Dusan Vlahovic non ha pietà

Il modo in cui ha lasciato la Fiorentina, a gennaio e per trasferirsi alla Juventus, lo rende automaticamente un villain perfetto.

Dusan Vlahovic è esattamente il giocatore di cui la Juventus aveva bisogno. Quel che succederà in campo e ciò che Vlahovic sa fare con i piedi, queste cose c’entrano il giusto e non cambiano affatto la perfezione di questo incontro: Vlahovic è forte ma la parola “forte” nel calcio assume significati diversi a seconda del tempo e della geografia, delle circostanze e delle necessità, staremo a vedere se l’aggettivo continuerà a calzare bene addosso a Vlahovic anche dopo il trasferimento da Firenze a Torino. Vlahovic resta (resterà) esattamente il giocatore di cui la Juventus ha bisogno in questo momento: qualsiasi cosa aiuti a riempire le crepe che spaccano l’autostima va bene, qualsiasi rimedio serva a ricucire i lembi strappati dell’orgoglio è utile.

Più che di Vlahovic il giocatore, la Juventus in questo momento aveva disperatamente bisogno di Vlahovic operazione di mercato: un momento, un evento che le restituisse il posto d’abitudine nell’immaginario collettivo. Un momento, un evento che le permettesse di issarsi ancora una volta sopra il piedistallo: quello dell’attenzione dei media, dell’amore dei tifosi, dell’odio di tutti gli altri. L’addio di Cristiano Ronaldo è una ferita che non ha mai smesso di sanguinare, un dolore che ha stordito una Signora invecchiata all’improvviso dopo un decennio che sembrava destinato a ripetersi in un’eterna gioventù. Vlahovic è il punto che finalmente sutura la ferita aperta da Ronaldo, e d’altronde gli spietati conoscono soltanto questo modo per rimediare ai torti subiti: ritornare all’equilibrio precedente, mai stabilirne uno nuovo. Vlahovic operazione di mercato ha ricordato alla Juventus la parte che è abituata a recitare: quello della favorita, prendendo in prestito il titolo del meraviglioso film di Yorgos Lanthimos (la cui visione si presta particolarmente bene alla comprensione di certe psicologie del calciomercato, e delle psicologie di questa operazione di calciomercato in particolare).

Qual è il peggior difetto di Alvaro Morata e di Moise Kean? Anche in questo caso, ci si trova a ripetere: non c’entra niente quello che succede in campo né quello che sanno (o non sanno, immagino sia questa la formulazione adeguata secondo i tifosi bianconeri) fare con i piedi. Per quel che vale la mia opinione, penso che entrambi siano due attaccanti forti, fraintesi e incastrati: nei loro corpi e negli equivoci tattici che ne vengono, nei loro caratteri e nei giudizi tecnici che seguono. Il peggior difetto di Morata e di Kean, però, è che sembrano entrambi vittime: del loro passato, delle loro fragilità, delle loro incongruenze. Guardarli giocare è come guardare un indebitato disperatamente alla ricerca dei soldi necessari a pareggiare i conti: tutti apprezzano lo sforzo e tutti sanno che non sarà mai abbastanza. Morata e Kean sembrano delle vittime e quindi sono dei buoni, e c’è qualcosa che genera stridore al contatto tra la bontà e la juventinità.

I migliori attaccanti della Juventus degli ultimi dieci anni possono essere tutti riassunti con una parola: spietati, che è un altro modo di dire cattivi. Ovviamente Ronaldo, ma anche Tévez, in parte Higuaín. Mi accorgo solo ora, tentando di stilare questa lista, che i migliori attaccanti della Juventus degli ultimi dieci anni sono questi. E mi accorgo solo ora, tentando di allungare questa lista, che magari è questa la ragione per la quale Dybala è ancora oggetto di discussione (cioè di dubbi). Dybala che, tra l’altro, potrebbe essere la (prima? Principale?) vittima della spietatezza di Vlahovic: i numeri dell’attaccante serbo, in gol e in soldi, mettono in discussione Dybala più degli anni insipidi che ormai cominciano ad accumularsi.

Spietato è l’aggettivo giusto per descrivere Vlahovic: certamente in campo, i numeri e le percentuali sono quelli, lì da guardare e accettare; ma dopo il trasferimento alla Juventus, la spietatezza di Vlahovic assume un altro significato e da caratteristica tecnica ascende a tratto della personalità. Vlahovic placa il dolore della Juventus (per il momento, almeno), ripulisce la facciata incrostata delle vanità bianconere: la Juventus è ancora la squadra italiana che costruisce la sua forza frantumando le certezze altrui, è ancora la squadra che, quando ha bisogno di un attaccante, prende Higuain dal Napoli; che quando deve rafforzare il centrocampo strappa Pjanic alla Roma.

