L’ultima intervista di Lorenzo Insigne

Il capitano del Napoli racconta la sua storia, la sua vita privata, il rapporto con la città e con il resto d'Italia.

Se fosse andato a esplorare il mondo con gli occhi azzurri, sarebbe un altro Cannavaro, un Ciro Ferrara se avesse di serie un sorriso scaltro e la battuta pronta, un secondo Montella se celebrasse i gol con le braccia spalancate, larghe, come in volo, non con le mani strette a cuoricino. Lorenzo Insigne è invece un napoletano della radice opposta, rappresenta la stirpe accigliata, il ceppo incline alle malinconie, distante dalle pose solari per impostazione. È un pianeta misconosciuto, ancora, dopo tutto questo tempo. È inafferrabile come in campo. Essere Insigne comporta un sovraccarico di fatica. C’è sempre qualcuno che ti rimprovera questa barriera, un bel paradosso per uno che le barriere col pallone le scavalca. È il giocatore preferito dagli incontentabili. Insigne contiene in sé il calcio dei pezzi unici e in cambio gli tocca la sorte di essere paragonato a quelli. Neppure nelle serate che non si dimenticano, e ne ha avute, ne ha avute tante, lascia appagati gli insaziabili. Anziché misurare la sua grandezza, calcolano la distanza tra lui e l’assoluto. Pure sul suo colpo più fatato, la griffe stilosa del tiro a giro, ogni tanto si posa l’unto del malcontento.

Quelli come Insigne hanno una condanna. Devono sempre convincere di essere adeguati. Sono speciali ma alla fine li vogliamo più conformi. Una dozzina d’anni fa, dopo un Europeo Under 21, un editorialista del Telegraph si chiese: «Perché dalle Academy inglesi escono pochi Insigne?». In Italia ci chiedevamo l’opposto, se tanta diversità non fosse inopportuna. Lorenzo è partito da una cameretta dove aveva attaccato il poster di Del Piero alle pareti e alle prime partite ha finito per sentirsi chiamare “il piccolo Giovinco”, come se l’originale fosse poi un gigante.

Ha cominciato sotto casa, in uno spiazzale in mezzo a delle palazzine popolari e s’è scoperto il primo italiano nella storia ad aver segnato in Champions sia al Bernabéu sia al Camp Nou. Lo hanno venduto la prima volta per 1500 euro dalla piccola Olimpia e due anni fa era valutato 100 milioni. «Il mio primo pallone è stato un Super Santos, arancione, leggero, non leggerissimo come il Super Tele che era impossibile da controllare: seguiva il vento. Giocavo in strada, mettevamo dei mattoncini come porte, si sapeva quando si cominciava e non si sapeva quando si finiva. C’era una specie di campetto dove fare due contro due, tre contro tre, una gabbia, mi divertivo così. Per la verità mi divertivo anche se un giorno non veniva nessuno, se potevo tirare il pallone contro il muro. Ci sono andato anch’io alla scuola calcio, mi hanno insegnato molte cose, non quelle che ho imparato per la strada. Siamo nel calcio dei gesti perduti. Guarda le partite, la domenica. Quello che era un gioco è diventato strategia. Rispetto a Inghilterra e Spagna, siamo un Paese in cui la tattica domina. Quando gli stranieri arrivano qui, fanno fatica per quello. Non sono abituati. Invece non dovremmo spegnere mai il ricordo della gioia provata da bambini».

Frattamaggiore, 20 km da Napoli. Un borgo nato mille e cento anni fa per la fuga dalla costa della popolazione attaccata dai Saraceni. Iniziarono coltivando la canapa, finirono per diventare sotto gli Aragonesi i produttori delle funi e delle gomene per le navi dell’Impero spagnolo. La scuola calcio più vicina a casa Insigne era affiliata al Torino. Gli incantesimi che il bimbo faceva col pallone erano pari alle difficoltà economiche che si vivevano dentro casa. La fabbrica di scarpe dove lavorava papà Carmine aveva chiuso all’improvviso, all’Olimpia considerarono che Lorenzo poteva restare anche senza pagare la retta: era uno che a un torneo in Sicilia aveva fatto 12 gol a una squadra bulgara. Nell’unico anno frequentato a Ragioneria, si doveva alzare alle cinque per andare al mercato, vendeva vestiti, che cosa vuoi studiare.

«Non mi è mai piaciuta la scuola. Sono stato fortunato a fare questo lavoro, chiamiamolo così. Non so cosa sarebbe diventata la mia vita. Non c’è stato tempo per pensare a un piano B. Eppure, sapevo che non tutti potevano arrivare. Penso a Emanuele Esposito, un ragazzo che era con me nel settore giovanile del Napoli, fortissimo, lo giuro, un giocatore di una qualità pazzesca, non ho mai visto nessuno con la sua tecnica. Spostava la palla in un centimetro. La controllava con i piedi come si farebbe con le mani. Adesso gioca con l’AZ Picerno, in Lega Pro. Poteva fare una grande carriera. Sai quanti ce ne sono di ragazzi napoletani che non hanno avuto la mia fortuna?».

