L’Italia è una comunità che ama dipingere se stessa come un ammasso informe di bellezza e talento naturali, che celebra costantemente – a volte anche giustamente – la sua vocazione per l’improvvisazione, per le vittorie colte senza programmazione. In un Paese del genere, Matteo Berrettini è un atipico, una sorta di iconoclasta. Perché i suoi successi e la sua fama ormai planetaria sono il frutto di qualcosa di diverso: un progetto pianificato nel tempo e che è stato ritagliato su di lui, lui che a sua volta si è fatto ritagliare, si è lasciato guidare, si è fidato di qualcuno al di fuori di sé. Così è diventato un grande tennista, anzi il miglior tennista possibile se consideriamo il suo corpo altissimo e quindi un po’ anomalo, la sua muscolatura scultorea, la sua forza sproporzionata rispetto al puro talento.
Non a caso, dopo averlo battuto nella storica finale di Wimbledon 2021, Novak Djokovic ha definito Berrettini un «Italian Hammer». È stato straniante: era da moltissimo tempo – o più probabilmente non è mai accaduto – che uno sportivo così celebre e influente non parlava di un collega/ avversario italiano associandolo a un’immagine che rimanda al lavoro vero, manuale, nel caso specifico a un attrezzo che viene usato nei cantieri, e non snocciolando uno degli eterni cliché italici sulla bellezza, sul talento, o peggio sulla furbizia tattica, l’arte di adattarsi, di speculare, di farsi beffe dei doveri e degli avversari.
Vincenzo Santopadre è stato numero 100 della classifica Atp, poi è diventato allenatore. Dal 2011 ha iniziato a lavorare con l’allora quattordicenne Matteo Berrettini, e da allora non l’ha mai più lasciato. In un’intervista rilasciata a Ubi Tennis, ha usato un aggettivo piuttosto curioso e inusuale per descrivere Berrettini: l’ha definito «spugnoso», alludendo alla sua capacità di assorbire tutto ciò che succede intorno a lui e poi di ingrandirsi, proprio come fa una spugna. È una metafora perfetta: Berrettini era un tennista con alcune evidenti qualità di base – un atletismo fuori scala, un servizio potentissimo, un gran dritto da fondo campo – ma abbastanza limitato in tanti altri fondamentali, forse troppi, per poter puntare a risultati importanti. Giusto per fare un esempio: nella stessa intervista a Ubi Tennis, Santopadre ha raccontato che «Matteo ha dovuto proprio impararlo da zero, il rovescio lungolinea».
Ecco, forse è eccessivo e anche un po’ ingeneroso pensare che Berrettini sia dovuto partire da zero per apprendere tutti quei colpi che oggi esegue con efficacia, con naturalezza. Ma basta rivedere le immagini delle sue prime partite significative nel circuito, diciamo quelle giocate a cavallo tra il 2017 e l’inizio del 2019, per comprendere l’entità dei suoi progressi: quando viene sconfitto da Tsitsipas nelle qualificazioni per gli US Open 2017, Berrettini gioca bene i suoi turni di battuta, ma fa un’enorme fatica a tenere profonda la risposta sul servizio dell’avversario, inoltre perde molti tempi di gioco perché si sposta continuamente sul dritto; nel luglio 2018, quando supera Bautista Agut nella finale di Gstaad e conquista il suo primo titolo Atp 250, copre il campo in maniera molto più matura e intelligente, ma non ha ancora la sensibilità tecnica necessaria per alternare dei colpi di contenimento ai suoi proverbiali tentativi di chiudere subito il punto; alla fine del match che gli costa l’eliminazione al primo turno degli Australian Open 2019, ancora contro Tsitsipas, Berrettini esce dal campo allargando le braccia e con la testa bassa, sembra molto sconsolato, e forse non potrebbe essere altrimenti: ha vinto il primo set ma poi il suo avversario l’ha battuto con autorevolezza, ha contenuto la sua esuberanza fisica, gli ha impedito di esprimere il suo gioco muscolare con delle variazioni troppo difficili da leggere, per uno come lui.
