La nuova vita delle giocate a effetto

I passaggi di esterno, gli stop e gli assist di tacco, i dribbling con la suola: una volta certi colpi erano considerati dei vezzi estetici, oggi sono diventati delle armi tattiche in grado di determinare le partite.

Quando a Bob Cousy – leggendario playmaker degli altrettanto leggendari Boston Celtics degli anni Sessanta, soprannominato L’Houdini del parquet – venne chiesto come avesse inventato l’assist dietro la schiena, lui rispose che quell’invenzione, in realtà, non era proprio un’invenzione: «La prima volta che ho fatto un passaggio dietro la schiena avevo il difensore a destra: se avessi passato da quel lato lo avrei colpito, così optai per quel tipo di soluzione. Dopo la partita tutti mi chiedevano quante volte lo avessi provato in allenamento ma in realtà non lo avevo mai fatto prima. Come si dice, si fa di necessità virtù».

La spiegazione di Cousy, il primo playmaker visionario della storia Nba, il giocatore che avrebbe influenzato i grandi passatori delle generazioni successive – Pete Maravich, Magic Johnson, Isiah Thomas e John Stockton, fino ad arrivare ai grandi assistmen giorni nostri – basterebbe di per sé a inquadrare i tricks dei grandi giocatori come la soluzione neuro-muscolare più semplice e immediata ai problemi complessi che si manifestano sul campo, come una risposta alla contrazione progressiva e costante degli spazi e dei tempi d’esecuzione delle giocate.

Quasi un anno fa, commentando il gol che Lamela aveva segnato di rabona contro l’Arsenal, su Undici si scrisse che l’argentino «l’ha fatto dopo aver ricevuto un passaggio in area di rigore da Lucas Moura, ed entrambi si muovevano in uno spazio ridottissimo, come se fossero in una stanza degli specchi, o in un’arena di battaglia laser». Tirare e segnare così, utilizzando il piede sinistro come fosse il destro con quest’ultimo a fare da perno, era in pratica l’unico modo in cui un mancino naturale potesse ovviare all’impossibilità di calciare con il piede forte fronte porta. Colpendo il pallone con la rabona l’argentino del Tottenham ha tolto il tempo di intervento al centrale in uscita e al portiere già proteso in tuffo. La sua non è stata una giocata estetica, dunque, ma una soluzione efficace a una situazione di gioco.

Prendiamo, poi, il colpo di tacco, l’equivalente calcistico del passaggio dietro la schiena alla Cousy. Da sempre siamo abituati a considerarlo come un vezzo accessorio, il prezzo da pagare all’edonismo dei giocatori più talentuosi, ma in realtà è il gesto che più di ogni altro ubbidisce a quel concetto di funzionalità che Cousy attribuiva a un colpo eseguito, letteralmente e metaforicamente, in senso e direzione contrari alle modalità convenzionali. Colpire di tacco significa sfruttare l’inevitabile attrazione esercitata dal pallone sugli altri 21 giocatori in campo per ribaltare i rapporti di forza all’interno di un’azione in cui chi difende ha teoricamente adempiuto al compito di respingere chi attacca, restringendo qualità e numero delle scelte a disposizione: Francesco Totti ha fatto del colpo di tacco la pietra angolare su cui ha edificato il suo playmaking, Benzema e Firmino lo hanno reso l’espressione ultima della loro visione periferica, Dybala lo identifica come lo strumento privilegiato per saltare una linea di pressione o per sfruttare le letture dei compagni nella corsa in verticale.

Federico Chiesa, d’altronde, è uno che di corse in verticale se ne intende

Tuttavia c’è da considerare anche l’aspetto relativo alla narrazione, a quella percezione di eccessivo e non necessario che accomuna tutte le giocate che non aderiscono a quell’ideale di “io avrei fatto così” che costituisce il principale grado di separazione tra chi lo sport (agonistico) lo pratica e chi, invece, lo guarda. Si tratta di una sorta di bias cognitivo legato alla stessa natura umana per cui risulta inutile, ridondante, o comunque non valido, tutto ciò che non riusciamo a ricondurre a una visione delle cose che sia univoca, rassicurante, accessibile a tutti. Questa concezione si è poi progressivamente sedimentata nella cultura di massa nelle forme più disparate. In una delle scene culto di Così è la vita, film chiave della cinematografia italiana di fine anni Novanta, il protagonista (non dovrebbe esserci bisogno di specificare che si tratta di Giovanni Storti) si fa rubare l’auto dopo aver imitato il doppio passo di Denílson, in quella che assomiglia tanto a una gigantesca presa di posizione contro il superfluo che distrae dalle cose realmente importanti: e, quindi, chi meglio del giocatore che incarnava l’idea stessa di superfluo poteva rappresentare con un’oggettività così chiara, diretta e brutale un concetto che soggettivo dovrebbe esserlo in re ipsa?

