Davide Calabria non si tira indietro

Intervista al vice-capitano del Milan: la sua ascesa, le sue prospettive, ma anche un'analisi lucida del mondo del calcio, delle storture, delle ipocrisie, delle istituzioni.

A Bergamo contro l’Atalanta, il 3 ottobre 2021, il Milan “Piolista” ha raggiunto uno dei punti più alti della sua breve eppure luminosa vita. L’ultima volta in cui aveva giocato a Bergamo con il pubblico era finita 5-0 per i nerazzurri, una partita che è diventata una specie di pietra miliare al contrario nella narrazione della rinascita rossonera, citata continuamente dai tifosi come a ripetere un mantra all’incontrario, tipo ricordarsi dell’abisso per non tornarci più. Era il 22 dicembre 2019 e Davide Calabria era entrato solo alla fine del primo tempo. Nei successivi 45 minuti, il Milan avrebbe subito 4 gol.

Nemmeno due anni dopo Davide Calabria è invece titolare e ci mette 28 secondi a segnare l’uno a zero. A Bergamo. Poi arriverà anche il 2-0, poi il 3-0. Per il Milan questa volta. Niente male per uno che aveva vissuto la notte dei fantasmi. Per uno nato a Brescia, e cresciuto a Milanello. Per uno che indossava da una manciata di partite la fascia di capitano del Milan, la sua squadra, la squadra con cui ha vissuto momenti bassi e in cui non sembrava poter esplodere. Poi è arrivato Pioli, poi è esploso davvero.

Passeggia in Curva Sud. Gli chiedo se ci era mai stato. Lui dice non qui, dice che da bambino il Milan lo guardava da altre parti dove costava meno. I tifosi probabilmente lo amano in maniera particolare perché anche lui si era affacciato su quell’abisso, quando sembrava che non fosse pronto per il Milan, e invece è diventato quello che ci crede sempre più di tutti. È quel tipo di giocatore che ti stuzzica l’emozione e l’adrenalina, ma non solo. È anche una pedina tattica fondamentale per scardinare le difese, intelligente e duttile come pochi in Europa nel suo ruolo. È anche un giocatore diverso dalla media per quello che pensa e quello che dice. Che è tanto e dipende anche da quello che ha passato e da come ne è uscito.

Ⓤ: Sei diventato una bandiera, e si può dire che a un certo punto è stato inaspettato. Com’è stato per te?

Difficile di sicuro. Perché un percorso che sembra quasi scontato non lo è. Penso che un ragazzo che è cresciuto nel settore giovanile magari ha più possibilità di esordire ma poi è difficile rimanere, perché c’è il rischio che ti vedano sempre come il ragazzino che eri. Sono stati anni, gli ultimi bellissimi, ma con molti momenti non facili. Quindi sono ancora più soddisfatto del percorso fatto. Soprattutto per uno come me che è sempre stato tifoso del Milan prima ancora di arrivarci. È uno dei sogni più grandi che ho realizzato.

Ⓤ: Alla fine ti sei ritrovato cambiato?

Assolutamente sì. Ci sono dovuto passare per forza. Io vedo il calcio ancora come un gioco, come qualcosa di bello e divertente, poi purtroppo o per fortuna è diventato anche un vero lavoro. Ma c’è troppa pressione, c’è troppa ansia in questo mondo. Anche da parte dei media, delle tv, ci sono troppi riflettori su ragazzi che poi subiscono molto questa attenzione. Ci sono stati dei momenti in cui io ho patito, perché alla fine sei sempre un ragazzino di vent’anni. Adesso invece a volte mi sento parlare e mi sembro un quarantenne, ma ho solo 25 anni, sono ancora un ragazzo. Ma questo mondo ti porta a crescere molto prima, però devi scottarti.

Ⓤ: Hai visto gente perdersi?

