Il Milan su cui non tramontava mai il sole

Una recensione de Il Milan col sole in tasca, il nuovo libro di Giuseppe Pastore edito da 66thand2nd.

Più di ogni altra cosa, il Milan di Silvio Berlusconi è stato rappresentativo. Di Berlusconi stesso, ovviamente: di quella parte di Milano, di quell’idea di imprenditoria brianzola, di quel mito della Lombardia, di quel progetto di Paese. Rappresentativo del decennio, cioè degli anni Ottanta: per uno scherzo o un difetto della percezione, il Milan di Berlusconi è sempre parso coperto da uno strato sottile, avvolto in un pellicola finissima di anni Ottanta. Rappresentativo del Paese: quel che verrà dopo l’acquisizione del Milan da parte del futuro ex Cavaliere spiega tutto. Ripensandoci adesso fa impressione vedere come il futuro di Berlusconi, degli anni Ottanta, del Paese fosse tutto scritto a caratteri cubitali sopra il muro rossonero. Fa ancora più impressione ammettere che l’unico con gli occhi per leggere fu proprio Berlusconi.

In tantissime pagine de Il Milan col sole in tasca. Gli anni 1986-1994 di Giuseppe Pastore (edito da 66thand2nd) si ha l’impressione che Berlusconi sia un personaggio di finzione inserito a tradimento dentro una storia vera. Ogni volta che parla, ogni cosa che dice, scatena la stessa reazione sia nell’interlocutore della conversazione che fu sia nel lettore che quegli scambi li scopre oggi: un filo di incredulità, un pizzico di imbarazzo, un sospetto di patologia psichiatrica. Nella prima parte del libro – la più incredibile nel senso letterale del termine, la più avventurosa, la più spassosa – Berlusconi ricorda davvero uno dei protagonisti della letteratura di genere ai quali Pastore lo accosta: Phileas Fogg del Giro del mondo in 80 giorni  di Jules Verne.

Se ne va in giro, Berlusconi, a convincere gli altri della fattibilità di imprese che solo ad accennarle paiono deliranti: la prima volta che rivelò a Galliani di voler costruire una rete televisiva per andare a far concorrenza alla Rai, quello, Galliani, non riuscì a decidere se alzarsi e andarsene, scoppiare a ridere o sentirsi male. Alla fine della stessa conversazione, Galliani cedette a Berlusconi il 50% della Elettronica Industriale, facendo pure lo «sconticino». Il Cavaliere, per convincerlo, aveva approfittato proprio di quell’attimo di titubanza inevitabile di fronte alla grandiosità dei suoi progetti: «E sa perché le ho detto tutto questo? Per darle il tempo di pensare al prezzo, e magari di farmi anche uno sconticino. E sa perché? Perché io sono un fantastico venditore, ma come compratore sono ancora meglio. Allora, quant’è?», questa la conclusione della trattativa tra i due, la trattativa dalla quale nacque Mediaset. Quel giorno Galliani divenne il Pietro di Berlusconi, le antenne della Elettronica Industriale le pietre sulle quali il Cavaliere costruirà la sua chiesa. Da lì il Milan, e poi tutto il resto.

La storia di come Berlusconi ha acquisito il Milan e quella di come lo ha portato a essere il club più rilevante, influente e vincente della sua epoca sono semplicemente impossibili da riassumere: troppi i luoghi, i momenti, i personaggi, le battute, le storie-nella-storia. Immagino sia per questo motivo che Pastore nemmeno ci abbia provato a farsi biografo, a proporsi cronista, a improvvisarsi storiografo. Anche riducendo il Milan di Berlusconi a quel decennio corto che va dal 1986 al 1994 (tocca ammetterlo: quegli anni furono la origin story, gli altri soltanto sequel e reboot, con tutte le valutazioni qualitative che ne conseguono), gli episodi degni di essere raccontati, approfonditi e conosciuti sono troppi. Leggendo il Il Milan col sole in tasca, in vista della scrittura di questo pezzo, ho provato a stilare una lista degli aneddoti indispensabili raccolti nelle più di cinquecento pagine di storia rossonera contemporanea scritte da Pastore. Mi sono dovuto arrendere presto: a un certo punto mi sono accorto che delle prime cinquanta pagine del libro non ce n’era una che non avessi segnato come possibile fonte di citazione.