Per questo, quando crediamo che Stéphanie Frappart davvero ammonisca Lucas Paquetà per aver tentato una lambreta su un avversario, e non perché in realtà abbia ignorato i suoi richiami successivi, non facciamo altro che giudicare quel gesto come un’implicita mancanza di rispetto verso un non meglio precisato spirito del gioco. Oppure come una stortura imposta dalla necessità di avere l’ennesima “ultimate skills compilation” su YouTube. In realtà è semplicemente il mezzo attraverso cui raggiungere un fine legittimo e utile, cioè guadagnare tempo nel finale di partita. Ciò che, per esempio, sono riusciti a fare Iker Muniain e Iñaki Williams nei secondi conclusivi di una gara in cui i difensori del Barcellona sono sembrati le vittime inconsapevoli di uno sketch del Benny Hill Show, mentre venivano irrisi con un paio di numeri da playground di periferia, dove il rispetto lo si conquista non limitandosi a battere il proprio avversario, ma toreandolo.

Il modo migliore per tenere un pallone vicino alla bandierina, a meno che non siate giocatori o tifosi del Barcellona

Da questo punto di vista il dribbling è il gesto tecnico che meglio si presta a questo cortocircuito narrativo. Già nel 2017 Marcelo Bielsa sosteneva che in un gioco in cui le squadre sono ormai naturalmente portate a ridurre gli spazi a disposizione «se hai un giocatore che dribbla tutti i problemi svaniscono» e oggi sappiamo che si tratta di un’arma tattica multiforme su entrambi i lati del campo: eppure la valutazione sulla sua effettiva utilità continua a essere legata alla componente estetica, alla prevalenza della forma sulla sostanza, all’interpretazione deteriore di ciò che Jorge Valdano diceva di Riquelme, uno che «per andare da un punto A a un punto B impiegherebbe sei ore utilizzando una tortuosa strada panoramica, ma riempiendovi gli occhi di paesaggi meravigliosi».

Neymar è il giocatore che oggi padroneggia meglio di chiunque altro questo fondamentale, eppure viene costantemente criticato per come dribbla, per quel qualcosa in più che aggiunge a ogni suo dribbling, anzi, a ogni sua singola giocata; ma è proprio ciò che consideriamo evitabile e superficiale a definire la superiorità di Neymar, la sua capacità di fare la differenza ad altissimo livello nello spazio di un momento e di un movimento. Contro il Bayern Monaco, nella partita che ha probabilmente definito la sua legacy in Europa, “O’Ney” ha conferito al calcio professionistico quella connotazione di puro divertimento che gli permette di incidere nel ritorno di un quarto di finale di Champions League contro la squadra campione d’Europa giocando con lo stesso spirito di quando era un menino di Vila Belmiro. E, quindi, sottoponendo Alaba all’umiliazione della cola de vaca, ridicolizzando Coman con una finta di tiro che sembra presa direttamente dalle vecchie versioni di Pes, spezzando il raddoppio portato da Muller e Pavard con la sua personale rivisitazione della croqueta di Iniesta. Alla fine i suoi numeri racconteranno di una partita da sei dribbling riusciti su 12, tre passaggi chiave, 85 tocchi con oltre l’80% di precisione nei passaggi, un’importanza incalcolabile in fase di risalita del campo e di progressione dell’azione in verticale nel momento di massima pressione offensiva del Bayern.