Tanti ragazzi fanno fatica ad affrontare le pressioni, e a superarle. Per esempio, non è bello ricevere insulti in partita, e non è facile giocare in uno stadio come San Siro. Devi essere caratterialmente molto forte, perché sennò ti uccide. E poi sei costretto ad andare via. Solo chi riesce a mantenere un livello molto alto può rimanere in una squadra come il Milan, anzi devi continuare a crescere. Io penso di esserci riuscito con il passare degli anni. Sono riuscito ad affermarmi come giocatore e penso di valere tanto e di poter dare tanto a questa squadra. È il bello e il brutto del calcio.

Ⓤ: Quando ti sei reso conto che ce l’avresti fatta?

Detto sinceramente io sono sempre stato sicuro dei miei mezzi. Anche i primissimi anni in cui giocavo poco ed entravo spesso a partita in corso, perché mi vedevo in allenamento e capivo, anche se ero un bambino, che avrei potuto giocare di più, anche se ero più minuto degli altri. Mi sono sempre reputato intelligente da un punto di vista calcistico e questa cosa mi ha sempre portato a credere in me. Poi ho capito che avrei potuto giocare veramente ad alti livelli, credo al secondo anno di Primavera. Già facevo un po’ di Prima squadra, e mi sentivo già pronto per poter fare il salto tra i professionisti. Poi non sono partito subito titolare ma come aggregato, poi le mie prestazioni con Mihajlovic l’hanno portato a confermarmi. È stato un bel percorso.

Esordisce nella stagione 2014/15, ma è in quella successiva che viene aggregato definitivamente alla prima squadra grazie a Sinisa Mihajlovic. Il primo gol arriva nel 2017/18, la prima in cui è in campo stabilmente, con 30 partite in tutto l’anno.

Ⓤ: Da Mihajlovic a oggi il Milan è un altro mondo.

Si può dire quel che si vuole, ma il Milan degli ultimi anni, per quanto poi è sempre stato un club blasonato, non era il vero Milan. Da un punto di vista dello stemma e della storia ovvio, lo sarà sempre. Ma è anche ovvio che ci sono stati dei momenti di grande difficoltà, è un dato di fatto. Quindi sono molto contento soprattutto da tifoso che questa nuova società stia mettendo stabilità, sia dal punto di vista economico che di ambizioni, di mentalità, di progettualità, e anche di visibilità. Adesso il Milan sta tornando il Milan di una volta. La squadra è studiata bene, ha delle basi solide, e non è facile venire a San Siro da avversari.

Ⓤ: Era frustrante giocare al Milan in un momento così basso prima? Pensare: sono arrivato proprio negli anni peggiori.

Forse lo pensi se non ti interessa più di tanto, ma se ti senti parte del progetto vuoi, prima di tutto per te stesso, cercare di risollevare la squadra. Perché tra essere ultimo ed essere primo ti cambia completamente anche a te. Ti senti meglio, gratificato per il lavoro che fai tutti i giorni.

Ⓤ: Il nuovo Milan è nato più o meno a marzo 2020. Come fu l’impatto dal punto di vista mentale con uno stadio vuoto?

All’inizio molto brutto. È stato complicato, la prima l’abbiamo persa contro il Genoa. Non riuscivi ad avere la stessa adrenalina, la stessa concentrazione, ti viene da viverla quasi come un’amichevole. Capendo poi la situazione mondiale, della vita vera, lo stadio vuoto lo percepisci poi come una conseguenza giusta per uscire da una situazione critica che riguarda la vita stessa. Quindi poi l’abbiamo accettata e l’abbiamo capita bene, perché da lì in poi abbiamo fatto cose bellissime. Da una squadra in fase di sviluppo ad arrivare dove siamo arrivati l’anno scorso è sicuramente un bell’inizio. Non esisteva quella cosa di giocare meglio senza tifosi. Chi dice una cosa del genere non è mai stato su un campo di calcio.

Ⓤ: Però poi si è creato un callo, un’abitudine. E il ritorno del tifo ha avuto le sue difficoltà?

Anche lì è stato strano all’inizio. Ci eravamo abituati a sentire il mister dalla parte opposta del campo, e adesso non riesci a parlargli nemmeno a dieci metri. Sicuramente da un punto di vista dello spettacolo giocare in uno stadio vuoto è più brutto, non c’è dubbio, ma da un punto di vista prettamente tattico invece era positivo perché riuscivi a parlarti, a correggere cose in corsa, in un momento di difficoltà, che adesso con i tifosi fai fatica perché non riesci a parlarti.