Lorenzo Insigne è nato a Napoli il 4 giugno del 1991. È entrato nel settore giovanile del Napoli a 13 anni, per poi esordire in prima squadra a 18 anni, nel gennaio 2010, nei minuti finali di una partita giocata a Livorno. Diventa capitano nel 2019, subito dopo il trasferimento di Marek Hamsik in Cina.

È la tarda mattinata di un martedì mattina, quando Lorenzo Insigne si racconta da Castel Volturno. Ha appena finito l’allenamento, sta per andare a prendere i bambini a scuola. «Non so se i miei figli mi vedono come un complice o come un uomo severo. Non è un mestiere facile. Devi essere aperto all’idea che ogni giorno si impara qualcosa. Mia moglie è più esigente, trascorre più tempo con loro. Io sono la loro vacanza, quando sto in casa li vizio. È che ogni settimana ci sono un paio di partite, siamo sempre in ritiro, quelle volte che sto con loro, tendo ad accontentarli su tutto. Carmine ha otto anni, Christian sei. Li accompagno a fare sport di pomeriggio, calcio e tennis, ma hanno scelto loro. Voglio tenerli impegnati tutta la settimana, conoscono altri ragazzini, socializzano, imparano come si sta in un gruppo. Non credo di averli condizionati, non li avrei mai spinti a scegliere il calcio. Sono grandi, seguono le partite, sono diventati i miei critici più feroci. Quando ho sbagliato il rigore contro il Torino, appena usciti dallo stadio, hanno detto: adesso andiamo a casa ti insegniamo come si battono. Non so se per loro è un peso essere i figli di Insigne a Napoli, spero di no. Faranno sicuramente esperienza di qualche privilegio ma pure di qualche dispiacere. Cerco di proteggerli. Sono ancora piccoli. Li espongo il meno possibile. Sui social non pubblico quasi mai le loro foto. Non c’è solo l’educazione da insegnare a dei bambini, ma anche come essere sé stessi, seguire le proprie passioni e le proprie inclinazioni senza temere il giudizio degli altri, senza lasciarsene condizionare».

Non capite, se giudicate, ha scritto Tolstoj. Una certa durezza verso Insigne nasce proprio da una lista lunga così di pregiudizi contro i quali ha dovuto battersi, probabilmente senza avere smesso. «Il più grande è stato l’altezza. La mia scuola calcio era affiliata al Torino, mi fecero firmare una carta che a 14-15 anni sarei andato da loro per un provino. Partii, feci due-tre allenamenti, giocai una partita e mi dissero: sì, bravo, ma onestamente ci aspettavamo che crescessi. Mi mandarono a casa, e la stessa cosa successe all’Inter. L’unico che ha creduto in me è stato Peppe Santoro, al settore giovanile del Napoli. Credo che la situazione sia cambiata. Quando ero bambino, c’erano società che prendevano ragazzi senza che sapessero palleggiare. Bastava che avessero il fisico. Ora mi pare ci siano più opportunità, anche per esordire a diciotto o diciannove anni. Se uno ha qualità, deve andare in campo». Le prevenzioni lo hanno incalzato. Troppo napoletano per accattivare l’Italia come Del Piero, troppo napoletano per la stessa Napoli, madre feroce coi suoi figli, specialmente se non si offrono al cannibalismo della folla. «La gente si è sempre aspettata tanto da me. Ho cercato di ricambiare. Ho avuto degli screzi qualche volta coi tifosi e mi dispiace. Un capitano è un garante per le persone che amano la squadra, io credo di aver sempre assicurato che il Napoli non venisse meno all’impegno in campo. Come dicono i tifosi in curva: al di là del risultato».

Insigne è il nono capitano della storia del Napoli a essere nato in Campania, il quarto dell’era De Laurentiis dopo Scarlato, Iezzo e Paolo Cannavaro.