È la conseguenza inevitabile del lavoro svolto da Pastore, questo. Un lavoro che evidentemente non si è limitato alla raccolta delle conversazioni e alla selezione dei fatti ma che si è spinto più in là, avvicinando l’opera dell’autore più a quella del regista che a quella dello scrittore. Pastore, infatti, spezzetta la storia del Milan col sole in tasca in un’infinità di scene(tte), una frammentazione che è abilissimo a ricomporre tramite un lavoro di taglia e cuci degno del migliore dei montatori cinematografici, un’opera di decoupage tipica del regista. Il risultato è un libro tutt’altro che narrativo (l’unico ordine che tiene assieme i fatti raccontati è quello cronologico, dal meno al più recente) e lineare quanto basta, eppure perfettamente rappresentativo: della storia che vuole raccontare, dell’epoca in cui essa è avvenuta, del protagonista nel quale la stessa si incarna. Da un certo punto di vista, la si potrebbe definire la storia del Milan più milanista che ci sia, in un senso e nell’altro.

Il libro prosegue di mini capitolo in mini capitolo, anche se sarebbe meglio, più giusto, più esatto dire di scenetta in scenetta. Durante la lettura viene in mente il Cinema delle Attrazioni, quel periodo pionieristico della Settima Arte in cui i registi piazzavano la cinepresa in un punto ed erano gli attori a dover entrare e uscire dall’inquadratura a seconda delle necessità narrative. In questo libro, il cast è ricchissimo (anche se il protagonista è sempre uno, sempre quello): Paolo Berlusconi, Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Arrigo Sacchi, solo per citare quelli che non hanno bisogno di presentazione, e ognuno di loro entra ed esce dall’inquadratura della cinepresa piazzata dal regista Pastore per raccontare ogni volta una storiella diversa e però inserita sempre nello stesso mito fondativo, la salita spericolata di Silvio Berlusconi e del suo Milan verso la cima della montagna. Una storia di successo e di successi raccontata come tale, ovviamente, ma dalla quale Pastore non stacca mai le componenti in certi casi solo farsesche, in altri persino grottesche. Per esempio: all’inizio pare che Berlusconi non volesse comprare il Milan perché il suo chiaroveggente di fiducia gli aveva assicurato che l’acquisizione gli avrebbe portato sfiga. Dell’opinione di Moro, questo il nome dello scrutatore nel futuro, Berlusconi avrebbe poi fatto a meno una volta presentatasi l’occasione di prendersi il club rossonero a prezzo di saldo.

Quella raccontata da Pastore è, dunque, una storia, incredibile e stupefacente come ce ne sono state poche nel calcio. Ma non diventa mai mito, non ascende mai a leggenda: gli aspetti leggeri, persino ridicoli della vicenda ne fanno una storia popolare, un racconto folkloristico che, ancora una volta, ha nella rappresentatività il suo pregio maggiore. Il Milan con il sole in tasca riesce in questa maniera a essere persino di più del suo protagonista, uomo larger than life se mai ne è esistito uno: la storia del Milan berlusconiana è popolata di un’infinità di comparse e caratteristi, e il libro traccia una mappa della storia rossonera che collega con linee ben contorte i punti più lontani della Terra. Ancora una volta, ne viene fuori un’opera cinematografica nell’essenza, cioè capace di piegare il tempo e lo spazio a suo piacimento. Che Pastore immagini la storia di Berlusconi e del suo Milan come un’epopea del grande schermo, un’avventura simile al viaggio di Brancaleone e della sua Armata verso la Terra Santa, lo si capisce già nel primo capitolo, illuminatissima e brillantissima analisi della capacità unicamente berlusconiana di cambiare il significato di segni fino a quel momento universalmente riconosciuti (se la Cavalcata delle Valchirie di Wagner è passata dall’essere una marcia mortifera a un motivetto trionfale lo si deve a Berlusconi, a quella mattina del 18 luglio del 1986 in cui decise che avrebbe raggiunto il ritiro del Milan all’Arena di Milano a bordo del suo elicottero personale, introdotto da quella peculiare scelta di colonna sonora).

Ma è nell’ultimo capitolo soltanto che Pastore svela davvero le sue intenzioni, il suo inganno, il suo trucco. E lo fa, ancora una volta, chiedendo un prestito al cinema: «Per raccontare la titanica esistenza del magnate Charles Foster Kane in Quarto Potere, Orson Welles adopera l’escamotage dell’indagine giornalistica attorno a una parola misteriosa, pronunciata in fin di vita dal protagonista: “Rosebud”, la marca di una vecchia slitta con cui Kane giocava da bambino nella neve. Chissà che il destino di Silvio Berlusconi non abbia seguito una simile traiettoria». E chissà che non abbia fatto lo stesso anche Pastore, Orson Welles per il Charles Foster Kane di Berlusconi.