Ⓤ: Però sono tornati al momento giusto, con il Milan migliore degli ultimi dieci anni.

Sì ma anche in questi anni che non sono stati positivi sono sempre stati a sostenerci. Sono stati pazienti, hanno capito la situazione e hanno capito che non era facile per nessuno.

Per Calabria sono ben 19 le presenze nella selezione Under 21, sia con Di Biagio sia con Nicolato. Esordisce in Nazionale maggiore nel novembre 2020, salta gli Europei e torna a essere convocato e a giocare nel settembre 2021.

Ⓤ: La Nazionale ti è mancata? Domanda scontata.

Detto sinceramente pensavo di meritarmi prima la chiamata. Adesso sono stato chiamato più volte, purtroppo per le ultime volte ho avuto dei problemi fisici e non sono riuscito a dare il contributo che avrei voluto. È ovvio che mi è dispiaciuto per l’Europeo, anche perché immagino sia stato fantastico vivere in quel gruppo.

Ⓤ: Si parla sempre del Milan come di un gruppo felice, ma forse si parla poco del Milan come laboratorio tattico.

Io mi trovo molto bene. All’inizio ho fatto un po’ di fatica, arrivavamo da un’altra tipologia di calcio. Credo che il mister abbia preso diversi spunti da diverse squadre e li abbia uniti in un mix che è giusto per noi, e tanti di noi, anzi direi tutti, siamo riusciti a rivederci in questi concetti, perché poi in campo ci viene tutto facile e veloce. C’è più chimica tra di noi e siamo molto compatti in questo modo di giocare.

Ⓤ: Però quello che sembra davvero cambiato, con Pioli, è quanta fiducia avete in voi stessi.

In questi ultimi due anni ho capito che la testa è più importante di qualsiasi preparazione atletica o fisica e tattica. Perché se rientro da un infortunio che fisicamente non sono ancora al cento per cento ma di testa sono libero e sono sicuro dei miei mezzi, sono sicuro che farò una grande partita. Se sto bene al cento per cento fisicamente, ma mentalmente ho delle insicurezze, magari dovute anche a problemi esterni, che è una cosa che spesso si sottovaluta, purtroppo tu entri in campo che devi cercare di mettere da parte quelle cose e qualcuno può fare più fatica. Perché sarai concentrato su altre situazioni e non sul campo. È un gioco ma per tutto quello che ci sta intorno non lo è più.

Ⓤ: Parli spesso di benessere mentale.

Sì, ma siamo ancora indietro di decenni nel calcio, e non solo in Italia. Vogliamo sembrare tutti bravi, tutti forti. Ma tutti hanno problemi nella vita quotidiana. È un problema culturale. Più ampio del calcio. Infatti io a volte non sopporto tutta questa attenzione data al calcio rispetto a temi molto più importanti della vita quotidiana.

Ⓤ: Prima hai detto di esserti sempre reputato intelligente da un punto di vista calcistico…

Sono stato umile… (ride)

Ⓤ: Ma ti senti diverso dalla media anche come persona?

Sì. Questo mondo mi ha portato a crescere più in fretta del previsto, e penso di essermi formato prima come uomo. Ho tantissime cose ancora da imparare, e vorrei fare un sacco di cose extra calcio…

Ⓤ: Tipo?

Approfondire. Conoscere di più certi temi politici, sociali. Per me, non per farne una carriera eh. Solo che adesso faccio fatica a starci dietro come vorrei.

Ⓤ: Se avessi un anno sabbatico cosa faresti?

Prima o poi vorrei dedicarmi a fare campagna e a sensibilizzare su determinati temi. Contro il razzismo per esempio.

Ⓤ: Tipo Rashford.