Una delle migliori prestazioni individuali degli ultimi anni

Antony Santos, che di Neymar può essere considerato l’erede naturale per l’espressione di tecnica in velocità e la capacità di cambiare più volte ritmo, direzione e intensità all’interno della stessa azione, sta elevando a forma d’arte l’idea del compromesso tra bellezza e funzionalità, al punto che il suo impatto sulle partite è direttamente proporzionale alla qualità estetica delle sue giocate. Nel corso della partita di Champions League tra il suo Ajax il Borussia Dortmund, per esempio, su un lancio lungo di Lisandro Martínez a cambiare fronte del gioco, Antony controlla il pallone al volo e in volo con l’interno del piede destro fatto passare dietro la gamba sinistra: quello che potrebbe sembrare un gesto del tutto gratuito e out of context, a uso e consumo del pubblico pagante sugli spalti e a casa, è in realtà l’unico modo che Antony ha per non perdere un tempo di gioco a causa di un passaggio leggermente arretrato rispetto alla sua linea di corsa. In quel momento l’Ajax sta vincendo 2-1 una partita che al 45’ era sull’1-0 per il BVB e il brasiliano ha già assistito Tadic e Haller nei gol che hanno ribaltato la situazione, oltre a causare l’espulsione di Hummels. Di lì a poco sarebbe arrivato anche l’assist per il 3-1 di Klaassen, propiziato da uno stop d’esterno sinistro di controbalzo che azzera la teorica difficoltà insita in ogni tentativo di controllo di una palla lanciata lunga sulla corsa e che arriva dall’alto e da dietro.

Antony Show

Il calcio di Antony o, meglio, l’interpretazione del calcio di Antony, ribadisce l’importanza di “scomporre” il singolo gesto tecnico, di contestualizzarlo e collocarlo nella dimensione spazio-temporale in cui avviene, di valutare non solo ciò che quel giocatore fa in quel momento ma anche ciò che contestualmente fanno gli altri intorno a lui, nel rapporto di reciprocità tra azione e reazione. Antony è un mancino che può dribblare l’avversario con un controllo d’esterno orientato alla Bergkamp evitando, anzi aggirando, l’intervento del difensore o utilizzando la suola allo stesso modo in cui Allen Iverson utilizzava il palmo della mano nel suo killer crossover; quindi l’analisi della giocata deve tenere conto soprattutto di come questa sia il mezzo con cui Antony sposta la contesa sul piano a lui più congeniale, quello dove non conta tanto ciò che fai ma ciò che gli altri – compagni e avversari – pensano che tu possa fare.

Un principio che è anche alla base dell’utilizzo strumentale che João Cancelo fa dell’esterno del suo piede destro all’interno della versione 3.0 del gioco di posizione che Guardiola sta implementando nel Manchester City. Tra tutti i modi con cui si può colpire il pallone, farlo con l’esterno richiede il maggiore sforzo a livello di coordinazione, risposta neuro-muscolare, sensibilità e pulizia d’esecuzione: è la giocata contro-intuitiva per eccellenza, basata sull’idea che il difendente non si aspetti un colpo sulla traccia opposta a quella di percorrenza, ma le cui probabilità di successo sono strettamente legate alla connessione con il giocatore che attacca e occupa lo spazio; il quale sa, o immagina, che il passatore possa fargliela arrivare comunque aggirando fisicamente l’ostacolo costituito dalla corsa preventiva del marcatore.

Dopo il delizioso assist di Cancelo d’esterno destro, c’è anche un gol di Rodri che non è niente male

Nel caso del portoghese il colpo d’esterno è un’arma tattica vera e propria, il cheat code quando il gioco diventa troppo duro, la chiave che schiude tutte le porte durante il viaggio nell’estenuante e inesauribile ricerca guardioliana del dominio di spazi e tempi. Nel famoso gol di Sterling contro l’Everton l’assist di trivela permette a Cancelo di bypassare due linee di pressione anticipando di almeno tre passaggi il timing della rifinitura; in un dimenticabile Juventus-Cagliari del novembre 2018, il tocco con cui apparecchia per Douglas Costa una situazione dinamica di uno contro uno somiglia a un colpo di ferro 9 per l’approccio al green. Più in generale è l’intero passing game di Cancelo a essere consacrato a quell’idea di accettazione del rischio per cui sorprendere gli spettatori equivale a sorprendere prima se stessi, assecondando istinti, inclinazioni, qualità tecniche. Perché ormai non esistono più le giocate inutili o i giocatori eccessivi, ma solo le grandi giocate e i grandi giocatori: il come i secondi eseguano le prime è un dettaglio del tutto incidentale.