Niente di male, di illegale, figurarsi di immorale: per chiudere gli affari bisogna essere in due, nel calciomercato questo numero sale fino a tre, quindi è concettualmente sbagliato pensare che ci siano dei buoni e dei cattivi. Ci sono persone e dirigenti e istituzioni che fanno delle scelte, e che se ne assumono la responsabilità. E infatti Vlahovic operazione di mercato ha senso per tutti, ripensandoci bene: per lui, ovviamente; per la Fiorentina, che incassa esattamente la cifra sperata all’ultimo momento utile; per la Juventus, per i motivi di cui sopra. Nessuno prova più fastidio, figuriamoci odio, per le cose-come-stanno: non può che essere così, nella stagione in cui Messi ha lasciato il Barcellona per andarsene a Parigi.

Pur di trasferirsi alla Juventus, però, Dusan Vlahovic ha accettato di trasformarsi nel villain della storia che raccontano tutti (tranne gli juventini, si capisce): con gli occhi di ghiaccio e senza nome come gli antieroi di Clint Eastwood, insistente e indifferente nell’addio come Cristiano Ronaldo, capriccioso e imprevedibile come tutti gli ambiziosi. Quella di Vlahovic è una decisione che tocca il mondo che sta al di là delle colline che circondano Firenze, città minuta che ha fatto presto a coprirsi di insulti e che ci ha messo poco a costringere il fu eroe a sbirciare il mondo dietro la sicurezza delle tende tirate. Quella di Vlahovic è una decisione che tocca Napoli, dove ancora si parla della partenza di Insigne direzione Toronto, e che interessa Milano, dove non si è mai smesso di bisticciare sul passaggio di Donnarumma al Psg anche perché queste sono discussioni che tornano sempre e torneranno sempre più spesso, come dimostra il dramma inevitabile attorno al futuro di Kessié.

Nei suoi tre anni e mezzo a Firenze, Dusan Vlahovic ha accumulato 108 presenze e 49 gol in competizioni ufficiali, di cui 41 dall’autunno 2020 a oggi (Francesco Pecoraro/Getty Images)

Il modo in cui Vlahovic ha deciso di lasciare Firenze e la Fiorentina – questo calciatore opera col favore delle tenebre, si potrebbe dire, prendendo in prestito – dimostra l’unica verità rilevante (e quindi discutibile) del calcio contemporaneo: certo valgono le leggi del mercato, ed è proprio per questo che contano i modi degli individui. Per questo c’è una differenza rispetto agli ultimi sei mesi di Insigne a Napoli, rispetto al contratto scaduto il 30 giugno 2021 di Gianluigi Donnarumma. Queste sono premure minuscole che aiutano a vivere, forse finzioni in cui gente che sa stare al mondo e che si circonda di gente che sa stare al mondo si è esercitata per mesi per renderle credibili abbastanza. Ma che importa, se alla fine aiutano a vivere. Ma che importa, se alla fine aiutano ad accettare l’esistenza e la prepotenza di personaggi come Darko Ristic, l’onnipresenza e la potenza di organizzazioni (a scopo di cosa un giorno dovremo trovare il coraggio di dircelo) come la International Sport Office. Non ha senso farlo ma che altro possiamo fare di fronte a tali spostamenti di capitali, a tali movimenti di talento: e quindi da Vlahovic forse tutti ci aspettavamo (ingenuamente, anche questa volta) un qualcosa che assomigliasse a un saluto, a una manifestazione di tipo romantico, da vecchio calcio.

E invece niente. Dusan Vlahovic ha scelto un’altra via, un’altra essenza: quella del modernismo – che poi è una derivazione del professionismo – totale, assoluto e quindi silenzioso. L’ha fatto senza remore, senza guardarsi indietro né di lato. Forse era consapevole di ciò che gli sarebbe successo, di come sarebbe stato trattato, etichettato, raccontato e poi venduto. O forse no, non era veramente cosciente di quello che sarebbe avvenuto, che è avvenuto. E anche in questo caso la sua storia risulterebbe affascinante, anzi forse lo sarebbe ancora di più: perché in questo modo Vlahovic avrebbe contribuito a definire (o a rifinire?) un nuovo idealtipo di calciatore completamente asettico e forse anche un po’ rispetto al mondo intorno a sé, un semplice fornitore di servizi, un libero professionista – o meglio: un professionista libero – con un contratto a progetto, inevitabilmente limitato nel tempo, che non deve dar conto ad altri che non siano i suoi datori di lavoro, o sé stessi. Figuriamoci i tifosi. Che poi i calciatori sono proprio questo, dopotutto. Sono i tifosi che spesso li idealizzano in maniera diversa, spinti da un passato in cui il mondo del calcio poteva essere diverso e quindi fingersi meno spietato. Oggi che la situazione è diversa – non per forza migliore peggiore: diversa, semplicemente esistono ancora giocatori che vogliono, sanno e riescono a fingere di non essere spietati. Alcuni arrivano così in cima alla montagna, altri no. Vlahovic appartiene al secondo gruppo. E non c’è niente di male, di illegale. Figurarsi di immorale.