Tutto quello che non sta funzionando tra Lukaku e il Chelsea

L'attaccante belga doveva rendere imbattibili i Blues, ma ha finito per creare una lunga serie di problemi e malintesi.

«Fisicamente mi sento bene, non sono mai stato meglio. Non sono contento della mia situazione, ma sono un professionista e devo continuare a lavorare duro. Il mister ha cambiato modulo e bisogna capire se e come posso adattarmi a questo modo di giocare. Penso che l’allenatore possa farmi giocare di più, ma devo rispettare le scelte che lui fa. Stiamo cercando un modulo dove io e lui possiamo trovarci, per aiutare la squadra al meglio. Ha fatto una scelta, ma a un certo punto parlerò con lui e vedremo la situazione». Questo passaggio, in apertura dell’ormai celebre intervista concessa a Sky, è l’unico accenno che Romelu Lukaku fa al calcio giocato, ai suoi problemi di e sul campo, da quando ha scelto di tornare al Chelsea.

Si tratta di un dettaglio solo apparentemente marginale, che finisce con il passare in secondo piano solo perché nell’epoca in cui «in una settimana parliamo due giorni della partita e gli altri cinque dei trasferimenti» – cit. Mino Raiola, naturalmente – lo sfogo emotivo di Lukaku costituisce il pretesto ideale per alimentare ulteriormente il linguaggio sensazionalistico e stereotipato alla base della narrazione del calciomercato. Qualcosa per cui appare assolutamente credibile, anzi coerente, che un giocatore costato 115 milioni (più 12 d’ingaggio fino al 2026) appena cinque mesi fa, si senta assolutamente tranquillo nell’affermare che, se fosse stato per lui, sarebbe rimasto all’Inter e che Lautaro Martínez deve restare lì perché tanto, a breve, sarà lui a tornare.

Se si vogliono comprendere sul serio i motivi per cui Lukaku non è ancora riuscito ad avere un impatto adeguato al suo status di acquisto più caro nella storia dei Blues, è proprio dal campo che bisogna partire, andando oltre la retorica dell’amante tradito e del bambino rimasto prigioniero del sogno di giocare per la squadra del cuore. Dopo la sconfitta contro il Manchester City, che sembra aver indirizzato la Premier League in modo definitivo, Tomas Tuchel ha detto che «certe volte Lukaku avrebbe bisogno di mettersi più a disposizione della squadra: ha perso tanti palloni senza pressione e in situazioni promettenti. Ha anche avuto una bella occasione, quindi è comunque inserito. Ovviamente vorremmo servirlo, ma lui fa parte della squadra e deve mettersi a disposizione». Il manager tedesco ha spostato il focus di analisi e valutazioni dal particolare al generale, dal singolo al collettivo. Il problema, quindi, non è, o non sarebbe, il rendimento di Lukaku, piuttosto la sua funzionalità nella galassia-Chelsea, la sua efficacia ed efficienza all’interno del sistema. «Noi facciamo di tutto per aiutarlo», ha aggiunto il tecnico tedesco. «E comunque non si tratta di un giocatore ma di uno sport di squadra. Non può diventare una questione di dieci giocatori che ne servono uno: questo non è calcio, questo non il Chelsea». Quasi a voler evidenziare che, almeno fino a oggi, Lukaku ha creato più problemi di quanti ne abbia risolti.

A prima vista, Lukaku era il fit ideale per il Chelsea, per una squadra che, alle lunghe fasi di consolidamento del possesso palla, deve alternare l’attacco della profondità nel minor tempo possibile, occupando preventivamente i mezzi spazi alle spalle delle linee di pressione avversaria. La realtà dei fatti, che prescinde da numeri scoraggianti – l’ex centravanti dell’Inter ha messo insieme sette gol e un assist in 18 partite – e dai problemi fisici di questo primo terzo di stagione, ha detto invece che il belga ha impersonato la variabile statica all’interno di un’equazione dinamica: era stato preso per semplificare un sistema che, invece, funzionava benissimo nella sua complessità tattica e tecnica. Questo cortocircuito si fonda sulla differenza tra ciò che Lukaku avrebbe dovuto fare, in linea teorica, e ciò che ha fatto realmente. E poi c’è un altro aspetto da considerare: il Chelsea, a un certo punto, è sembrato quasi costretto, come squadra, ad assecondare le caratteristiche del suo centravanti, come se l’investimento economico giustificasse l’insistenza nella ricerca di un compromesso che non poteva e non può appartenere ai Blues, di certo non nell’immediato.

