con capitali enormi, se non addirittura degli Stati sovrani, in cui i grandi titoli nazionali e internazionali vengono vinti sempre dalle stesse squadre (dal 2011 a oggi lo scudetto è andato nove volte alla Juve e una all’Inter, mentre i 33 trofei per club messi in palio dalla Uefa sono finiti nella bacheca di nove club in tutto), costruire una società in grado di rimanere costantemente ai massimi livelli, che da anni esiste e resiste a pochi passi dal circolo chiuso dell’élite, è equiparabile alla vittoria di uno scudetto. O forse vale ancora di più, perché il caso del Napoli è davvero estremo, se consideriamo che De Laurentiis è partito dalla Serie C1 nel 2004 e ora la rosa affidata a Spalletti vale oltre 500 milioni di euro (secondo i dati di Transfermarkt). Ripensandoci, poi, il Napoli ha raggiunto l’unico vero picco della sua storia sfruttando l’arrivo e l’aura mistica di uno dei calciatori più forti di tutti i tempi, una congiuntura irripetibile ai giorni nostri. E chissà per quanto altro tempo.

Tutto questo non significa che De Laurentiis non abbia commesso errori. Ancora oggi, infatti, il Napoli è un club verticale, verticistico ed estremamente volatile: l’unico asset che possiede davvero sono suoi i calciatori, perché ha investito davvero pochissimo su infrastrutture proprie e settore giovanile; inoltre solo da pochi anni si è dotato di un board più articolato, in grado di mettere a punto una strategia organica di potenziamento ed espansione del brand. E poi è stato fin troppo conservativo sul mercato, ma non quello in entrata come sostengono i tifosi ipercritici: l’assenza di cessioni di peso dal 2018 a oggi – forse causata dalla mancanza di coraggio, dalla convinzione che il gruppo storico di Benítez e Sarri non potesse essere migliorato in alcun modo – ha rallentato lo sviluppo dell’organico, costringendo Ancelotti e poi Gattuso ad adattarsi fino al punto di smarrire la loro identità, e la bussola tattica.

L’avvio meraviglioso di Luciano Spalletti, però, ha dato di nuovo ragione e nuova linfa a De Laurentiis, al suo modello di business sportivo misurato e paziente, che aderisce così poco al suo profilo pubblico a dir poco vulcanico, alle sue manifestazioni provocatorie, tipicamente cinematografiche – il New York Times l’ha definito «un uomo di spettacolo che sa come intrecciare una trama avvincente, ma che parte per la tangente ogni volta che parla». Il punto è che nel calcio, va da sé, quel che conta e che resta davvero sono i numeri, le statistiche, i risultati. E allora De Laurentiis ha un posto e un peso importanti nella storia del Napoli, ne fa parte a pieno titolo. A Napoli, forse, se ne accorgeranno solo dopo, quando tutto sarà finito. Esattamente come è capitato per i suoi predecessori.

Da Undici n° 42