Quando raggiunge la semifinale degli US Open 2019, ed è il primo italiano a riuscirci dai tempi di Corrado Barazzutti, il secondo in assoluto, il New York Times scrive che Berrettini «ha un servizio eccezionale e un gran dritto, ma ha anche dimostrato di possedere la completezza tecnica e l’acutezza mentale necessarie per gestire la pressione di partite così importanti». Sono passati solo pochi mesi dagli Australian Open, eppure è cambiato tutto, è come se Berrettini fosse esploso all’improvviso, senza avvertire nessuno. Solo che in realtà non è stata un’esplosione – che per definizione è un avvenimento intenso ma breve, improvviso, inatteso – quanto una fioritura dopo una semina, cioè un evento pianificato perché possa ripetersi nel tempo. Nello stesso articolo del NYT, in questo senso, ci sono alcune dichiarazioni piuttosto significative di Corrado Tschabuschnig, un membro dell’entourage di Berrettini: «Noi trattiamo Matteo come un 25enne da quando aveva 14 anni: ecco perché è più maturo di molti tennisti, anche più grandi di lui. Il lavoro fatto con Vincenzo Santopadre è sempre stato proiettato nel futuro, non volevamo ottenere tutto subito, sapevamo che ci sarebbe voluto del tempo».
Sono parole bellissime, importantissime, che chiudono tanti cerchi: il tempo è passato, il tempo è servito, e così oggi quel lavoro a lungo termine di cui parla Tschabuschnig si percepisce chiaramente nel tennis adulto di Berrettini, in un catalogo di gioco che si compone dei colpi e dei movimenti essenziali per disputare partite d’attacco, game violenti, punti velocissimi, a cominciare da una battuta mortale (a Wimbledon 2021 ha servito fino a 223 km/h, in carriera ha vinto il 78% dei punti su prima palla e l’87% dei game di battuta), ma anche di tutto ciò che serve per poter rispondere bene, per riprendere fiato dopo i momenti importanti senza dover concedere troppi errori gratuiti, per poter essere dominante anche con la mente, non solo con il corpo, e per poter essere efficace su tutte le superfici – non a caso è diventato anche il primo italiano della storia ad aver superato gli ottavi di finale dei tre Slam che si giocano su erba, terra, cemento. Il raggiungimento di questa completezza formale e sostanziale, come succede sempre, ha finito per esaltare le doti naturali e la consapevolezza di Berrettini, la sua capacità/volontà di imporre il gioco che gli appartiene di più: al Queen’s e a Wimbledon 2021 è stato incontenibile per chiunque si trovasse a dividere il campo con lui, solo Djokovic è riuscito a trovare il modo per non farsi travolgere, per resistere alla sua furia; il fuoriclasse serbo ha vinto la finale grazie alla sua mente tennistica superiore, e perché ha la miglior risposta nell’intera storia del gioco, ma come detto è rimasto impressionato dalla forza, dall’ostinazione, dalla consistenza di Berrettini – altrimenti perché avrebbe usato il termine martello?
In virtù di tutto questo, del fatto che Berrettini sia effettivamente un martello ma anche una spugna, e che quindi si sia ingrandito al punto di diventare uno dei migliori giocatori del mondo, è lecito pensare che forse non sia ancora arrivato all’apice, che a 25 anni possa migliorare ancora laddove servirebbe, nel rovescio e nelle variazioni e nel gioco a rete, che possa essere uno dei protagonisti dell’era di transizione a cui è destinato il tennis ora che la prospettiva di un addio di Federer, Nadal e Djokovic non sembra più così irrealistica. Chissà, forse quest’era potrebbe iniziare proprio adesso. E poi è bello immaginare che il suo esempio, la sua storia e le sue vittorie possano trainare una nuova generazione di giocatori italiani, solo con chiavi diverse rispetto al passato, con le chiavi giuste, quelle che servono: programmazione, fiducia, etica del lavoro. Tutto ciò che occorre per esaltare e sistemizzare il talento, fino a trasformarlo in vittorie, fino a renderlo bellezza, senza alcun bisogno di improvvisare.