In questo senso, molto è dipeso e dipende ancora da Lukaku, dal suo calcio schematico, immediato, diretto, persino primordiale nel dipendere così tanto dalla sua componente fisica, dalla ripetitività con cui cerca e prova determinate soluzioni: dopo un biennio in cui ha manipolato a piacimento le difese italiane con le sue dimensioni fuori scala, ritrovarsi in un campionato dove molti più avversari sono alla sua altezza – metaforicamente ma anche letteralmente – ha fatto riemergere i difetti atavici del centravanti belga. Vale a dire: le difficoltà nel primo controllo, nella lettura dello spazio da occupare in fase di attacco posizionale, nel tempismo sui tagli alle spalle dell’ultimo difensore, nella mobilità in spazi ristretti, nell’espressione di una tecnica in velocità adeguata a un contesto dinamico e iper-cinetico. In pratica è come se Lukaku non si fosse evoluto, o non si fosse evoluto abbastanza, per poter pensare di essere sempre decisivo ad altissimo livello, condizionando scelte e prestazioni di compagni e avversari al di là dei gol realizzati. Ovvero tutto quello che ha dimostrato di poter fare in Serie A, un campionato in cui ha esercitato una supremazia a tratti brutale sugli avversari – solo che aveva il doppio dello spazio e del tempo a disposizione.

Nenche al Chelsea aveva iniziato così male: ora ne parleremo

Eppure nelle prime dieci partite della stagione il Chelsea è stato molto più “Lukaku-centrico” di quanto si immaginerebbe oggi, talvolta ben oltre di quello che sarebbe stato effettivamente necessario. Nel 3-4-2-1 proposto da Tuchel, l’attaccante belga – quattro gol in cinque gare di Premier tra agosto e settembre – era fondamentale per lo sviluppo e la progressione della manovra nell’ultimo terzo di campo, con il suo classico taglio interno-esterno ad aprire lo spazio per l’inserimento di trequartisti e mezzali, o più semplicemente agendo da riferimento per Reece James, Cesar Azpilicueta e Marcos Alonso nel momento in cui questi ultimi entravano dentro il campo alla ricerca delle combinazioni per giocare sul corto e attaccare la zona tra centrale e terzino. Questo ruolo da regista offensivo è però risultato ben presto fin troppo specializzato e condizionante per una squadra che, ricordiamolo, aveva costruito le sue fortune sulla fluidità e l’atipicità del tridente Mount-Havertz-Werner.

Questa contraddizione è emersa con chiarezza nelle due sconfitte consecutive contro City e Juventus a fine settembre, quando l’incompatibilità di Lukaku con questo tipo di calcio è diventata troppo chiara e manifesta per essere ignorata. In particolare nella notte dell’Allianz Stadium, in quella che può essere considerata come la prima partita della stagione in cui i bianconeri hanno difeso davvero come vuole Massimiliano Allegri, cioè concedendo poco o nulla, anche a costo di sacrificare in tutto o in parte la fase offensiva, Lukaku è stato l’involontario monolite intorno al quale incardinare un 3-5-1-1 organizzato per blocchi posizionali particolarmente bassi, in cui la scelta di lasciare la ricezione nei mezzi spazi a Ziyech e Havertz è stata compensata dalla densità esercitata nella propria trequarti difensiva. Da questo punto di vista Lukaku ha costituito un riferimento – fisico e visivo – fin troppo comodo per non essere “sfruttato” dai bianconeri: Locatelli si occupava della prima schermatura ogni volta che Kovacic e Jorginho cercavano l’imbucata verticale, mentre Bonucci e De Ligt si alternavano nell’anticipo forte poco fuori l’area di rigore, approfittando dell’insolita indolenza del belga nella ricezione spalle alle porta.