Tipo Rashford, esatto. Adesso come adesso sarebbe però un impegno molto ampio dal punto di vista mentale. Sicuramente nell’ultimo anno ho lavorato tantissimo e mi sono concentrato solo su questo perché volevo arrivare dove volevo arrivare da un punto di vista calcistico. Penso di essere riuscito ad affermarmi, ovvio che adesso non è che sono a posto e basta. Ma mi piacerebbe dedicarmi un po’ di più a qualcosa di questo genere. Certo che in Italia è difficile.

Ⓤ: Perché poi diventi un bersaglio. Tipo Rashford.

Sì, questo personalmente non mi preoccupa molto ma poi diventa una distrazione. Quindi forse adesso sono ancora troppo giovane. Ma sono sicuro che più avanti ci dedicherò più tempo. Il percorso del Milan è appena iniziato, vorrei alzare ancora un po’ l’asticella.

Tocca il traguardo delle cento presenze in Serie A con il Milan il 29 novembre 2020, in occasione della vittoria per 2-0 con la Fiorentina a San Siro. È invece capitano per la prima volta all’esordio della stagione 2021/22, contro la Sampdoria.

Ⓤ: I media hanno le loro responsabilità per come trattano il calcio e i calciatori.

È sbagliato quasi tutto. Tipo mettere alla gogna un ventenne che sbaglia qualcosa, in campo o fuori. Tipo parlare della vita privata delle persone senza pensare ai danni che puoi creare ai calciatori oppure alle famiglie. Cercare sempre di scavare dentro la vita degli altri. E soprattutto i media avrebbero un potere molto forte per aiutare certe campagne ad avere ancora più eco. Anziché mettersi una riga rossa in viso. Ma qui torniamo all’inizio: bisognerebbe insegnare il rispetto e l’uguaglianza ai bambini, bisognerebbe farlo nelle scuole.

Ⓤ: Una riga rossa pulisce le coscienze, come un messaggio dello speaker contro il razzismo o una maglietta con una scritta all’ingresso in campo. Non mi stupisce che la situazione negli stadi non migliori.

Com’è possibile che io sto giocando una partita di pallone e c’è una persona a cinque metri da me che mi insulta per tutta la partita, la mia famiglia, eccetera? Com’è possibile che questa persona continui a entrare allo stadio? Io devo essere protetto. Nel derby a porte chiuse mi sono preso giustamente una multa (per un dito medio verso qualcuno che lo insultava in tribuna, nda), e quello che ha passato il tempo a insultare la mia famiglia niente. Capisci? Oppure gli insulti razzisti: chiusa la curva e 50mila euro di multa alla società. Ma cosa c’entra la società? Quei tifosi non li devi più far entrare nello stadio.

Ⓤ: Oppure queste partite le fermiamo davvero.

Ma poi quando si fermano tutti a dire: ma cosa sarà mai, ha solo detto una parolaccia. Bisogna fare di più. LeBron in Nba ha fatto fermare la partita e ha fatto allontanare due persone che lo stavano insultando.

Ⓤ: Torniamo alle cose belle. Si sa che ti piace il vino.

Sì, mio nonno faceva il vino ma solo per lui e per gli amici, non era un grande vino sinceramente, era vino da tavola. Cantina casalinga, poche centinaia di bottiglie. Mi è sempre piaciuta la vendemmia quando da piccolo andavo ad aiutare mio nonno, avevo un ricordo bello di quei giorni, con i cesti pieni d’uva, era un ritrovarsi di tutti i nonni della zona, si beveva un po’ di vino rosso, un panino tra le vigne, era un momento positivo, penso mi siano rimasti impressi quei momenti.

Ⓤ: Hai lasciato la campagna per Milano o stai ancora tra le vigne?

Vivo a Milano ma non sono un tipo da città. Ma Milano mi piace perché è una città piccola.

Ⓤ: Un topo di campagna.

Sì, sono di Adro, Franciacorta. Campagna, paeselli… Il traffico lo odio. Poi mi piace Milano e sono contento di viverci perché è una città internazionale. Ma sono uno a cui piace vivere più nella tranquillità della campagna. Credo che a fine carriera tornerò lì.

Da Undici n° 42
Foto di Piergiorgio Sorgetti, moda di Francesca Crippa
Abiti Emporio Armani