Si può vincere senza esperienza?

Il trend degli ultimi anni è evidente: i grandi trofei possono arrivare anche con squadre formate da calciatori giovani.

Un lancio di Bentancur oltre la linea difensiva, la corsa e la sterzata di Kulusevski, poi il cross per la testata decisiva di Kane. L’azione che ha portato al gol del 2-3 all’Ethiad Stadium in Manchester City-Tottenham ha chiuso nel modo più imprevedibile e imprevisto la partita più bella del weekend, forse la più bella di questi primi due mesi dell’anno. È stata costruita e rifinita dai due giocatori andati via dalla Juventus a gennaio, acquistati dal Tottenham tra sopracciglia alzate e commentatori che si davano di gomito con le allusioni ai rapporti amichevoli tra Fabio Paratici, uomo mercato degli Spurs, e la sua ex società. Anzi in settimana era stato lo stesso Antonio Conte a criticare le operazioni di mercato del suo club: «Il Tottenham cerca giocatori giovani e da sviluppare, non giocatori pronti. La missione e la filosofia sono queste. Purtroppo se vuoi crescere più rapidamente hai bisogno di giocatori con molta esperienza, ma ho capito che la visione della società non è questa. Mi rendo conto sempre di più che ci vorrà tempo e pazienza». Che è come se avesse detto: io sono abituato a giocare per vincere e sono abituato a vincere, il Tottenham non è abituato a vincere e batte strade differenti.

Si potrebbe scrivere un manuale sull’abilità unica di Conte nel cercare e creare il conflitto con la società che gli paga lo stipendio, quasi sempre a partire dal calciomercato – forse perché è l’argomento che attira di più i media e lo aiuta a mettere pressione sulla dirigenza. La partita di sabato ha invece dimostrato, ancora una volta, che un classe 2000 con poca esperienza ai massimi livelli può essere decisivo anche nella partita più difficile dell’anno. A patto, però, che si rispettino alcune condizioni: mandarlo in campo, tanto per iniziare; creargli il contesto tecnico e tattico più consono per le sue caratteristiche. Quello che è successo a Kulusevski, con Kulusevski, va oltre il fantasista svedese: tecnica, talento e senso per il gioco possono essere un valore aggiunto anche se chi li porta in campo non ha dieci anni di professionismo alle spalle.

Non più tardi di mercoledì scorso il Red Bull Salisburgo ha mandato in tilt il Bayern Monaco di Julian Naglesmann senza schierare alcun top player, con una formazione di ragazzini in età universitaria – una media di 23 anni e 242 giorni. Si tratta della squadra più giovane schierata in una gara della fase a eliminazione di Champions League negli ultimi 19 anni, cioè dai tempi dell’Ajax di Koeman. E anche il manager degli austriaci, Matthias Jaissle, ha 33 anni ed è uno dei pochi allenatori in Europa più giovani di Nagelsmann. Solo che la partita della Red Bull Arena – risultato a parte – non ha avuto uno svolgimento casuale: i padroni di casa hanno giocato per 90 minuti con l’intensità richiesta dalla fase finale della Champions League, hanno pressato il Bayern quasi a tutto campo, dimostrando di aver preparato la partita molto bene e l’intera stagione ancora meglio. Certo, i bavaresi hanno avuto un mare di occasioni dopo lo svantaggio ma, insomma, è pur sempre il Bayern Monaco, cioè l’utopia ultraoffensiva di Nagelsmann, che schiera Kingsley Coman, Leroy Sane, Serge Gnabry, Thomas Muller e Robert Lewandowski – anche tutti insieme.

