Le notizie di calciomercato, finché non si arriva ai contratti firmati e agli annunci ufficiali dei club, vanno prese e valutate per quelle che sono: indiscrezioni un po’ vere e un po’ costruite, voci che si alimentano di soffiate reali ma anche di semplici suggestioni, di teorie spesso visionarie se non addirittura cospirazioniste. Detto questo, però, va anche sottolineato che l’effettivo passaggio di un calciatore o un allenatore da una squadra “A” a una squadra “B” nasce – almeno giornalisticamente – da questa narrazione ormai consolidata: è sempre più difficile, infatti, che un’operazione anche solo abbozzata sfugga a tutti i radar, soprattutto se parliamo di calcio ai massimi livelli, di nomi di primo piano. In virtù di tutto questo, è giusto porsi una domanda e iniziare una riflessione: quante volte, negli ultimi anni, abbiamo sentito parlare del passaggio di Diego Simeone a un’altra società? Poche, pochissime. Si può dire nessuna, se facciamo il confronto con tutte le voci relative ai colleghi del Cholo, ciclicamente accostati a nuove squadre, a nuove avventure.
Certo, il fatto che non si parli di una nuova squadra per Simeone dipende anche dal contratto gigantesco e quindi blindatissimo che lo lega all’Atlético Madrid: l’ultimo rinnovo ha esteso il rapporto tra le parti fino al 30 giugno 2024, e ha portato lo stipendio del tecnico argentino a toccare quota 22 milioni netti per stagione. Ma siamo pur sempre nell’era del calcio-business, in un momento storico in cui qualsiasi accordo può essere sciolto in poche settimane, persino quello tra Leo Messi e il Barcellona. È bello e forse anche giusto pensare che il legame tra Simeone e l’Atlètico sia ancora più stretto e quindi veramente indissolubile, ma forse ci sono anche altre questioni da esaminare, da pesare. Prima tra tutte: il Cholismo e Diego Simeone potrebbero esistere e resistere altrove?
Per rispondere a questa domanda è necessario storicizzare il Cholismo, comprendere quando, come e perché Diego Simeone abbia dato forma e vita al suo peculiare approccio calcistico – che poi è diventato una sorta di movimento culturale. Il primo utilizzo del termine risale alla fine dell’anno solare 2012: in un’intervista a Cadena Ser, è proprio il tecnico argentino a sdoganare questa definizione, a parlare di «comunione, gruppo, lavoro, rifiuto del compromesso» come concetti-chiave del suo modello tattico, gestionale, emotivo. In realtà Simeone era a Madrid già da un po’: dopo l’esperienza a Catania e un fugace ritorno in Argentina, il Cholo viene assunto dai Colchoneros poche ore prima del Natale 2011; sei mesi dopo solleva al cielo l’Europa League, poi la Supercoppa Europea. La squadra che raggiunge questi successi non ha un’impostazione puramente difensiva, non è costruita sulla volontà/idea di distruggere il gioco dell’avversario, su un profondo – e a volte sgradevole – machismo. Tutt’altro: i successi del 2012 arrivano grazie a un gioco che esalta la qualità tecniche di Arda Turan e soprattutto lo straordinario senso del gol di Radamel Falcao, autore di cinque gol nelle due finali continentali e di 58 reti in 71 partite giocate con la maglia dell’Atlético e con Simeone in panchina.
C’è stato un tempo in cui Radamel Falcao era l’attaccante più forte del mondo. E in cui l’Atlético Madrid era una squadra normale.
Diego Simeone, quindi, inizia a esasperare la dimensione difensiva dell’Atlético Madrid solo in un secondo momento, dopo i primi successi firmati insieme a Falcao. È quasi come se la sua definitiva conversione a un certo sistema tattico e retorico avvenga per compensare l’addio dell’attaccante colombiano e la sua mancata sostituzione: nell’estate che precede la stagione 2013/14, infatti, i Colchoneros cedono El Tigre al Monaco e al suo posto acquistano David Villa dal Barcellona, che però ha già superato i 32 anni, e poi Leo Baptistão dal Rayo Vallecano. Il nuovo centravanti titolare, però, è un giocatore che già da tempo è di proprietà dell’Atleti: si tratta di Diego Costa, una punta che in realtà potrebbe anche fare il lottatore grecoromano o il buttafuori professionista, per quanto è resistente, aggressivo e provocatorio, per la sua predisposizione al duello fisico e al sacrificio, tutte caratteristiche che però non inficiano una grande capacità realizzativa. Le scelte tattiche di Simeone, a questo punto, sono praticamente obbligate: il nuovo Atlético finisce per combaciare perfettamente con il nuovo attaccante di riferimento, cioè si trasforma in una squadra dal carattere arcigno e intimidatorio, difficilissima da affrontare per chiunque, che ama compattarsi nella propria metà campo e poi ripartire in maniera forse elementare, ma anche efficace e talvolta spettacolare.