Roma si è immersa in Totti fino a coincidere con lui. La città e il suo campione hanno parlato insieme la stessa lingua, tagliente, disincantata. Una unanimità che Insigne ha spesso desiderato, scoprendo invece di essere guardato di traverso anche dai suoi, nell’ultima riproduzione delle dicotomie che spaccano Napoli. Quelli della collina – il Vomero, Posillipo – e quelli di giù Napoli. Quelli dentro le mura e i cafoni della provincia. Le classi egemoni e i ceti subalterni. Domenico Rea ci costruì una tesi felice sulle due Napoli, questa rottura che fa vivere una città senza un solo popolo, l’unica ad avere avuto nella sua storia una guerra civile. Raffaele La Capria ne L’Armonia Perduta teorizza che il dialetto delle canzoni dolci e la cosiddetta napoletanità siano state l’invenzione per omologare e disinnescare i conflitti. Elena Ferrante ha detto che si potrebbero registrare le voci di tutta Napoli, area per area, con il loro intreccio dalla periferia al centro, e costruire una mappa sonora delle differenze economiche, sociali e culturali. Come potevano parlare la stessa lingua Lorenzo Insigne e la città degli avvocati? «Vuoi sapere che cosa Napoli non ha capito di me? Ho un carattere particolare. So scherzare con tutti, ma all’inizio tengo le distanze. Per alcuni tifosi è superbia, sembra che me la voglia tirare. È solo un atteggiamento di difesa. Qualcuno non mi ha mai compreso al 100 per cento. Chi mi conosce davvero, sa come sono fatto».

E poi c’è quello che non ha capito di Napoli l’Italia. «Credo che il problema appartenga a ogni città del sud. Napoli, se non la vivi, non la conosci. Io sono nato qua, potrei non fare testo, ma sento parlar bene di Napoli da tutti i miei compagni dentro lo spogliatoio, quelli che hanno girato tanto il mondo, quelli che sono venuti con le famiglie. Io non potrei dire cose sensate su Torino, se non ho mai vissuto là. Credo debba valere lo stesso per Napoli, che soffre di molti pregiudizi, resta spesso schiacciata da un certo odio che esiste tra i tifosi. Ci rimango male quando dal campo sento quei cori contro la mia terra, spero che un giorno le cose possano cambiare».

Nel corso della sua carriera, Insigne ha segnato contro le più grandi squadre d’Europa: in casa del Real Madrid, del Barcellona e del Psg, e poi nell’allora stadio San Paolo contro il Manchester City.

Le antipatie fioriscono pure dentro gli spogliatoi. «Può succedere che non ti prendi con qualcuno, ma l’antipatia non te la devi portare in campo. Il problema è se l’antipatico è l’allenatore. Qualunque cosa lui dica, tendi a non considerarla e fare di testa tua». Tra l’Insigne del Super Santos e questo che può portare il 10 solo in Nazionale, c’è stata una galleria di incontri che gli hanno aggiunto spesso qualcosa, ma ogni tanto gliel’hanno tolta, perché pure sottraendo si somma valore, come sa chi scolpisce nella pietra. Zeman: «È stato decisivo, il primo a credere in me. Lui e il d.s. Pavone sono stati i primi a vedere qualcosa in un ragazzino. Mi chiedeva di non rientrare mai oltre la linea del centrocampo. Non difendevo. Ero sempre fresco». Mazzarri: «Il mio primo anno in A. Un anno di di passaggio. Davanti avevo Pandev e Cavani». Benítez: «Mi ha completato. Avevo sempre pensato che per me il calcio fosse solo attaccare». Sarri: «Il calcio con lui è gioia. Mi sono divertito tanto in tre anni, ci è solo rimasta la delusione di non aver vinto lo scudetto». Ancelotti: «È tornato ai metodi di Benítez. Non è vero che non ci siamo presi. Avevamo idee diverse, questo sì. Su cose di campo». Gattuso: «Gli devo tanto. Dopo gli anni di Ancelotti così così, è stato bravo a farmi tornare sui miei passi e a rimotivarmi». Ora Spalletti: «Una personalità forte. Ci ha restituito consapevolezza nella nostra forza».

C’è anche un Insigne che del calcio è spettatore. «Se dovessi comprare un biglietto, lo farei per una finale di Champions, qualunque sia. Una squadra che mi piace guardare sempre è il Manchester City. Il calcio di Guardiola è imperdibile dai tempi di Barcellona. La sua finale perfetta di Champions sarebbe contro il Liverpool. Alla fine, in tv, non ne me perdo una. Qualche settimana fa c’è stata una domenica pomeriggio in cui si giocavano contemporaneamente Barcellona-Real Madrid e Manchester United-Liverpool. Ecco, io ho rosicato. Perché ero in campo anch’io, ero con il Napoli all’Olimpico contro la Roma». Tra un dribbling e un tiro a giro, il bambino del Super Santos è arrivato a trent’anni. «Del Lorenzo bambino mi rimarranno le paure. Gli occhi dei gatti, per esempio. Sono il mio terrore. Mi inquietano. Ma all’età non penso. Quando mi accorgerò di non star bene fisicamente, lascerò perdere. Vedendo Ibra a quarant’anni, viene la voglia. Per l’addio di Totti ho pianto. So che quando toccherà a me, starò male. Non voglio pensarci. Mi viene l’ansia. Viene anche a mia moglie pensando di avermi tutti i giorni a casa».

Da Undici n° 42
Foto di Jim C. Nedd, Moda di Elisa Voto