Il Red Bull Salisburgo non spunta all’improvviso come un fungo dopo la pioggia. Questa squadra formata da Adeyemi e Okafor, Siewald e Camara – nessuno sopra i 22 anni – ha ereditato l’ottimo girone di Champions del 2019/20 dalla formazione che fu di Erling Haaland e Takumi Minamino. È la stessa squadra che negli anni precedenti aveva tirato fuori  Dominik Szoboszlai e Naby Keita e prima ancora Sadio Mane. Il Salisburgo ha alle spalle il network della Red Bull, quindi una società che da anni investe nel calcio, ha la sua expertise e le competenze giuste, un livello eccellente nello scouting e nelle squadre di analisti. Una società, per dirla con una frase sola, che sa come costruire una squadra sui giovani. Il modello della Red Bull è quasi unico nel mondo, e ovviamente il Salisburgo vorrebbe seguire le orme dei cugini del Lipsia, arrivati in semifinale di Champions League nel 2020. Ma per la politica sul mercato, per le strategie in termini di ricerca, acquisto e sviluppo del talento tecnico privo di esperienza ad alti livelli, lo schema potrebbe essere assimilabile a quello dell’Ajax (semifinale, quasi-finale, nel 2018/19), del Borussia Dortmund (finale nel 2013) o dello Sporting Club de Portugal.

Tutte queste squadre dimostrano come si possa arrivare a costruire una formazione competitiva pur senza le risorse di chi, alle fasi finali della Champions League, ci arriva tutti gli anni. Evidenziano, insomma, che certi giocatori hanno talento e qualità tecnica che prescindono dal numero di partite giocate, e che possono essere la pietra angolare di un progetto vincente ben distinguibile. «Quando c’è una base di talento», ha scritto Gabriele Marcotti su Espn, «se hai energia, ritmo di lavoro, un’identità forte e uno staff tecnico di livello, allora forse l’esperienza non è così importante. Certamente non così importante come alcuni manager vogliono far credere».

Il Salisburgo aveva e ha l’organico con l’età media più bassa dell’intera Champions League (22,5 anni), eppure ha eliminato Siviglia e Wolfsburg e si è qualificato agli ottavi di finale del torneo per la prima volta nella sua storia (Barbara Gindl/APA/AFP via Getty Images)

È vero che la competitività del Red Bull Salisburgo e quella del Lipsia o dell’Ajax e dello Sporting non è paragonabile a quella delle big d’Europa, nel senso che chi può scegliere i giocatori migliori sul mercato ha inevitabilmente una costanza di risultati che gli altri non possono garantirsi. È quel livello a cui ambisce Antonio Conte, tanto per tornare sulle sue dichiarazioni e sui suoi concetti. Però anche a quei livelli ci si deve arrivare e lo si può fare solo costruendo sulle qualità dei giocatori, prima ancora che sull’esperienza. D’altronde la stessa Inter di Conte ha spaccato il monopolio della Juventus in Serie A con una squadra che aveva in Barella, Hakimi e Bastoni tre pilastri della sua formazione titolare. E si può guardare ancora più in alto: nel 2020 il Bayern Monaco campione d’Europa aveva un’età media di 23,7 anni; l’anno dopo la Champions l’ha vinta il Chelsea di Tuchel con un’età media 25,1 anni. Certo, in entrambi i casi la gioventù e la freschezza di Alphonso Davies e Serge Gnabry, di Mason Mount e Kai Havertz, era bilanciata dal vissuto di Neuer, di Lewandowski e di Thiago Silva e di Kanté. Ma non per questo i giovani non possono essere decisivi: rileggere i nomi di Coman e Havertz nei tabellini delle finali di Champions non basterebbe a spiegare il contributo di questi giocatori alle campagne europee di Bayern e Chelsea.

Andare al mercato del calcio e acquistare esperienza, qualità tecniche, doti atletiche e di tattica individuale significa portarsi a casa i migliori giocatori del mondo: non sono trasferimenti che si vedono tutti i giorni, ancor meno a stagione in corso. Forse Conte avrebbe voluto Bernardo Silva al posto di Bentancur, o Thomas Müller al posto di Kulusevski, ma sono movimenti di mercato rari, legati ad altre esigenze, spesso alla volontà del calciatore. La realtà di tutte le squadre, anche quelle ricchissime della Premier League, è che la costruzione di una formazione competitiva è quasi sempre un processo di sviluppo e adattamento, un percorso di crescita e di ricerca. Un’operazione che si può risolvere aprendo il portafogli in un pomeriggio di gennaio, solo che non è facile. O meglio: non è sempre possibile, e allora bisogna andare in altre direzioni.