Tutti questi cambiamenti hanno un effetto balsamico, per non dire miracoloso: i Colchoneros riescono addirittura a vincere la Liga e ad andare a un passo – ma davvero a un passo: il pareggio di Sergio Ramos arriva a pochi secondi dal minuto 93′ – da un assurdo trionfo in Champions League contro il Real Madrid. Come se non bastasse, anche Simeone si trova perfettamente a suo agio in questo nuovo mondo che ha plasmato: il suo innegabile carisma e la tendenza a manifestare le sue emozioni in maniera – a dir poco – plateale si affiancano ai risultati e lo rendono una specie di semidio per tutti i tifosi dell’Atlético, che prendono a venerarlo, a identificarlo come il condottiero emotivo di un popolo in cerca di rivalsa, come un uomo-simbolo che vive il calcio in maniera viscerale, esattamente come fanno loro. In questo senso, uno degli articoli più significativi e illuminanti è stato pubblicato da Vice Sports: nel testo di Rubén Uría, uno dei giornalisti sportivi più autorevoli di Spagna, Simeone viene definito come «il punto di partenza di tutte le cose che riguardano l’Atlético, è senza dubbio il manager più importante nella storia del club. La voce del Cholo rappresenta un’autorità per giocatori, club e tifosi, perché è stato lui a restaurare il loro orgoglio, ha rispolverato il loro spirito, ma al tempo stesso non ha modificato loro identità: i Colchoneros sono ancora diversi dal resto, dagli altri».
Tutte le considerazioni fatte finora e l’articolo di Uría vanno collocati in un arco temporale che arriva fino al 2014, ma in realtà sono parole ancora attualissime, perché si basano su eventi e concetti che esistono anche oggi, otto anni dopo. Se, come abbiamo raccontato, Diego Simeone ha utilizzato – e l’ha fatto benissimo – certi strumenti tecnici e comunicativi per colmare il gap con i club più ricchi e più forti di Spagna e del continente, il fatto che continui a utilizzarli ancora oggi è un segnale piuttosto chiaro di mancata evoluzione. Perché l’Atlético nel frattempo è cresciuto dal punto di vista tecnico ed economico, magari non avrà raggiunto le società contender ma gli si è avvicinato molto: nell’ultimo anno prima della pandemia, i ricavi complessivi dei Colchoneros avevano toccato quota 367.6 milioni di euro contro i 169.9 del 2014; contestualmente il valore della rosa è passato da 336 a 646 milioni, sempre considerando il periodo 2014-2022; la società ha costruito un nuovo bellissimo stadio, ed è arrivata a pagare 127 milioni di euro per un solo calciatore (João Felix).
È come se la presenza e le scelte di Simeone condannassero l’Atlético Madrid a non poter essere altro che questo. Nonostante le trasformazioni interne al club, nonostante i cambiamenti di contesto. È una sensazione condivisa, che attiva degli stranissimi cortocircuiti di senso: secondo El País la sconfitta per 1-2 nella semifinale della Supercoppa di Spagna, uno dei risultati deludenti colti nel corso di questa stagione, è arrivata perché «l’Atlético Madrid ha sofferto l’assenza di Cholismo, la mancanza di quelle virtù difensive, quell’intensità e quel piano di gioco definito che hanno caratterizzato l’era di Simeone», e non perché magari la squadra colchonera avrebbe potuto giocare meglio. Forse il problema è proprio questo: il Cholo ci ha anche provato a cambiare le cose, nel corso degli anni ha effettivamente fato un tentativo di assemblare una squadra più sofisticata e meno speculativa, attraverso il mercato (sono arrivati grandi talenti offensivi come Mandzukic, Griezmann, Jackson Martínez, Nicolás Gaitán, Thomas Lemar, João Félix, Álvaro Morata, Luís Suárez) e l’adozione di schieramenti e meccanismi di gioco più ambiziosi. Solo che poi è tornato indietro non appena ha annusato il semplice presagio del fallimento, senza concedersi e senza concedere il tempo per una prova d’appello. Per provare a cambiare davvero le cose.