Al di là della componente episodica insita in una sconfitta in cui la Juventus ha tirato in porta una sola volta, la notte di Torino è diventata il momento di svolta negativa della stagione dei londinesi, nella misura in cui ha instillato in Tuchel il dubbio per cui il suo attaccante di punta, l’acquisto più atteso dell’estate, fosse un problema più che la soluzione ai pochi problemi del Chelsea. Le evidenze a supporto di questa tesi erano – e sono – due: le qualità di Lukaku nell’attacco della profondità risultano profondamente ridimensionate se non espresse in campo aperto; la sua tendenza a ricevere staticamente sull’esterno facilita il raddoppio avversario in zona palla, castrando sul nascere la corse di James e Alonso. Si può dire, insomma, che difendere contro Lukaku – anzi: contro il Chelsea con Lukaku – è diventato troppo semplice, dato che per farlo basta coprire solo determinate zone di campo e forzare la ricerca di un passaggio sull’uomo e non nello spazio.

I desolanti highlights personali di Lukaku contro il Manchester City: sul Guardian, Jonathan Wilson ha scritto che «non c’è da stupirsi che Tuchel fosse frustrato per la prestazione del suo centravanti».

La certezza si è avuta nel return match contro la Juventus a Stamford Bridge, il 23 novembre: con Lukaku in panchina a causa della distorsione alla caviglia che lo aveva tenuto fuori nel mese precedente, il Chelsea è tornato a fare ciò che sapeva e sa fare meglio, cioè consolidare il possesso in attesa che i giocatori di qualità che gravitano sulla trequarti – nella fattispecie erano Ziyech, Pulisic e Hudson-Odoi – trovino la miglior traccia verticale da percorrere. Il blocco difensivo della Juventus, nel frattempo passata in pianta stabile al 4-4-2 ibrido che vediamo ancora oggi, è stato scardinato con una facilità irrisoria: i triangoli McKennie-Bentancur-Cuadrado da una parte e Locatelli-Rabiot-Alex Sandro dall’altra, non sono mai riusciti ad assorbire le corse e i tagli degli uomini delle catene laterali, mentre Bonucci e De Ligt venivano tirati fuori a turno dal movimento a elastico dei due trequartisti, liberando uno spazio in cui Kanté e Jorginho hanno banchettato a piacimento, e in cui i due esterni entravano senza difficoltà.

Al termine di una gara finita con un 4-0 che è parso addirittura riduttivo rispetto alla reale distanza tra le due squadre in campo, Tuchel si è presentato in sala stampa dicendo che «noi vogliamo sempre interpretare le partite al meglio, sia quando difendiamo nella nostra metà campo che quando cerchiamo gli spazi in quella degli altri. A volte le cose risultano più facili, altre no». In pratica, il tecnico tedesco si è mostrato quasi sollevato nel descrivere qualcosa che, finalmente, aderiva alla sua visione del gioco, senza forzature o costrizioni di sorta. Cioè quelle che hanno portato Lukaku a giocare 577 minuti sui 1.430 disponibili dopo quella partita, segnando la miseria di tre gol e alimentando la sensazione per cui ogni volta che scende in campo è perché deve e non perché serva alla squadra campione d’Europa.

Quando ha scelto di tornare a casa dopo le due meravigliose stagioni all’Inter, Lukaku credeva di essere finalmente pronto a giocare ai massimi livelli possibili. E invece sembra che sia stato rigettato, ancora una volta. Raccontando la sua prima esperienza con i Blues, Romelu ha detto «Quando mi sono trasferito al Chelsea avevo 18 anni e non è andata bene. Però avevo sempre quella sfida in testa. Io sono fatto così, nella mia carriera ho cercato sempre di affrontare le difficoltà: mi stimola trovare qualcosa dentro di me per migliorare e aiutare la squadra in cui gioco». Il problema, però, è che la squadra che ha scelto non sa proprio che farsene di lui.