Pochi giorni fa, prima della gara d’andata contro il Manchester United, The Athletic ha pubblicato un articolo in cui venivano descritte «le frustrazioni di João Felix per il gioco della sua squadra, una sensazione familiare per molti calciatori dell’Atlético Madrid». Quest’ultimo appunto fa riferimento ai tanti calciatori di talento che sono arrivati ai Colchoneros e non sono riusciti a brillare davvero: tra gli attaccanti citati finora in questa analisi, solo Diego Costa e Griezmann sono riusciti a sviluppare le sue doti e a migliorare il loro status nel corso dell’esperienza con Simeone. Sarebbe superficiale imputare tutte le altre mancate esplosioni al gioco amato e praticato dall’allenatore argentino, ogni storia fa storia a sé, ma si può anche pensare e dire che tanti indizi non possono essere una coincidenza. E il fatto che Diego Costa e Griezmann siano tornati all’Atlético dopo delle esperienze in chiaroscuro contribuisce a chiudere un po’ di cerchi.
Un altro aspetto di cui tener conto è quello relativo alla percezione globale del calcio, al fatto che questo sport, negli ultimi anni, abbia dovuto sviluppare anche una forte componente di intrattenimento: Julian Nagelsmann, intervistato recentemente da L’Équpe, ha spiegato che «è importante considerare il calcio anche come uno show. Alla fine il risultato ha la precedenza, ma possiamo sempre ottenerlo in un modo tale che sia emozionante. È un po’ come andare a un concerto: se compri un biglietto a 100 euro, è bene che il chitarrista vada oltre una o due note ben intonate». Ecco, in un contesto del genere, e che va sempre più in questa direzione, Diego Simeone è un allenatore decisamente fuori tempo. Magari non fuori luogo, ma certamente fuori tempo.
Ecco, forse abbiamo risposto alla domanda iniziale, forse abbiamo individuato i motivi per cui Simeone non viene accostato alle panchine di altre squadre, per cui le voci di mercato su di lui sono meno frequenti e insistenti rispetto a quelli che riguardano i suoi colleghi: la comfort zone che ha disegnato e poi ha occupato all’Atlético Madrid non è riproducibile altrove, nel senso che nessun top club sembrerebbe disposto ad accettare il programma politico e il compromesso Cholista, nessun proprietario e forse anche nessun tifoso potrebbe sacrificare a priori lo spettacolo di un calcio non per forza offensivo, ma quantomeno non totalmente schiacciato, appiattito sulla fase difensiva. Sull’altro braccio della bilancia ci sono ovviamente le vittorie ottenute dall’Atlético Madrid – su tutti i due successi in Liga, i due trionfi in Europa League e le due finali di Champions perse in maniera rocambolesca – e la crescita del club, eventi in tutto e per tutto legati al calcio di Simeone. Solo che i risultati, oggi, sono solo una parte del tutto. Sono e restano la parte più importante, ci mancherebbe, ma ci sono anche altri aspetti di cui tener conto: l’identità calcistica è diventata un brand, e forse quella di Simeone è un po’ passata di moda. O magari è diventata un limite. Per lui e per l’Atlético Madrid. Almeno fino alla prossima vittoria, al prossimo grande exploit, alla prossima meritata celebrazione. Nel frattempo, però, ci sarà stato troppo poco da guardare e da offrire per riempire gli inevitabili buchi, anche solo un’idea di crescita, di progresso tecnico e tattico: una sensazione che all’Atlético Madrid, semplicemente, non esiste. E se i Colchoneros, per riconoscenza e forse anche per convenienza, hanno deciso di voler essere questo, di poter essere questo e nient’altro, gli altri top club vanno tutti, o quasi, nella direzione opposta rispetto a quella di Simeone. Magari non è un caso.